Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

lunedì 25 agosto 2014

L’auto-consapevolezza è l’esatta natura di ‘io’



di Michael James

Venerdì 1 Agosto 2014

Il mese scorso un amico chiamato Venkat mi ha posto diverse domande in una serie di tre commenti che ha scritto ad uno dei miei recenti articoli, ‘Is consciousness a product of the mind?’, pertanto questo articolo è scritto in risposta alle sue domande.
Nel suo primo commento ha scritto:

Molte grazie per la tua risposta. Concordo che non è possibile conoscere se il mondo esterno (e il corpo-mente) esiste indipendentemente dalla sua percezione. In egual misura, non penso che sia possibile provare che il mondo è solo un’illusione, una percezione nella consapevolezza.

Così concordo che uno deve esaminare/domandare cos'è l’ ‘io’. Tu vuoi dire che il risultato di questo è la certezza che solo la consapevolezza è reale e tutto il resto (includendo il ‘mio’ corpo-mente) è un’illusione.

Tu hai commentato in questo blog, che l’ ‘io sono’ di Bhagavan può essere comparato alla consapevolezza che è consapevole della consapevolezza di una percezione, e che dovremmo rivolgere la nostra attenzione a questa consapevolezza. Ma è possibile essere ‘consapevoli della consapevolezza che è consapevole?’ poiché secondo il neti neti del Vedanta, uno non può essere consapevole di questa consapevolezza, ma può solo ESSERE questa consapevolezza, come io penso che Bhagavan dica.

Di conseguenza, due domande. Prima di tutto,  il punto di questa attenzione sulla consapevolezza è il riconoscere che la sensazione di ‘io’ è solo un’altra percezione che sorge, equivalente a tutte le altre percezioni ed è neti neti [non questo, non questo]?
E secondo, cosa significa ESSERE consapevolezza?




Sì, concordo che proprio come non possiamo conoscere che il nostro corpo e questo mondo esistono indipendentemente dalla nostra esperienza di essi, egualmente non possiamo conoscere che non esistono indipendentemente dalla nostra esperienza di essi. In altre parole, non possiamo conoscere se la loro apparente esistenza è un’illusione creata dalla mente o no, sebbene non ci sia dubbio che la nostra mente gioca almeno un ruolo primario nel creare l’immagine mentale di questo corpo e del mondo che sperimentiamo. Cioè, ciò che realmente sperimentiamo non è qualche corpo o mondo come tale, ma solo un’immagine mentale di essi consistente di visioni, suoni, gusti, odori e sensazioni tattili sempre mutevoli, e sembriamo non in grado di accertarci se questa immagine mentale è creata interamente dalla nostra mente, come nel sogno, o è almeno parzialmente causata da qualcosa (qualche vero corpo e mondo) che è esterno o indipendente dalla nostra mente.

Il solo possibile strumento che abbiamo per accertarci se tutte queste cose che sperimentiamo sono un’illusione o no è investigare noi stessi, l’ ‘io’ che li sperimenta, e perciò sperimentare ciò che questo ‘io’ è realmente. Una volta che conosciamo ciò che questo ‘io’ è realmente, possiamo essere in grado di conoscere se tutto ciò che esso sperimenta è creato unicamente da esso o è in qualsiasi modo o a qualsiasi misura causato da qualcosa che esiste indipendentemente da esso.

Quando Venkat ha scritto, ‘Tu hai commentato in questo blog, che l’ ‘io sono’ di Bhagavan può essere comparato alla consapevolezza che è consapevole della consapevolezza di una percezione’, si stava riferendo al seguente paragrafo che ho scritto in un altro recente articolo, ‘Since we always experience ‘I’, we do not need to find ‘I’, but only need to experience it as it actually is’:



Per esempio, se sono consapevole della presenza o assenza di rumore di traffico all’esterno, quella consapevolezza di rumore o di non rumore non è ‘io’, perché io sono ciò che sperimenta quella consapevolezza. In modo simile, la consapevolezza che i pensieri sono presenti o che essi sembrano essere assenti non è ‘io’, perché io sono ciò che sperimenta quella consapevolezza, così dare attenzione a quella consapevolezza non è dare attenzione a ‘io’.  Comunque, se diciamo che io sono la consapevolezza che è consapevole della consapevolezza della relativa assenza di pensiero, nel primo di questo due sensi la parola ‘consapevolezza’ si riferisce a ‘io’. Quindi ‘consapevolezza’ è un termine ambiguo, così in questo contesto può condurre a confusione e malinteso (che è per inciso perché la descrizione popolare della pratica di  ātma-vicāra come ‘consapevolezza che osserva la consapevolezza’ può essere facilmente malintesa ed è quindi potenzialmente  ingannevole).

