Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

mercoledì 17 dicembre 2014

La necessità di manana e vivēka: riflessione, pensiero critico, discriminazione e giudizio



In molti commenti recenti in questo blog, in modo particolare in articoli come La nostra memoria di ‘io’ nel sonno, Perché dovremmo credere che ‘il Sé’ è come lo crediamo essere?, C’è una cosa come una persona ‘auto-realizzata’? e Tranne noi stessi, non ci sono segni o pietre miliari sul sentiero della scoperta di sé, vari amici hanno mostrato una tendenza e una prontezza ad accettare acriticamente qualsiasi  cosa certe persone hanno scritto o detto. Credere acriticamente qualsiasi cosa possiamo leggere o sentire è pericoloso, anche se crediamo che chiunque abbia scritto o detto ciò sia un’autorità, perché se non usiamo i nostri poteri di pensiero critico e discriminazione (vivēka) siamo soggetti a essere ingannati nel credere in molte idee e interpretazioni errate, che offuscherebbero e confonderebbero la nostra comprensione e potrebbero deviarci lontano dal retto sentiero dell’auto-investigazione (ātma-vicāra).

  1. Manana in relazione a śravaṇa e nididhyāsana
  2. Vivēka in relazione a manana
  3. Pensiero critico
  4. La perseveranza è il solo vero segno di progresso
  5. Il pericolo di non usare vivēka e di non pensare criticamente
  6. Gli insegnamenti di Sri Ramana e Nisargadatta sono significativamente differenti
  7. Credere acriticamente all’autorità è un nemico di vivēka
  8. La confusione esiste anche nelle menti di sinceri devoti
  9. Dovremmo essere cauti con deduzioni non ben fondate
  10. Conclusioni 
  
1. Manana in relazione a śravaṇa e nididhyāsana

Nella filosofia advaita il mezzo per ottenere vera conoscenza è descritto generalmente come un triplice processo di śravaṇa, manana e nididhyāsana. Śravaṇa significa letteralmente udire, ma in questo contesto significa in modo specifico udire o leggere parole che indicano la natura della realtà e il mezzo per ottenerla; manana significa il pensare, riflessione o attenta considerazione, così in questo contesto significa pensare attentamente, chiaramente, profondamente e criticamente su ciò che è stato sentito o letto; e nididhyāsana significa contemplazione o profonda meditazione, che nel contesto degli insegnamenti di Sri Ramana significa auto-contemplazione, così è sinonimo per la pratica di auto-investigazione (ātma-vicāra).

L’unica parte di questo processo a essere assolutamente essenziale è nididhyāsana, perché è teoricamente possibile sperimentare noi stessi come siamo realmente solo per mezzo di  ātma-vicāra senza alcuna śravaṇa o manana preparatoria, ma in pratica questo succede solo in casi estremamente rari come nel caso di Sri Ramana, che ottenne la vera conoscenza di sé per mezzo di un singolo tentativo di investigare se stesso senza mai aver fatto alcuna śravaṇa, e quindi senza aver fatto alcuna manana tranne che il proprio indipendente atto di pensare. La maggior parte di noi non avrebbe mai cercato con persistenza di investigare ciò che siamo realmente se non avessimo letto gli insegnamenti di Sri Ramana (o almeno qualcosa di simile) e pensato attentamente a essi, così per la maggioranza di noi śravaṇa e manana sono necessari per metterci in viaggio su questo sentiero di auto-investigazione e guidarci, motivarci e incoraggiarci nella nostra pratica persistente.

La necessità di śravaṇa è abbastanza ovvia, ma la necessità di manana è spesso non considerata o trascurata. Non possiamo imparare qualcosa solamente leggendola, ma abbiamo anche bisogno di pensare a essa per comprendere, assorbire e assimilare qualsiasi cosa stiamo leggendo, così tutti noi facciamo naturalmente una certa dose di manana sia mentre leggiamo sia dopo aver letto o ascoltato, ma molti di noi non pensano abbastanza attentamente, chiaramente, profondamente o criticamente agli insegnamenti di Sri Ramana o a qualsiasi altra cosa che possiamo leggere o ascoltare. Come nididhyāsana, manana è un’arte che impariamo con la pratica, così quando all’inizio pensiamo ai suoi insegnamenti la nostra manana probabilmente non sarà particolarmente chiara, profonda o critica, ma più riflettiamo su di essi e cerchiamo di praticare ātma-vicāra, più la nostra manana diventerà chiara, profonda e discriminante.  

La pratica di ātma-vicāra e la filosofia su cui è basata sono entrambe molti sottili e sfumate, così non possiamo comprenderle chiaramente e correttamente solo ascoltandole o leggendole superficialmente, ma pensando a esse attentamente e criticamente. Quindi per trarre un reale beneficio da śravaṇa dobbiamo anche fare manana in modo più attento, critico e discriminante possibile, perché senza una chiara comprensione derivata da una tale manana non saremo in grado di fare nididhyāsana in modo appropriato. Questo è il motivo per cui Adi Sankara disse nel verso 364 di Vivēkacūḍāmaṇi (o 365 in alcune versioni) che il beneficio di manana è un centinaio di volte più grande di quello di śravaṇa, e che il beneficio di nididhyāsana è centomila di volte più grande di quello di manana.

Comunque śravaṇa, manana and nididhyāsana non sono tre processi interamente distinti, perché mentre leggiamo o ascoltiamo dovremmo anche riflettere profondamente, e quando riflettiamo profondamente sul soggetto di ciò che siamo realmente, la nostra riflessione (manana) dovrebbe fondersi naturalmente nell’attentiva contemplazione di noi stessi. In questo modo śravaṇa alimenta manana, e manana alimenta nididhyāsana, la pratica di auto-attentività o auto-investigazione. Manana è quindi il ponte che collega ciò che impariamo leggendo o ascoltando gli insegnamenti di Sri Ramana con la pratica di ātma-vicāra, così la qualità della nostra pratica sarà influenzata fortemente dalla qualità della nostra manana.

Ci sono diverse ragioni perché manana è così importante e ha una così forte influenza sulla nostra pratica di auto-investigazione. Una ragione è che manana fatta profondamente e ripetutamente ci mette in grado di interpretare il significato dei suoi insegnamenti più chiaramente e con più precisione.

L’interpretazione gioca un ruolo centrale in ogni forma di percezione, e il suo ruolo è forse più ovvio nel caso di leggere o ascoltare parole. Quando leggiamo o ascoltiamo un linguaggio con cui non abbiamo familiarità, non siamo in grado di interpretarlo, così non possiamo vedere in esso un significato, mentre quando leggiamo o ascoltiamo qualcosa in un linguaggio che conosciamo, siamo in grado di interpretarlo e quindi di vedere in esso un significato. Tuttavia due persone che leggono o ascoltano la stessa frase non vedranno necessariamente in essa lo stesso significato, perché ciascuna di loro interpreta  in modo differente secondo le loro convinzioni, idee e comprensione.

Possiamo vedere questo in noi stessi quando leggiamo gli insegnamenti di Sri Ramana. Quando li leggiamo ora, probabilmente possiamo vedere in essi molti più significati di quanti ne vedevamo quando abbiamo iniziato a leggerli. Mentre studiamo sempre di più i suoi insegnamenti e cerchiamo di metterli in pratica, la nostra comprensione di essi matura, così siamo in grado di vedere in essi significati che non vedevamo in precedenza. Questo accade perché la nostra aumentata comprensione ci mette in grado di interpretarli più chiaramente e precisamente.