Quindi, quando ho scritto ‘ se diciamo che io sono la consapevolezza che è consapevole di quella consapevolezza della relativa assenza di pensiero’,  non intendevo suggerire che c’è più di una consapevolezza che è consapevole, ma intendevo solo sottolineare l’ambiguità della parola ‘consapevolezza’. Per esempio, se dico che io sono ora consapevole che è caldo, la mia consapevolezza che è caldo non è ‘io’, perché quella consapevolezza è un’esperienza temporanea. Comunque io posso essere descritto come la consapevolezza che è ora consapevole che è caldo, così in questo senso io sono la consapevolezza che è consapevole di quella consapevolezza che è caldo. Quando parlo della mia consapevolezza che è caldo, ‘consapevolezza’ qui significa ciò di cui  io sono consapevole, mentre quando dico che io sono la consapevolezza che è consapevole che è caldo, ‘consapevolezza’ qui significa ciò che è consapevole. In altre parole, il primo uso di ‘consapevolezza’ si riferisce a un’esperienza (ciò che è sperimentato) mentre il secondo uso si riferisce allo sperimentatore (ciò che sperimenta).

L’ambiguità della parola ‘consapevolezza’ può essere ulteriormente illustrata da un altro esempio.

Anche se non sperimento realmente qualcosa, posso ancora dire di essere consapevole di esso. Per esempio, posso dire che io sono consapevole che Mosca è la capitale della Russia, anche se non sono mai stato a Mosca e nemmeno in Russia. La mia consapevolezza che Mosca è la capitale della Russia non è un’esperienza ma solo una parte d’informazione o conoscenza generale che ho acquisito da varie sorgenti, così essa certamente non è ‘io, ma è solo un’informazione che possiedo.

Quindi sebbene ‘consapevolezza’ e ‘coscienza’ siano termini che a volte sono usati per riferirsi a quello che è consapevole o conscio, vale a dire ‘io’, non necessariamente e non in tutte le circostanze esse di riferiscono a questo. Più spesso si riferiscono soltanto a qualunque cosa di cui accada, a me (‘io’) o a chiunque altro di essere consapevole o conscio.

Quindi parole come ‘consapevolezza’ e ‘coscienza’ sono ambigue, perché ciò a cui si riferiscono esattamente dipende dal contesto in cui sono usate, così per evitare ogni ambiguità è spesso preferibile usare semplicemente la parola ‘io’, che indica chiaramente ciò che è consapevole o conscio.

Se ‘io’ è ciò che Venkat intende con ‘consapevolezza’ quando dice ‘uno non può essere consapevole di questa consapevolezza, uno può solo ESSERE questa consapevolezza’, noi ovviamente possiamo essere consapevoli di questa consapevolezza, perché l’esatta natura di ‘io’ è essere consapevole di se stesso.  Oltre che ‘io’ solamente, niente di ciò che sperimentiamo è consapevole di se stesso, così l’apparente esistenza di qualsiasi altra cosa è dipendente dal nostro essere consapevoli di essa. Se non fossimo consapevoli del mondo, esso non sembrerebbe esistere. Quindi ‘io’ (noi stessi) è non solo auto-consapevole ma anche auto-esistente, mentre nient’altro è o auto-consapevole o evidentemente auto-esistente (perché anche se supponiamo che qualche altra cosa sia auto-esistente, la sua presunta esistenza non è sperimentata a meno che ‘io’ non sia consapevole di essa, così la loro presunta auto-esistenza è solo una supposizione e non può mai essere accertata dall’esperienza).

Se ‘io’ non fosse consapevole di se stesso, non sarebbe ‘io’, perché ‘io’ è una parola che essenzialmente significa ciò che è auto-consapevole.  Ogni cosa che non è auto-consapevole non sperimenta se stessa come ‘io’, così i termini ‘auto-consapevolezza’ e ‘io’ si riferiscono essenzialmente alla stessa cosa – la stessa entità che sperimenta se stessa. ‘Io’ sperimenta se stesso come ‘io’ perché è auto-consapevole, e qualunque cosa è auto-consapevole è consapevole di se stessa come ‘io’, la prima persona, il soggetto di tutta l’ulteriore esperienza (semmai essa sperimenta qualcosa diversa da se stessa).

A differenza della consapevolezza che abbiamo di qualunque altra cosa, che è temporanea e quindi non ‘io’, la nostra consapevolezza di noi stessi è ‘io’, noi stessi, perché è permanente e perché l’auto-consapevolezza è perfettamente non-duale – cioè, è priva anche della minima dualità, divisione o alterità. Quindi l’ ‘io’ che è consapevole di se stesso, il se stesso di cui è consapevole,  e la consapevolezza che esso ha di se stesso sono un tutt’uno indivisibile. La sua auto-consapevolezza non è solamente consapevolezza di ‘io’, ma è consapevolezza che realmente è ‘io’. La sua consapevolezza di se stesso è se stesso, perché la sua esatta natura è auto-consapevolezza.

Quindi, sebbene ‘io’ sia sempre auto-consapevole, non è consapevole di se stesso come un oggetto (come lo è di ogni altra cosa), neppure è consapevole di se stesso per mezzo di qualche atto di cognizione o di venire a conoscere (come lo è di ogni altra cosa), perché è consapevole di se stesso solo per essere se stesso, poiché l’auto-consapevolezza è la sua esatta natura.

Per questo Sri Ramana dice nel verso 26 del Upadēśa Undiyār: 

தானா யிருத்தலே தன்னை யறிதலாந்
தானிரண் டற்றதா லுந்தீபற
      தன்மய நிட்டையீ துந்தீபற. 


ā yiruttalē taṉṉai yaidalān
ira aṯṟadā lundīpaa
      ta
maya niṭṭhaiyī dundīpaa.


பதச்சேதம்: தானாய் இருத்தலே தன்னை அறிதல் ஆம், தான் இரண்டு அற்றதால். தன்மய நிட்டை ஈது. 

Padacchēdam (separazione delle parole): -āy iruttal-ē taṉṉai aidal ām, tā iraṇḍu aṯṟadāl. tamaya niṭṭhai īdu.

Traduzione: Essere se stesso solamente è conoscere se stesso, perché se stesso è privo di due. Questo è tanmaya-niṣṭha  [lo stato di essere fermamente stabilito come tat, ‘esso’ o ‘quello’, l’unica realtà assoluta chiamata brahman]. 

அற்றதால் (aṯṟadāl)  è la forma strumentale di un passato di participio di un sostantivo neutro di terza persona che significa letteralmente ‘essendo cessato’, ‘essendo stato separato’ o ‘essendo stato separato da’, così in effetti esso significa ‘essendo privo di’ o ‘poiché è privo di’, o semplicemente ‘poiché non è’. Quindi la proposizione finale della prima frase di questo verso, தான் இரண்டு அற்றதால் ( iraṇḍu aṯṟadāl),  significa ‘poiché se stesso è privo di due’ o ‘poiché se stesso non è due’, e quindi ciò implica che se stesso non consiste di due sé separati, un sé che è conosciuto come un oggetto e un altro sé che come un soggetto lo conosce. E’ solo uno e completamente privo di ogni dualità come soggetto-oggetto.

Dato che ‘io’ (noi stessi) è singolo, non-duale, indivisibile e auto-consapevole, esso conosce se stesso semplicemente essendo se stesso.