Il significato delle parole è spesso dipendente dal contesto, così se il loro contesto non è conosciuto il loro significato è soggetto a fraintendimenti. Quindi quando si cerca di comprendere il significato di qualche parola, è necessario considerare il contesto in cui sono state scritte o pronunciate. Ciò è vero in modo particolare per gli insegnamenti di Sri Ramana, perché ciò che egli disse fu generalmente in risposta a domande o in risposta a un contesto, ed egli rispondeva a chiunque gli ponesse domande secondo le sue necessità individuali, aspirazioni, convinzioni e livello di comprensione.  Non tutti erano pronti ad accettare e comprendere i suoi insegnamenti nello loro forma più pura, così egli adattava qualsiasi cosa diceva a ciascuna persona per soddisfare la sua capacità e la sua prontezza ad accettarli e comprenderli.  Dunque non dovremmo prendere ogni cosa che disse come suoi puri insegnamenti, e quindi abbiamo bisogno di considerare attentamente e criticamente qualsiasi cosa egli disse o scrisse per comprendere come esso si collega al nucleo centrale dei suoi insegnamenti.

Anche identificare cos’è realmente il nucleo centrale dei suoi insegnamenti richiede attenta riflessione o manana.  Per identificare ciò, il miglior luogo per iniziare sono i suoi scritti in testi come Uḷḷadu Nāṟpadu, Upadēśa Undiyār e Nāṉ Yār?, ma anche leggendo tali testi abbiamo bisogno di considerare il loro significato secondo il contesto. Per esempio, alcune persone leggono superficialmente i primi quindici versi di Upadēśa Undiyār e concludono che egli insegnò molte pratiche differenti come niṣkāmya karma, puja, japa, dhyāna e yōga, e perciò affermano che ‘Ramana Maharshi consigliò tutti i sentieri’. Quindi abbiamo bisogno di considerare attentamente il contesto in cui egli scrisse questi testi per comprendere perché menzionò queste pratiche, e abbiamo bisogno di leggere ogni verso nel contesto dell’intero testo e dei suoi insegnamenti come un insieme per comprendere ciò che stava dicendo riguardo tali pratiche.

Egli scrisse Upadēśa Undiyār nel contesto di una storia tradizionale in cui Dio apparve come guru per salvare alcuni asceti illusi che si erano inorgogliti credendo che non ci fosse Dio tranne nel potere delle loro azioni rituali. Per rimuovere la loro illusione, egli mise in evidenza la futilità di ogni azione o karma, dicendo che essa non avrebbe dato la liberazione (come spiegò nel verso 2). Comunque, per distoglierli realmente dalla loro abitudine di compiere karmas, egli disse poi che niṣkāmya karma compiuto per amore di Dio purificherà la mente e quindi metterà in grado di vedere qual è il corretto sentiero alla liberazione (come disse nel verso 3), e spiegò che niṣkāmya karma poteva essere compiuto nella forma di puja dal corpo, di  japa dalla parola o di dhyāna dalla mente, e che per purificare la mente japa è più efficace di puja e dhyāna (meditazione) è più efficace di japa.

Nel verso 8 poi dice che piuttosto che meditare su Dio come diverso da se stessi, meditare su di lui come non diverso da se stessi (cioè, meditare su di lui come ‘io’ solamente) è la migliore di tutte le forme di meditazione, e quindi la migliore di tutte le forme di bhakti o devozione. Nel verso 9 egli dice che con la forza di tale meditazione (meditazione su niente altro che se stessi) si rimarrà nello stato di puro essere, che è il vero stato di devozione suprema (lo stato in cui il nostro ego è completamente arreso a Dio).

Meditare su qualsiasi cosa diversa da noi stessi comporta un movimento della nostra attenzione lontano da noi stessi (la sua sorgente), verso qualsiasi altra cosa, così è un’attività mentale  o karma, mentre la meditazione solo su noi stessi non comporta movimento della nostra attenzione lontano da noi stessi, così non è un’attività mentale ma uno stato di solo essere. In un tale stato, il nostro ego rimane sprofondato in noi stessi, la sorgente dalla quale  è sorto, così nel verso 10 egli dice che questo è karma, yōga, bhakti e jñāna (intendendo che è il punto culminante e la perfezione di tutti i generi di pratica spirituale).  In altre parole, in quei primi dieci versi egli menziona altre pratiche solo per mostrare che infine devono tutte  fondersi nella pratica di auto-attentività, e che tutta l’azione (karma) deve perciò infine cessare nello stato di solo essere, che solo è liberazione.

Nello stesso modo nei successivi primi versi egli spiega come pratiche di yōga come il controllo del respiro devono infine fondersi nella pratica di auto-investigazione. Quindi in questi primi quindici versi non consigliò effettivamente qualche pratica diversa dall’auto-investigazione, ma insegnò solo che alla fine dobbiamo lasciare qualsiasi altra pratica spirituale che possiamo fare e dobbiamo dare attenzione solo a noi stessi per sperimentare noi stessi come siamo realmente.  

 Per comprendere che questo è il vero significato di questi versi, abbiamo bisogno di pensare a essi attentamente e criticamente alla luce di tutti i suoi altri insegnamenti, e nello stesso modo abbiamo bisogno di pensare attentamente e criticamente a qualsiasi altra cosa che egli scrisse o disse per comprenderla correttamente. Così è solo per mezzo di manana – pensiero, riflessione o considerazione attenta, chiara, profonda, critica, analitica e discriminante – che possiamo comprendere lakṣyārtha o significato inteso di qualsiasi cosa egli scrisse o disse.


2. Vivēka in relazione a manana

 Per compiere manana correttamente ed efficacemente, abbiamo bisogno di usare vivēka – discriminazione, discernimento, giudizio o il potere di distinguere una cosa da un’altra. Di fatto vivēka gioca un ruolo essenziale non solo in manana ma anche in śravaṇa e nididhyāsana. Qualsiasi cosa leggiamo o ascoltiamo, dobbiamo usare vivēka per distinguere ciò che è vero da ciò che è falso, ciò che è essenziale da ciò che è secondario o superfluo, ciò che è un argomento valido, buono o ragionevole da ciò che è irragionevole, ciò che è una premessa o una deduzione giustificata da ciò che non è giustificato, ciò che è un’interpretazione corretta da ciò che è incorretto, ciò che sembra essere una traduzione o registrazione precisa e affidabile  da ciò che sembra essere impreciso e dubbio, e così via. Ancora più importante, in nididhyāsana abbiamo bisogno di usare vivēka per distinguere ciò che ‘io’ è realmente da ciò che solamente sembra essere ‘io’. In śravaṇa and manana vivēka comporta l’uso del ragionamento, della logica, del pensiero critico, dell’analisi e della sintesi, così esso funziona almeno in parte a un livello concettuale o intellettuale, ma in nididhyāsana deve essere molto più profondo e più sottile, perché deve operare, per così dire, nell’assenza di ogni pensiero o ragionamento.

La vivēka che abbiamo bisogno di usare in nididhyāsana o auto-investigazione è descritta da vari termini come dṛg-dṛśya-vivēka (distinguere o discernere il vedente dal visto, cioè, l’ ‘io’ che sperimenta qualsiasi cosa da qualsiasi cosa esso sperimenta), nitya-anitya-vastu-vivēka (distinguere ciò che è permanente da ciò che è impermanente o transitorio) e satya-asatya-vastu-vivēka (distinguere ciò che è reale da ciò che è irreale, o ciò che esiste realmente da ciò che solo sembra esistere). Tale vivēka  è essenziale nella nostra pratica di auto-investigazione, perché senza di essa confonderemmo costantemente cose che non sono ‘io’ (cose che sono impermanenti e quindi irreali, poiché sono sperimentate  solo temporaneamente) come ‘io’. Quindi l’auto-investigazione (ātma-vicāra) è essenzialmente un processo crescente di discriminazione e discernimento profondo e sottile (vivēka).