Venkat suggerisce che ‘la percezione di ‘io’ è solo un’altra percezione  che sorge, equivalente a tutte le altre percezioni’, ma non può essere questo il caso, poiché ‘io’ è ciò che sperimenta tutte le altre percezioni, e diversamente da ogni altra percezione, è cosciente. In ogni caso, ciò che ora sperimentiamo come ‘io’ è una mescolanza del nostro puro ‘io’, che è cosciente, ed il nostro corpo, che non è cosciente, così da questa mescolanza dobbiamo separare il nostro puro ‘io’ al fine di sperimentarlo come è, senza essere mischiato con qualsiasi altra cosa. Questo è il perché dobbiamo cercare di dare attenzione solamente a ‘io’.

Quando diamo attenzione solo a ‘io’, noi siamo semplicemente l’auto-consapevolezza che sempre siamo realmente, mentre quando diamo attenzione a qualsiasi altra cosa, diveniamo consapevoli di cose che sembrano essere diverse da noi stessi. Essere consapevoli di qualsiasi altra cosa diversa da noi stessi non è per noi naturale, perché è uno stato temporaneo che sorge nella veglia e nel sogno e cessa di esistere nel sonno, così mentre l’auto-consapevolezza è ‘io’, la consapevolezza di qualsiasi altra cosa non è ‘io’. Quindi essere auto-attenti è il nostro stato naturale di pura auto-consapevolezza, pertanto è uno stato di essere solamente (summā-v-iruppadu), uno stato in cui siamo semplicemente ciò che sempre siamo, mentre dare attenzione e sperimentare qualsiasi altra cosa  diversa da noi stessi è uno stato di azione o di ‘fare’, poiché esso comporta un movimento della nostra attenzione lontano da noi stessi, la sua sorgente.

Nel suo secondo commento Venkat ha scritto:

Giusto per elaborare la mia domanda, la Brihadaranayaka Upanishad  dichiara alquanto meravigliosamente:

“ Per mezzo di cosa si dovrebbe conoscere Quello a causa del quale tutto questo è conosciuto? Questo Sé è Quello che è stato descritto come neti, neti [‘non questo, non questo’]. E’ impercettibile,  dato che non è mai percepito;  non decadente, dato che esso mai decade; senza impedimenti – esso mai sente dolore e mai soffre danno. Per mezzo di cosa si dovrebbe conoscere il Conoscitore?”


Questo sembrerebbe  puntare alla conclusione che qualsiasi cosa percepita, includendo la percezione/pensiero di ‘io’ non è esso – perché è percepito. Quindi si deve regredire per vedere che tutte le percezioni accadono su uno schermo di consapevolezza, e non c’è differenziazione in quelle percezioni di ‘io, tu, ecc.

Considerando questo passaggio dalla Bhadārayaka Upaniad, non possiamo conoscere noi stessi come un oggetto (come conosciamo tutte le altre cose), ma conosciamo noi stessi semplicemente essendo noi stessi, poiché l’auto-consapevolezza  è la nostra esatta natura. La questione che affrontiamo non è come conoscere noi stessi, perché sempre conosciamo noi stessi, ma come conoscere noi stessi come siamo realmente. Ora conosciamo noi stessi mischiati con attributi estranei (upādhis), tali come questo corpo e questa mente, così per conoscere noi stessi come siamo realmente dobbiamo sperimentare noi stessi solamente, in completo isolamento da tutti gli attributi estranei. Come Sri Ramana dice nel verso 25 di Upadēśa Undiyār:

தன்னை யுபாதிவிட் டோர்வது தானீசன்
றன்னை யுணர்வதா முந்தீபற
      தானா யொளிர்வதா லுந்தீபற.

taṉṉai yupādhivi ōrvadu tāīśa
ḏṟaṉṉai yuarvadā mundīpaa
      tā
ā yoirvadā lundīpaa.

பதச்சேதம்: தன்னை உபாதி விட்டு ஓர்வது தான் ஈசன் தன்னை உணர்வது ஆம், தானாய் ஒளிர்வதால்.

Padacchēdam (separazione delle parole): taṉṉai upādhi viṭṭu ōrvadu tā īśa taṉṉai uarvadu ām, tā-āy oirvadāl. [...]

Traduzione: Sperimentando se stesso, avendo rinunciato [ai propri] attributi, esso stesso sperimenta  Dio lui stesso, perché [egli] risplende come se stesso.