Il potere di vivēka che sviluppiamo e usiamo in śravaṇa e manana è il seme di  vivēka che dobbiamo sviluppare e perfezionare ulteriormente in nididhyāsana, e più perfezioniamo la nostra interna e sottile vivēka per mezzo dell’auto-investigazione, più chiaramente e profondamente saremo in grado di discriminare e comprendere il reale significato di qualsiasi cosa Sri Ramana ha scritto o detto. Così ripetuta śravaṇa e attenta manana ci aiuteranno ad andare più in profondità nella nostra pratica di nididhyāsana o auto-investigazione, e la pratica persistente di auto-investigazione ci metterà in grado di trarre un più grande beneficio dalle nostre śravaṇa e manana. 

3. Pensiero critico

Il termine ‘pensiero critico’ è un’usanza moderna, ma descrive la capacità di base usata dai filosofi da migliaia di anni, ed è una traduzione appropriata del termine Sanscrito manana come è usato in questo contesto. Qui ‘critico’ non è usato solo nel senso di trovare difetti o esprimere una visione negativa o di disapprovazione, ma nel senso di una valutazione e un giudizio attento, dettagliato, analitico, indagante, dotato di discernimento, ben ragionato, chiaro e imparziale, così il pensiero critico è il mezzo razionale con cui giungiamo a una comprensione corretta, chiara, profonda, bilanciata e ben informata di ogni dato soggetto.


Il pensiero critico o manana comporta il mettere in discussione tutte le nostre convinzioni, i presupposti, le motivazioni, le comprensioni e le interpretazioni di ciò che sperimentiamo o impariamo, e anche tutte le convinzioni, i presupposti, le interpretazioni, le teorie e la conoscenza presunta che incontriamo nel mondo esterno, l’esaminare le ragioni per cui noi o altri sosteniamo questi credi, e valutare se queste ragioni sono sufficienti a giustificare ciò che noi o altro crediamo. Questo comporta non solo analizzare il complesso delle idee per discernere e valutare le semplici idee da ciò da cui sono formate, ma anche sintetizzare le idee che accettiamo come giustificate e ragionevoli per costruire una struttura coerente di credenze compatibili.

Quando all’inizio leggiamo gli insegnamenti di Sri Ramana,  probabilmente incontriamo in essi molte idee radicali che mettono in discussione proprio le basi di tutti ciò che abbiamo precedentemente ritenuto o creduto. Per esempio, generalmente crediamo di essere una persona vivente in un certo luogo e tempo, che è nata in un certo tempo nel passato e che infine morirà in un certo punto nel futuro. Tutte queste convinzioni comportano il credo basilare che siamo il corpo che ora sperimentiamo come noi stessi, ma Sri Ramana  ci dice che questo credo basilare è sbagliato, e analizzando l’esperienza di noi stessi nei tre stati contrastanti di veglia, sogno e sonno, egli ci da buone ragioni per accettare che questo credo è sbagliato e che perciò non siamo  non siamo la persona, il corpo o la mente che ora sembriamo essere, e quindi che dovremmo attentivamente esaminare noi stessi per sperimentarci come siamo realmente.

I suoi insegnamenti mettono anche in  discussione molte delle nostre altre convinzioni fondamentali, che in definitiva sono tutte basate sull’illusione che siamo una persona costituita da un corpo e una mente. Per esempio, generalmente crediamo che il mondo che percepiamo sia reale ed esiste indipendentemente dalla nostra percezione di esso, ma Sri Ramana dice che è irreale, come il mondo illusorio che percepiamo in un sogno, e che è solo una proiezione mentale, che ha origine solo quando la sperimentiamo e cessa di esistere quando non la sperimentiamo. Quando leggiamo questo, ciò dovrebbe spingerci a esaminare criticamente la nostra convinzione che il mondo esiste indipendentemente dalla nostra esperienza di esso, e se lo facciamo abbastanza  correttamente e rigorosamente dovremmo essere in grado di comprendere che la nostra convinzione dell’esistenza indipendente del mondo non è sufficientemente giustificata.

Mentre sogniamo riteniamo che il mondo che stiamo sperimentando esista indipendentemente dalla nostra percezione di esso, ma quando ci svegliamo riconosciamo che era solo una creazione mentale. La nostra convinzione dell’esistenza indipendente di questo attuale mondo è più giustificato di come lo era la convinzione che avevamo nel sogno dell’esistenza indipendente di quel mondo? Se consideriamo attentamente questa e altre simili domande, dovremmo essere in grado di comprendere che la nostra convinzione nella realtà del mondo è ingiustificata, e che è quindi ragionevole accettare sperimentalmente che il mondo è (o almeno può essere) solo una creazione mentale, come dice Sri Ramana.  

 Fino a che sperimentiamo noi stessi come siamo realmente, non possiamo conoscere con certezza se il mondo esiste o no, indipendentemente dalla nostra mente che lo percepisce, così per mezzo del pensiero critico possiamo  comprendere che questa è un’altra buona ragione per investigare ciò che siamo realmente. Quando Sri Ramana ci ha mostrato con una serie di argomenti razionali e analitici che la nostra attuale esperienza di noi stessi come un corpo e una mente è un’illusione, il pensiero critico può metterci in grado di comprendere  che qualsiasi altra cosa  che noi (come questa mente) possiamo sperimentare è nello stesso modo un’illusione, e che non possiamo liberare noi stessi da tutte le illusioni fino a che liberiamo noi stessi  dall’illusione basilare che siamo un fenomeno transitorio come questo corpo o mente.

In questo modo, studiare attentamente gli insegnamenti di Sri Ramana (śravaṇa) e riflettere  criticamente su di essi (manana)  usando il nostro potere di discriminazione (vivēka) ci mette in grado di alleggerirci di  molti delle nostre convinzioni errate e superflue, e ci rende molto cauti nell’assumere qualsiasi altra convinzione. Naturalmente per funzionare in questo mondo come una persona dobbiamo agire come se fosse reale e come se credessimo molte cose di esso (come che mangiare cibo nutrirà il nostro corpo, o che camminare nel traffico ad alta velocità ci causerà danno o morte), ma dovremmo comprendere che tali convinzioni terrene sono solo vere quanto lo è la nostra convinzione che siamo questo corpo. Tutte queste cose sono parte della stessa illusione o sogno che chiamiamo la nostra vita, così interiormente dovremmo dubitare della realtà di tutte queste cose, e dovremmo fare ogni sforzo possibile per investigare e sperimentare noi stessi come siamo realmente.

La maggior parte delle nostre convinzioni terrene sembreranno reali fino a che sperimentiamo noi stessi come un corpo, così dobbiamo vivere con tali convinzioni, ma abbiamo anche bisogno di distinguerle dalle convinzioni metafisiche – convinzioni riguardo ciò che siamo realmente, riguardo ciò che in definitiva è reale, se il nostro attuale stato di veglia è reale è solo un altro sogno, o se il mondo esiste indipendentemente dalla nostra mente o è solo una creazione mentale. Le convinzioni che abbiamo bisogno di esaminare criticamente  non sono le nostre convinzioni terrene (la cui verità è chiamata vyāvahārika satya o  ‘verità di compromesso’) ma le nostre convinzioni metafisiche (la cui verità è chiamata pāramārthika satya, ‘verità assoluta’ o ‘verità essenziale’). Per mezzo della riflessione critica (manana) su tali convinzioni, dovremmo cercare di eliminare tutto ciò che è dubbio o ci è inutile nello sforzo di sperimentare noi stessi come siamo realmente, e dovremmo essere appagati con solo poche convinzioni metafisiche basilari che hanno resistito alla prova di esame critico e che ci aiutano nella nostra pratica di auto-investigazione.