In questo contesto la parola ஈசன் (īśa) o ‘Dio’ denota brahman, l’unica infinita ed assoluta realtà, così la preposizione finale, தானாய் ஒளிர்வதால் (-āy oirvadāl), ‘perché [Dio] risplende come se stesso’, indica che quell’infinita realtà è ciò che noi sempre siamo realmente.

Quindi il significato di questo verso è che se sperimentiamo noi stessi senza alcun attributo (upādhis), staremo sperimentando noi stessi come realmente siamo.

Qualsiasi cosa è percepita o sperimentata come un oggetto (qualcosa diversa dall’ ‘io’ che sperimenta) è percepita o sperimentata da un ‘io’ che sperimenta se stesso come qualcosa di separato. Questo ‘io’ non è semplicemente il nostro puro ‘io’ (ciò che realmente siamo), ma il nostro puro ‘io’ mischiato con attributi, così finché percepiamo o sperimentiamo qualsiasi cosa diversa da ‘io’, non stiamo sperimentando noi stessi come siamo realmente, perciò abbiamo bisogno di cercare di sperimentare noi stessi solamente focalizzando la nostra intera attenzione solo su ‘io’.

Fino a che percepiamo o sperimentiamo qualsiasi cosa diversa da  ‘io’, sperimenteremo differenze tra ciascuna di quelle altre cose e tra tutte quelle altre cose e ‘io’, così a meno che sperimentiamo noi stessi solamente, non possiamo sperimentare uno stato privo di differenziazione. Nel sonno sperimentiamo temporaneamente uno stato privo di differenziazione, ma poiché entriamo nel sonno solo a causa di sfinimento e non a causa di un chiaro sperimentare noi stessi come siamo realmente, presto o tardi sorgeremo dal sonno e sperimenteremo nuovamente uno stato di differenziazione o nella veglia o nel sogno. Quindi, al fine di essere permanentemente liberi da tutte le differenziazioni, dobbiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente, e possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente solo sperimentando noi stessi solamente, senza alcun attributo.

Nel suo terzo commento Venkat ha scritto:

Spiacente di elaborare nuovamente. Bhagavan disse: ‘Sii quieto e immobile e tutti i pensieri scompariranno. Auto-indagine e auto-abbandono sono solo tecniche che conducono allo stato di immobilità e calma interiore. L’istruzione definitiva è quindi: ‘Sii immobile e quieto; stabilizzati in questo stato e il Sé sarà rivelato’ ”.

La mia comprensione è che il pensiero-io, è l’illusione fondamentale… che questo corpo-mente è distinto, separato e ‘mio’ relativamente a tutto il resto. Così per realizzare ajata vada [la dottrina che non c’è creazione] e la non-dualità,  il pensiero stesso ha bisogno di vedere che è limitato e quindi giungere a una fine. La tecnica di Bhagavan per questo è focalizzarsi all’origine di tutti gli altri pensieri – il pensiero-‘io’, ogni volta sorge, e quindi vedere che non è differente da tutti gli altri pensieri e percezioni, e come tutti quelli, appare su uno schermo di consapevolezza. E’ corretto?

 Venkat è nel giusto dicendo che il pensiero-‘io’ (il pensiero che chiamiamo ‘io’, che è il nostro ego) è la nostra illusione fondamentale, ma non è un pensiero come altri pensieri, perché mentre tutti gli altri pensieri sono non-coscienti e quindi sperimentati solo da questo pensiero chiamato ‘io’, questo pensiero chiamato ‘io’ è una mescolanza del nostro puro ‘io’, che è cosciente (cit), con attributi estranei, che sono non-coscienti (jaa). Quindi questo ego o pensiero chiamato ‘io’ è definito cit-jaa-granthi, il nodo (granthi) che lega insieme il cosciente e il non-cosciente come se fossero uno.

Quindi al fine di sperimentare il nostro puro ‘io’ (ciò che siamo realmente) abbiamo bisogno di separarlo da tutti gli attributi estranei con cui è ora mischiato, e il solo modo per fare ciò è cercare di dare attenzione a ‘io’ solamente. Questo tentativo di dare attenzione  e sperimentare ‘io’ solamente è la pratica che Bhagavan chiama  ātma-vicāra o auto-investigazione.

Venkat suggerisce che ‘il pensiero stesso ha bisogno di vedere che è limitato e quindi giungere a una fine’, ma nessun pensiero diverso dal pensiero ‘io’ può vedere qualsiasi cosa, e questo pensiero chiamato ‘io’ sperimenta già se stesso come limitato. Quindi esso non giunge ad una fine semplicemente vedendo che è limitato. Al fine di giungere a una fine (cioè, cessare di essere l’entità finita che ora sembra essere), deve sperimentare se stesso come realmente è. Quando sperimenta se stesso come realmente è, cesserà di sperimentare se stesso come qualcuno degli attributi (come corpo e mente) che ora sperimenta come se stesso, e così cesserà di essere un ‘io’ mischiato con attributi che ora sembra essere, e rimarrà invece come il puro ‘io’ che sempre è realmente.

Riguardo alle parole di Bhagavan Ramana che Venkat ha citato, sospetto che queste non siano le sue parole esatte, ma l’idea che esse trasmettono  è certamente in accordo con i suoi insegnamenti essenziali. La frase ‘Auto-indagine e auto-abbandono sono solo tecniche che conducono allo stato di immobilità e calma interiore’ è vero nel senso che quando pratichiamo ātma-vicāra (auto-investigazione o auto-indagine), stiamo cercando di sperimentare noi stessi solamente focalizzando la nostra intera attenzione solo su ‘io’, e dato che l’auto-attenzione non è un’azione ma il nostro stato naturale di solo essere (summā-v-iruppadu),  è uno stato in cui siamo perfettamente quieti e fermi. E dato che i pensieri sorgono solo quando diamo attenzione a qualsiasi cosa diversa da ‘io’ (davvero i pensieri non sono altro che l’attenzione che diamo ad altre cose), quando rimaniamo perfettamente quieti e fermi dando attenzione solo a ‘io’, tutti i pensieri  scompariranno automaticamente.

Riguardo l’auto-abbandono, è lo stato in cui non sorgiamo come un ‘io’ che sembra essere separato da Dio, l’unica realtà infinita che sempre risplende all’interno di noi come il nostro più intimo sé, e il solo modo per evitare il sorgere di un tale ‘io’ separato è dare attenzione solo a noi stessi. Come Sri Ramana dice nel tredicesimo paragrafo di Yār?  (Chi sono io?)

 ஆன்மசிந்தனையைத் தவிர வேறு சிந்தனை கிளம்புவதற்குச் சற்று மிடங்கொடாமல் ஆத்மநிஷ்டாபரனா யிருப்பதே தன்னை ஈசனுக் களிப்பதாம். [...] 

āma-cintaaiyai-t tavira vēu cintaai kiambuvadaku-c caṯṟum iam-koāmal ātma-niṣṭhā-para-āy iruppadē taṉṉai īśaukku aippadām. […]

Essere completamente assorbiti in ātma-niṣṭ [auto-dimorare, lo stato di essere semplicemente ciò che siamo realmente], non dando anche il minimo spazio al sorgere di qualsiasi pensiero diverso da ātma-cintanā [auto-contemplazione, il ‘pensiero’ di se stessi], è donare se stessi a Dio. […]

Quindi ‘auto-abbandono’ è solo un altro nome per ātma-vicāra o auto-investigazione – un altro modo di concettualizzare la stessa pratica – così la pratica effettiva di auto-abbandono è identica alla pratica di ātma-vicāra.  Sia che la concepiamo come l’investigare noi stessi al fine di sperimentare noi stessi come siamo realmente, sia come l’arrendere noi stessi interamente al fine di non rimanere separati da Dio, ciò che effettivamente abbiamo bisogno di praticare è l’essere consapevoli di niente altro che noi stessi solamente. Dato che essere consapevoli di noi stessi solamente è il nostro stato naturale di essere semplicemente come realmente siamo, auto-investigazione o auto-abbandono è il solo strumento con cui possiamo sperimentare noi stessi come realmente siamo e quindi essere permanentemente stabiliti nel nostro stato naturale di assoluta immobilità, quiete o silenzio.






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