Per compiere un’efficace e fruttuosa manana sugli insegnamenti di Sri Ramana, abbiamo bisogno di considerare criticamente tutte le idee che egli espresse nei suoi scritti o oralmente (tenendo in mente che le registrazioni che esistono dei suoi insegnamenti orali non sono del tutto precise o affidabili, sebbene alcune come Guru Vācaka Kōvai sono molto più affidabili di altre, e che molte delle risposte che egli diede non erano i suoi insegnamenti essenziali ma furono date per adattarsi ai bisogni, alle aspirazioni, alle convinzioni, al livello di comprensione e alla prontezza di accettare i suoi insegnamenti  di ciascuna persona che poneva domande) comparando ciascuna idea con tutte le altre e cercando di identificare quelle che sono più essenziali e centrali nei suoi insegnamenti. Facendo questo, ci imbatteremo in molte idee che sono contrastanti con il nucleo del suo insegnamento, così dobbiamo cercare di comprendere il contesto che lo condusse a esprimere tali idee (o in molti casi  dobbiamo dubitare se egli effettivamente espresse le particolari idee che sono riportate come espresse da lui stesso), o se il contesto non è chiaro dobbiamo solo accantonare tali idee come superflue alla nostra necessità di comprendere i suoi insegnamenti basilari.

Lo studio critico dei suoi insegnamenti dovrebbe comportare non solo l’analizzare ciascun singolo elemento per comprendere pienamente le sue implicazioni, ma anche sintetizzare tutti quegli elementi per costruire nella nostra mente un’immagine chiara dell’intera coerente struttura dei suoi insegnamenti centrali, all’interno dei quali dovremmo cercare di comprendere chiaramente tutte le logiche connessioni che esistono tra ciascuno dei suoi elementi. Costruire una tale immagine di questa struttura è un processo in corso, perché riflettendo maggiormente sui suoi insegnamenti e andando in profondità nella nostra pratica di essi, li comprenderemo sempre più profondamente e chiaramente, e così la nostra immagine mentale di essi sarà progressivamente perfezionata e chiarificata.

Una volta che abbiamo costruito nella nostra mente almeno i rudimenti di un’immagine chiara, inizieremo a essere in grado di usare il nostro crescente potere di discriminazione (vivēka) per valutare il significato e il valore di ciascuna delle idee che è registrato che egli abbia espresso, ed estrarre da tali registrazioni qualsiasi cosa è utile alla nostra comprensione e alla nostra pratica. Nel valutarli, saremo in grado di riconoscere qualunque idea dubbia o non necessaria, e otterremo crescente sicurezza per accantonare e ignorare tali idee o ogni altra idea che per una ragione o un’altra non è completamente in armonia con  la struttura logicamente coerente dei suoi insegnamenti centrali.

Guidati dai suoi insegnamenti, possiamo analizzare l’esperienza di noi stessi nei tre stati di veglia, sogno e sonno e quindi concludere logicamente e con certezza che non possiamo essere il corpo e la mente che ora sembriamo essere, e che la nostra attuale esperienza di noi stessi è quindi un’illusione che abbiamo bisogno di esaminare attentamente per scoprire ciò che siamo realmente. Questo è il fondamento su cui tutti i suoi altri insegnamenti sono costruiti, così dovrebbe essere il perno attorno al quale costruiamo la nostra immagine mentale dei suoi insegnamenti principali. Una volta che abbiamo compreso chiaramente la ragione per cui la nostra attuale esperienza di noi stessi deve essere un’illusione, anche se noi certamente esistiamo, tutti gli altri elementi nei suoi insegnamenti principali si sistemano.
Per esempio, possiamo comprendere che poiché l’attuale esperienza di noi stessi è un’illusione, fino a che sperimentiamo questa illusione, qualsiasi cosa possiamo sperimentare di qualsiasi altra cosa deve anche essere un’illusione, e quindi il mondo come ora lo sperimentiamo non è reale o non è ciò che sembra essere.

Comunque, benché dall’analisi della nostra esperienza possiamo concludere logicamente che molti elementi dei suoi insegnamenti, particolarmente quelli più basilari, sono certamente veri, ci sono altri elementi di essi che noi (come mente limitata) non possiamo verificare con la nostra esperienza e che quindi non possiamo conoscere per certo fino a che sperimentiamo noi stessi come siamo realmente. Quindi possiamo solo accettare tali elementi come veri sulla base della fede nei suoi insegnamenti, ma la nostra fede  in essi è ragionevole e ben fondata,  perché è derivata dalla nostra considerazione critica di tutti gli elementi più basilari dei suoi insegnamenti,  che sono stati compresi come veri dall’analisi logica della nostra esperienza.

Quindi su tutte le questioni metafisiche che non siamo in grado di conoscere con certezza (come riguardo la suprema natura di noi stessi come l’unica realtà infinita, o riguardo l’esperienza non-duale della vera auto-conoscenza), possiamo ragionevolmente e fiduciosamente consentire alla sua testimonianza, accettando che qualsiasi cosa egli insegnò riguardo tali questioni è vera (o vera almeno nella misura in cui ogni esperienza che trascende la mente può essere espressa in parole). Così oltre i limiti del nostro ragionamento i suoi insegnamenti sono il criterio con cui possiamo fiduciosamente valutare ogni altra convinzione metafisica in cui ci possiamo imbattere.

Come ho citato all’inizio di questo articolo, ho osservato da molti commenti recenti su questo blog (come ho già osservato da commenti più vecchi e da molte email che ricevo) che alcune persone che aspirano a seguire gli insegnamenti di Sri Ramana hanno una tendenza e una prontezza ad accettare acriticamente qualsiasi cosa certe altre persone hanno scritto o detto riguardo questioni metafisiche o la pratica spirituale. Visto che è necessario applicare il pensiero critico (manana) e la discriminazione (vivēka) per comprendere chiaramente, correttamente e coerentemente gli insegnamenti di Sri Ramana, è ugualmente necessario applicarli a qualsiasi altro che possiamo leggere o ascoltare. Di fatto, se accettiamo i suoi insegnamenti come il criterio più affidabile con cui possiamo  valutare tutte le convinzioni e le affermazioni metafisiche, dovremmo essere particolarmente cauti e critici considerando ogni convinzione espressa o rivendicata da chiunque altro.  

Uno degli intenti del pensiero critico è liberare noi stessi da convinzioni dubbie e non necessarie e semplificare e chiarificare le convinzioni basilari che manteniamo. Quando comprendiamo la struttura principale degli insegnamenti di Sri Ramana da attento studio e riflessione critica, siamo in grado di alleggerirci da molte convinzioni metafisiche dubbie, non necessarie e potenzialmente ingannevoli e da convinzioni riguardo la pratica spirituale, e a ridurre le nostre convinzioni riguardo tutte queste cose a un centro di convinzioni semplici basate sui suoi insegnamenti principali e sulla nostra analisi dell’esperienza di noi stessi. Per investigare noi stessi abbiamo bisogno solo di una struttura molto semplice di convinzioni basilari, che sono fornite dai suoi insegnamenti, e possiamo sicuramente respingere tutti le altre convinzioni metafisiche o convinzioni riguardo la pratica spirituale come non necessarie o incompatibili con ciò che abbiamo compreso per mezzo della riflessione critica dei suoi insegnamenti.

Quindi se leggiamo libri scritti da persone che dichiarano di essere suoi seguaci o di esporre i suoi insegnamenti, o sentiamo discorsi dati da queste persone, o se leggiamo altri testi sulla filosofia advaita o commentari su essi, dovremmo riflettere criticamente su qualsiasi cosa leggiamo o sentiamo, e dovremmo considerare attentamente se ciascuna delle idee che incontriamo è compatibile con gli insegnamenti basilari di Sri Ramana o resiste all’esame critico, e se è in ogni modo necessario o utile alla nostra pratica di auto-investigazione.  Se qualche idea non è compatibile con i suoi insegnamenti, o è ritenuta dubbia, non necessaria o non utile alla nostra pratica, dovremmo respingerla, o almeno non accettarla ciecamente perché crediamo che chiunque l’ha espressa è un qualche genere di autorità.  

Sri Ramana usava dire, ‘Non credere a ciò che non conosci’, e Sadhu Om spesso mi ricordava questa frase, dicendo che come aspiranti spirituali dovremmo essere molto cauti riguardo ciò che crediamo, e dovremmo per quanto possibile credere solo a ciò che è realmente utile alla nostra pratica di auto-investigazione, e che possiamo comprendere per mezzo di profonda manana sui suoi insegnamenti  e per mezzo di attenta analisi dell’esperienza di noi stessi. La maggior parte delle idee che leggiamo o sentiamo e delle convinzioni che incontriamo non ci aiuteranno a volgere la nostra attenzione all’interno per investigare e sperimentare noi stessi come siamo realmente, ma tenderanno invece a distrarre la nostra attenzione lontano da noi stessi e a creare molti pensieri non necessari nella nostra mente, così dovremmo respingerli come ostacoli o almeno come superflui alle nostre necessità.

Accettare acriticamente idee che non sono direttamente o indirettamente utili alla nostra auto-investigazione, o che non sono compatibili con il centro essenziale degli insegnamenti di Sri Ramana, caricherà la nostra mente di molte convinzioni dubbie e non necessarie, che ci distrarranno dall’investigare noi stessi, e tenderanno a oscurare e confondere la nostra comprensione dei principi basilari su cui la pratica di auto-investigazione è fondata. Più le nostre convinzioni sono semplificate e focalizzate sull’unico importante soggetto di auto-investigazione, più la nostra mente sarà libera di concentrare tutto il suo interesse, il suo sforzo e la sua attenzione sul cercare di sperimentare solamente noi stessi.



4. La perseveranza è il solo vero segno di progresso 

Per illustrare ciò che intendo riguardo la necessità di considerare criticamente qualsiasi cosa leggiamo o sentiamo, discuterò ora alcuni dei recenti commenti su questo blog.

In uno dei miei articoli recenti, Tranne noi stessi, non cisono segni o pietre miliari sul sentiero della scoperta di sé, ho risposto a una domanda se ci sono segni o pietre miliari che ci mettono in grado di sapere che stiamo procedendo correttamente sul sentiero dell’auto-investigazione (ātma-vicāra), spiegando che non ci possono essere segni diversi da noi stessi, perché ogni altro segno sarebbe qualcosa diversa da noi stessi e indicherebbe quindi che siamo stati distratti dalla nostra auto-attentività. Ho risposto in questo modo perché possiamo procedendo correttamente in questo sentiero solo cercando il più possibile di essere auto-attentivi, così l’attentività a noi stessi è il solo segno che indica che stiamo procedendo correttamente.

Comunque, in uno dei commenti a quest’articolo un amico ha scritto citando un passaggio di Robert Adams in cui ha detto che ci sono molti segni di progresso sul sentiero, e in cui ha discusso alcuni esempi di questi ‘molti segni’. Questo commento indicava che l’amico che l’ha scritto non aveva considerato attentamente e criticamente ciò che ho scritto in quell’articolo o ciò che Robert Adams disse in quel brano, perché mentre egli disse che ci sono ‘molti segni’ io ho spiegato perché il solo segno è noi stessi o l’attentività a noi stessi. Quindi nella mia risposta a questo commento ho scritto:

Bhagavan era solito dire che la perseveranza è il solo vero segno di progresso. Cioè, se perseveriamo nei nostri tentativi di sperimentare noi stessi come siamo realmente cercando di dare attenzione solo a noi stessi, questo indica che stiamo procedendo nella giusta direzione solo su questo sentiero di auto-investigazione.

Possiamo perseverare nella nostra pratica di auto-attentività solo nella misura in cui abbiamo il sincero amore per sperimentare solo noi stessi, e possiamo progredire in questa pratica solo nella misura in cui abbiamo tale amore. Quindi come Bhagavan disse, la perseveranza è il solo segno di progresso, poiché è il solo vero segno di  svātma-bhakti  (amore per il nostro sé – cioè, per sperimentare noi stessi come siamo realmente).

Oltre a questo, non c’è assolutamente niente che potrebbe indicare in modo affidabile che stiamo progredendo su questo sentiero, perché come ho spiegato in questo articolo, (Tranne noi stessi, non ci sono segni o pietre miliari sul sentiero della scoperta di sé. ) qualsiasi cosa che possiamo immaginare come un segno sarebbe qualcosa diversa da noi stessi e  quindi indicherebbe solo che la nostra attenzione è stata distratta lontano da noi stessi.

Dicendo che la perseveranza è il solo vero segno di progresso, Bhagavan stava cercando di farci focalizzare tutto il nostro interesse e sforzo solo sulla nostra pratica di auto-attentività e di non permettere a noi stessi di essere distratti da qualsiasi altra cosa. Per raggiungere il nostro fine dobbiamo cercare con insistenza di dare attenzione solo a noi stessi e non a qualsiasi altra cosa, così la perseveranza nella pratica di auto-attentività è il nostro sentiero, e quindi è anche il solo segno che stiamo seguendo (o progredendo su) questo sentiero.

In altre parole, possiamo progredire nella nostra pratica solo perseverando in essa, così la perseveranza in essa è il solo segno che stiamo progredendo. Quindi la logica in cui Bhagavan si è espresso è semplice e irrefutabile.

Perciò, quando Bhagavan rese chiaro e ovvio che la perseveranza nella nostra pratica è il solo vero segno che stiamo progredendo in esso, Robert Adams non solo lo stava contraddicendo ma stava anche dicendo qualcosa d’illogico quando dichiarava che ci sono molti segni che indicano il nostro progresso.

Tutti i fenomeni descritti da Robert Adams, nel brano che hai citato, come  segni di progresso (come ‘un senso di pace’, essere ‘non più disturbati dalle condizioni terrene’  o ‘quanto state diventando felici’) sono condizioni della mente relative e transitorie, così  sono altro da noi stessi, e quindi possiamo essere consapevoli di essi solo quando la nostra attenzione è stata distratta lontano da noi stessi. Perciò essi sono un sicuro segno che siamo stati distratti dalla nostra pratica di auto-attentività, e quindi  non possono essere un segno che stiamo perseverando o progredendo in essa.

Comunque, se prendiamo queste o qualsiasi altre condizioni come segno di progresso, ci sarebbe facile immaginare che esse si stanno sviluppando all’interno di noi e in questo modo illudere noi stessi che stiamo facendo progressi in questo sentiero quando di fatto siamo solo assorti in transitorie condizioni della nostra mente, e quindi ancora completamente presi nell’esperienza di noi stessi come una persona. Perciò immaginare che tali fenomeni siano segni del nostro progresso sarebbe solo un altro inganno auto-illusorio con cui la nostra mente cerca di distrarci dalla nostra pratica di auto-attentività.

Ciò che ho scritto in questa risposta è ciò che ognuno di noi dovrebbe essere in grado di comprendere riflettendo attentamente sugli insegnamenti di Sri Ramana. Perché egli insisteva sempre che possiamo avanzare lungo questo sentiero solo essendo auto-attentivi con persistenza, e perché egli diceva che qualsiasi pensiero possa sorgere, dovremmo distruggerlo alla sua sorgente aggrappandoci fermamente all’auto-attentività? Ovviamente egli disse questo ripetutamente perché è il solo modo di avanzare su questo sentiero. Per esempio, nei paragrafi dieci, undici e sei di Nāṉ Yār? (Chi sono io?) disse:

தொன்றுதொட்டு வருகின்ற விஷயவாசனைகள் அளவற்றனவாய்க் கடலலைகள் போற் றோன்றினும் அவையாவும் சொரூபத்யானம் கிளம்பக் கிளம்ப அழிந்துவிடும். அத்தனை வாசனைகளு மொடுங்கி, சொரூபமாத்திரமா யிருக்க முடியுமா வென்னும் சந்தேக நினைவுக்கு மிடங்கொடாமல், சொரூபத்யானத்தை விடாப்பிடியாய்ப் பிடிக்க வேண்டும். [...]

 toṉḏṟutoṭṭu varugiṉḏṟa viṣaya-vāsaṉaigaḷ aḷavaṯṟaṉavāy-k kaḍal-alaigaḷ pōl tōṉḏṟiṉum avai-yāvum sorūpa-dhyāṉam kiḷamba-k kiḷamba aṙindu-viḍum. attaṉai vāsaṉaigaḷum oḍuṅgi, sorūpa-māttiramāy irukka muḍiyumā v-eṉṉum sandēha niṉaivukkum iḍam koḍāmal, sorūpa-dhyāṉattai viḍā-p-piḍiyāy-p piḍikka vēṇḍum. [...]

Anche se  viṣaya-vāsanās [inclinazioni o desideri di sperimentare cose altro da se stessi], che vengono da tempo immemorabile, sorgono [come pensieri] innumerevoli come onde dell'oceano, essi saranno tutti distrutti quando svarūpa-dhyāna [attenzione di sé] aumenterà sempre di più. Senza dare spazio al dubbio 'E' possibile dissolvere così tante vāsanās ed essere [o rimanere] solo come il sé?' è necessario aggrapparsi tenacemente all'attenzione di sé. [...]

  மனத்தின்கண் எதுவரையில் விஷயவாசனைக ளிருக்கின்றனவோ, அதுவரையில் நானா ரென்னும் விசாரணையும் வேண்டும். நினைவுகள் தோன்றத் தோன்ற அப்போதைக்கப்போதே அவைகளையெல்லாம் உற்பத்திஸ்தானத்திலேயே விசாரணையால் நசிப்பிக்க வேண்டும். [...]

 maṉattiṉgaṇ edu-varaiyil viṣaya-vāsaṉaigaḷ irukkiṉḏṟaṉavō, adu-varaiyil nāṉ-ār eṉṉum vicāraṇai-y-um vēṇḍum. niṉaivugaḷ tōṉḏṟa-t tōṉḏṟa appōdaikkappōdē avaigaḷai-y-ellām uṯpatti-sthāṉattilēyē vicāraṇaiyāl naśippikka vēṇḍum. [...]

 Fino a che viṣaya-vāsanās esistono nella mente, l'investigazione 'chi sono io' è necessaria. Come e quando i pensieri sorgono, in quel momento è necessario annientarli per mezzo di vicāraṇā [investigazione o vigilante attenzione di sé] proprio nel luogo dove essi sorgono. [...]

 [...] பிற வெண்ணங்க ளெழுந்தா லவற்றைப் பூர்த்தி பண்ணுவதற்கு எத்தனியாமல் அவை யாருக் குண்டாயின என்று விசாரிக்க வேண்டும். [...]

 [...] piṟa v-eṇṇaṅgaḷ eṙundāl avaṯṟai-p pūrtti paṇṇuvadaṯku ettaṉiyāmal avai yārukku uṇḍāyiṉa eṉḏṟu vicārikka vēṇḍum. [...]

 [...]Se altri pensieri sorgono, senza cercare di completarli, è necessario investigare a chi sono venuti in mente.  . [...]

Da tali brani in cui Sri Ramana dice ‘è necessario aggrapparsi tenacemente all’attenzione di sé’, ‘Come e quando i pensieri sorgono, allora e lì è necessario annientarli tutti per mezzo dell’auto-investigazione proprio nel luogo da cui essi sorgono’ e ‘Se altri pensieri sorgono, senza cercare di completarli è necessario investigare a chi essi sono venuti in mente’, dovremmo comprendere che per avanzare o progredire lungo questo sentiero abbiamo bisogno di aggrapparci con persistenza all’auto-attentività e non dovremmo permettere a noi stessi di essere distratti da essa con qualche pensiero (cioè,  da qualsiasi cosa diversa da noi stessi). Poiché possiamo progredire su questo sentiero solo cercando di essere consapevoli solo di noi stessi, essere consapevoli solo di noi stessi è il solo segno che indica che stiamo progredendo. Se siamo consapevoli di qualsiasi altra cosa, questo è un segno che siamo stati distratti dal sentiero e quindi non stiamo progredendo in esso. Questo è il motivo per cui Sri Ramana spesso disse che la perseveranza nella nostra pratica di auto-attentività e il solo segno che indica che stiamo progredendo in esso.

In replica alla mia risposta citata sopra, un altro amico ha scritto un commento in cui conveniva che è vero che ‘Tutti i fenomeni descritti da Robert Adams come segni di progresso… sono condizioni della mente relative e transitorie’, ma aggiungeva ‘ma per le persone devi usare parole’, così nella mia risposta ho scritto:

Sono d’accordo che per molti di noi le parole sono richieste per rivolgerci nella giusta direzione, ma la ragione per cui sono richieste e che le nostre menti ora stanno andando all’esterno, che è la direzione sbagliata. Poiché la sola direzione giusta nella quale dovremmo andare è all’interno – solamente verso ‘io’ (noi stessi) – le sole parole che ci aiuteranno sono quelle che dirigono la nostra attenzione all’interno.

Per andare (procedere o progredire) all’interno, dobbiamo perseverare nei nostri tentativi di essere consapevoli solo di noi stessi, così le parole che ci sono date dovrebbero spronarci a perseverare in questo tentativo, e non spingerci a guardare all’esterno per qualche ‘segno’ esterno di progresso.

Quando Bhagavan disse che la perseveranza è il solo vero segno di progresso, queste parole (come tutte le sue altre parole) ci spronano a perseverare nel tentativo di guardare all’interno – cercare di sperimentare solamente noi stessi.  Ma quando Robert Adams ha detto che ci sono molti segni di progresso, questi ‘molti segni’ devono essere cose diverse da noi stessi (poiché noi siamo uno, non molti), così le sue parole ci spingono a spargere la nostra attenzione all’esterno, lontano da noi stessi, cercando qualcuno o tutti questi segni. E quando continua specificando determinate condizioni mentali come ‘un senso di pace’, essere ‘non più disturbati dalle condizioni terrene’ o ‘quanto state diventando felici’ come segni di progresso, queste parole ci spingono ulteriormente a guardare lontano da noi stessi, l’ ‘io’ che sperimenta, verso condizioni che possiamo correntemente sperimentare o no.

Sia che stiamo correntemente sperimentando tali condizioni o meno, siamo sempre presenti e consapevoli di noi stessi, così Bhagavan ci spronerebbe a dare attenzione solo a noi stessi, chi sperimenta tali condizioni, e perciò a ignorare la presenza transitoria o l’assenza di qualche condizione particolare.

Se siamo onesti con noi stessi, penso che la maggior parte di noi ammetterà che la nostra perseveranza è insufficiente. Sappiamo che dovremmo cercare di dare attenzione solo a ‘io’, ma la maggior parte del tempo stiamo invece pensando inutili pensieri riguardo altre cose, così se accettiamo che la perseveranza è il solo vero segno di progresso, riconosceremo che non siamo ancora abbastanza progrediti, e che per progredire ulteriormente e più velocemente dobbiamo perseverare ancora di più cercando di sperimentare solo ‘io’.

Se invece di accettare che la perseveranza è il solo vero segno di progresso, immaginiamo che il tipo di condizioni descritte da Robert Adams siano segni di progresso, possiamo facilmente ingannare noi stessi pensando che stiamo facendo progressi quando non è così. Anche se non sempre, almeno qualche volta ci è facile immaginare che stiamo sperimentando ‘un senso di pace’, o che siamo ‘non più disturbati da condizioni terrene’  come eravamo soliti essere,  o che ora stiamo diventando più felici, così se prendiamo questi come segni di progresso, ci è facile con ciò illudere noi stessi.

Le condizioni della mente sono in un flusso costante, così esse non sono un indicatore affidabile del nostro progresso spirituale. Anche se non abbiamo amore per sperimentare solo noi stessi, e anche se non facciamo mai uno sforzo per dare attenzione solo a noi stessi, qualche volta possiamo tuttavia sentire ‘un senso di pace’, o che siamo meno ‘disturbati dalle condizioni terrene’, o che stiamo generalmente diventando più felici, così condizioni come queste non possono essere un segno affidabile di alcun genuino progresso spirituale.

Comunque, cercando tali segni stiamo dirigendo la nostra attenzione lontano da noi stessi,  e stiamo quindi perdendo l’opportunità di fare un reale progresso qui e ora perseverando sinceramente nel nostro tentativo di sperimentare solo noi stessi.

Perciò, le parole che abbiamo bisogno di leggere o di sentire sono solo quelle che ci spronano a perseverare nel cercare di essere auto-attentivi (come fanno le parole di Bhagavan), e non ogni parola che distrae la nostra attenzione da noi stessi verso le condizioni esteriori sperimentate dalla nostra mente.

In un altro commento un amico poi ha scritto, ‘La pace è la natura del sé, il fine, Poiché il sentiero è lo stesso del fine, sento che non c’è incoerenza con l’insegnamento di Bhagavan nel suggerimento di Robert Adams di usare la pace come un mezzo di progresso’, così nella mia risposta ho scritto:

Sì, pace è la natura del nostro sé reale, ma quella pace è assoluta, infinita, eterna e non vincolata da alcuna condizione, mentre ogni ‘senso di pace’ sperimentato dalla nostra mente è relativo, limitato, transitorio e condizionato, così non dovremmo confondere l’uno con l’altro. Ogni ‘senso di pace’ sperimentato dalla nostra mente è causato da una parziale cessazione o riduzione di intensità dell’attività mentale, ma possiamo sperimentare una tale condizione solo fino a che sperimentiamo noi stessi come questa mente,  così non è uno stato di completa cessazione di tutta l’attività mentale.  Comunque, possiamo sperimentare un tale ‘senso di pace’ anche quando non stiamo dando attenzione solo a ‘io’,  sebbene la mente cesserà pacificamente se diamo attenzione solo a ‘io’, ogni ‘senso di pace’ che possiamo sperimentare non è necessariamente causato da o connesso con l’auto-attentività, e quindi non è necessariamente un ‘mezzo di progresso’ verso il nostro fine di auto-consapevolezza perfettamente chiara e senza attributi.

Nel brano che hai citato nel tuo commento precedente Robert Adams non dice effettivamente che ‘un senso di pace’ è ‘un mezzo di progresso’ ma solo che è uno dei ‘molti segni’ di progresso. Comunque, anche se riteniamo che egli stesse quindi suggerendo che dovremmo ‘usare la pace come un mezzo di progresso’, come tu dici, questo non è coerente con ciò che Bhagavan ci ha insegnato, perché ogni ‘senso di pace’ sperimentato dalla nostra mente è qualcosa diverso da noi stessi, mentre Bhagavan ci ha insegnato che il solo mezzo con cui possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente è dare attenzione solo a noi stessi.

Solo quando diamo attenzione solo a noi stessi (ignorando quindi ogni altra cosa, includendo tutte le condizioni mentali come ‘un senso di pace’) la nostra mente sprofonderà interamente nella sua sorgente, noi stessi, e sperimenteremo quindi noi stessi come siamo realmente, che solo è vera e infinita pace.

Quando stiamo cercando di sperimentare solo noi stessi, ci è molto facile confondere come noi stessi qualsiasi condizione sottile che possiamo sperimentare lungo la via, come un ‘senso di pace’, così è importante che evitiamo di essere distratti da tali esperienze sottili ma temporanee andando ancora più in profondità all’interno di noi stessi fino a che sperimentiamo niente di temporaneo ma solo il nostro eterno sé sempre immutabile – la nostra pura auto-consapevolezza senza attributi ‘io sono’.

Il solo modo per andare sempre più in profondità all’interno di noi stessi è quello che Bhagavan ci ha mostrato: qualsiasi cosa possiamo sperimentare (sia esso un ‘senso di pace’ o qualsiasi altra cosa), dovremmo ignorarla e cercare di sperimentare solo noi stessi. Cioè, invece di dare attenzione a qualsiasi esperienza possa sorgere, dovremmo rivolgerci e cercare di dare attenzione solo a noi stessi, l’ ‘io’ che sperimenta ciò. 

Un altro amico ha scritto in commento in cui ha detto, ‘Ma almeno dalla mia lettura delle vite dei devoti, quasi tutti loro hanno periodi di pace seguiti da abissi di disperazione prima di realizzare il loro sé, così come possono sapere dove si trovano in un dato punto nel tempo[?]’, così in risposta ho scritto due commenti consecutivi nei quali ho detto:

Sì, mentre progrediamo in questo sentiero, il nostro amore per sperimentare noi stessi come siamo realmente aumenterà, e tale amore sarà sentito come un grande desiderio, così fino a che sia soddisfatto dal fonderci nel nostro sé reale, esso darà origine a intensa angoscia. Questa angoscia aumenterà fino a che l’ego sarà distrutto, così è un inganno credere che il nostro progresso sarà necessariamente indicato da segni come ‘un senso di pace’, essere ‘non più disturbati da condizioni terrene’ o ‘quanto state diventando felici’, come Robert Adams ha dichiarato nel brano citato in uno dei commenti sopra.

L’intensa angoscia sentita da un devoto mentre lui o lei sta avanzando sempre più vicino al fine di fondersi in sé è espressa chiaramente e meravigliosamente da Bhagavan in molti dei versi di Śrī Aruṇācala Stuti Pañcakam, e anche in versi composti da Muruganar, Sadhu Om e molti altri poeti-santi più antichi. Leggendo tali versi e vedendo l’intenso amore, il desiderio e l’angoscia in essi espresso, saremmo sciocchi a concludere che poiché tali santi non sperimentavano ‘un senso di pace’, e neppure erano ‘non più disturbati da condizioni terrene’, o stavano diventando più felici, essi non erano neppure avanzati  fino a dove siamo arrivati noi su questo sentiero.

Sentire ‘un senso di pace’ o che si sta diventando più felici può essere un segno di compiacenza spirituale, perché se veramente vogliamo sperimentare solo noi stessi e quindi essere liberi dal nostro ego, non saremo soddisfatti con qualsiasi cosa possiamo sperimentare fino a che ci siamo fusi per sempre nella nostra sorgente. Anche essere ‘non più disturbati da condizioni terrene’ non è necessariamente un segno di progresso, perché per un devoto il cui amore e desiderio di sperimentare solo sé stesso aumentano, la condizione di vivere come una persona in questo mondo materiale sarà sperimentata come una miseria che aumenta in modo corrispondente, come Bhagavan ha indicato in molti versi, come l’8 e l’11 di Śrī Aruṇācala Patikam:

 “Tu mi hai reso di nessun valore distruggendo [in me] l’intelligenza di conoscere il modo in cui vivere nel mondo. Se  [mi] tieni in questa condizione, ciò non sarà felicità per nessuno[ma] solo miseria. La morte davvero sarà meglio che questa vita. […]”

 “[…] O gente che state vagando alla ricerca di un mezzo per abbandonare il corpo, avendo perduto il desiderio per questa vita  [terrena] a causa della sua miseria crescente, c’è sulla terra una medicina rara che anche se pensata una volta nella mente ucciderà [l’ego] senza uccidere [il corpo]. Sappiate che questa è la Collina di Aruna [il nostro sé reale].”

Mentre il nostro amore per sperimentare noi stessi come siamo realmente aumenta, ci sentiremo disturbati in modo crescente dalla condizione illusoria di sperimentare noi stessi come un corpo che vive in questo mondo, e riconosceremo di non essere in grado di sperimentare una pace reale o la felicità fino a che ci fondiamo per sempre nel nostro sé reale, la sorgente dalla quale abbiamo avuto origine come questo ego.

Quindi, come hai scritto nel tuo primo commento, ‘Il progresso spirituale non è una curva lineare in cui senti sempre più pace giorno dopo giorno’, e sarebbe ingenuo ritenere che lo sia. La nostra auto-ignoranza è come una densa oscurità, così non c’è modo di predire ciò che possiamo sperimentare nel nostro viaggio, lottando per districare noi stessi da questa oscurità e cercando di sperimentare noi stessi come siamo realmente. Possiamo sperimentare tutti i tipi di altezze o di bassezze, ma non importa cosa ci accade di sperimentare, dovremmo perseverare tenacemente nei nostri tentativi di dare attenzione solo a noi stessi fino a che ci fondiamo in esso per sempre.

Diversi altri amici si sono uniti alla discussione su Robert Adams affermando che ci sono molti segni di progresso, così ho scritto il mio commento finale su questo soggetto dicendo:

[…] quando Bhagavan disse che la perseveranza è il solo vero segno di progresso, possiamo dedurre che egli volesse dire indirettamente: ‘se sei realmente interessato al progresso, persevera veramente nel praticare  vicāra, perché è il solo modo di progredire’. Egli non stava sostenendo che dovremmo cercare qualche segno di progresso, ma solo che dovremmo perseverare nella nostra pratica senza pensare al ‘progresso’ o a qualsiasi altra cosa diversa da noi stessi solamente.

Realmente non c’è un sicuro segno di progresso tranne il sincero desiderio e lo sforzo persistente di sperimentare solo noi stessi, senza il minimo pensiero di qualsiasi altra cosa. Fino a che pensiamo al progresso, non stiamo dando attenzione a noi stessi e quindi non stiamo progredendo,. Come ha scritto Steve in un altro commento, in ātma-vicāra solo l’immobilità è progresso, così se stiamo pensando al progresso invece di soltanto essere silenziosamente come siamo realmente, non stiamo certamente progredendo. Quindi rinunciamo a tutti i pensieri di progresso e cerchiamo solo qui e ora di essere ciò che siamo realmente.

Come avrai capito leggendo questo articolo e alcune delle mie risposte ai commenti a essi, credo che cercare qualche segno di progresso è non solo inutile ma anche una distrazione che devia la nostra attenzione lontano da noi stessi, che dovrebbe essere il nostro solo interesse, tuttavia nel tuo commento datato 2 Dicembre 2014 14:29 citi la frase finale del mio commento datato 1 Dicembre 2014 21.17 [vale a dire: ‘Mentre il nostro amore per sperimentare noi stessi come siamo realmente aumenta, ci sentiremo disturbati in modo crescente dalla condizione illusoria di sperimentare noi stessi come un corpo che vive in questo mondo, e riconosceremo di non essere in grado di sperimentare una pace reale o la felicità fino a che ci fondiamo per sempre nel nostro sé reale, la sorgente dalla quale abbiamo avuto origine come questo ego’] e chiedi ‘Questa dichiarazione si qualifica come indicatore (o segno) di progresso o della propria posizione relativa a quella di destinazione?’ No, questa non è l’intenzione con cui ho scritto quella frase, perché ciò che stavo cercando di spiegare in quel commento era solo che il progresso sul sentiero spirituale non è necessariamente marcato da segni come ‘un senso di pace’, essere ‘non più disturbati dalle condizioni terrene’ o ‘quanto stai diventando felice’, poiché se abbiamo un intenso amore e desiderio di fonderci nella nostra sorgente, siamo soggetti a sperimentare estrema angoscia fino a che tale amore e desiderio sono soddisfatti, come illustrato da Bhagavan in molti versi di Śrī Aruṇācala Stuti Pañcakam.

Se stessimo realmente bruciando in un tale fuoco di intenso desiderio causato dall’incompiuto amore di fonderci nella nostra sorgente, la nostra unica preoccupazione sarebbe fonderci qui e ora, così non saremmo soddisfatti solamente pensando che stiamo facendo progressi, o da qualsiasi cosa che non fosse l’auto-consapevolezza assolutamente chiara. Quindi un devoto in un tale stato avanzato sarebbe così intento nel cercare di sperimentare ciò che ‘io’ è realmente proprio in questo momento che lui o lei non avrebbe assolutamente interesse nel cercare qualche segno di progresso.

Un segno è qualcosa diversa da ciò che significa, e secondo Bhagavan non dovremmo pensare ad alcuna cosa diversa da noi stessi, così se siamo sinceramente interessati a sperimentare noi stessi come siamo realmente, dovremmo ignorare tutti i pensieri di progresso o di supposti segni di esso.

Fino a che pensiamo al progresso, stiamo mantenendo una distanza artificiale tra noi stessi e il nostro fine. Il nostro fine è realmente niente altro che noi stessi, così chi progredisce e dove? L’idea di progresso sembra significativa solo al nostro ego, perché per il nostro sé reale non c’è né progresso né un qualche luogo dove progredire. Quindi se identifichiamo qualcosa come un segno di progresso, staremo solo nutrendo il nostro ego, perché fino a che permettiamo a noi stessi di sentire ‘io ho fatto progressi’, staremo perpetrando l’illusione che questo ego è noi stessi. Quindi se stiamo cercando qualche segno di progresso, stiamo solo compiacendo il nostro ego e la sua vanità. 

 I commenti scritti da vari amici su questo soggetto mostrano che alcuni di essi hanno pensato profondamente agli insegnamenti di Sri Ramana sulla pratica di auto-investigazione e sulla ragione per cui egli disse che la perseveranza è il solo vero segno di progresso, e hanno potuto quindi riconoscere facilmente che ciò che Robert Adams disse riguardo molti segni di progresso è incoerente con ciò che Sri Ramana ha insegnato, ma mostrano anche che alcuni di essi erano pronti ad accettare acriticamente ciò che Robert Adams disse anche dopo che è stato spiegato da diversi di noi come e perché ciò era incoerente con gli insegnamenti di Sri Ramana.


 5. Il pericolo di non usare vivēka e di non pensare criticamente

 Un amico mi ha scritto recentemente citando qualcosa che è stata scritta o detta da qualcuno che si suppone sia un seguace di Sri Ramana, e quando ho risposto sottolineando a lui alcune serie differenze tra ciò che aveva citato e ciò che Sri Ramana ha insegnato, egli ha replicato dicendo che considerava una benedizione il non vedere differenze ma vedere solo gli insegnamenti di Sri Ramana in qualsiasi cosa era scritta o detta da qualcuno dei suoi seguaci. Evitando di fare o non riuscendo a fare un’attenta manana e di usare vivēka studiando gli insegnamenti di Sri Ramana, e quindi permettendo a noi stessi di confondere idee che sono incoerenti con i suoi insegnamenti come i suoi insegnamenti stessi, non è certamente una benedizione, perché senza usare vivēka (discriminazione, discernimento o giudizio) non possiamo progredire su questo sentiero, ma siamo soggetti a essere deviati lontano da esso e siamo sicuri di rimanere bloccati nell’auto-ignoranza.

Se non pensiamo attentamente a tutto ciò che Sri Ramana ha insegnato e cerchiamo di comprendere perché ha insegnato in questo modo, non saremo in grado di comprendere i suoi insegnamenti chiaramente e correttamente, ma avremo solo un’idea sfuocata e confusa riguardo a essi, e confonderemo facilmente idee contraddittorie espresse da altri come coerenti con ciò che egli ha insegnato. Poiché molti elementi importanti dei suoi insegnamenti sono molti sottili e tracciano fini distinzioni tra una cosa e un’altra, se non pensiamo profondamente e criticamente a tutto ciò che ha insegnato, come saremo in grado di comprendere i suoi insegnamenti correttamente? E se non li comprendiamo correttamente, come saremo in grado di metterli in pratica correttamente? Quindi l’importanza di pensare criticamente e con sottile discriminazione (vivēka) ai suoi insegnamenti non può essere relativizzata.

Se leggiamo o sentiamo qualcosa riguardo la pratica spirituale o a questioni relative scritte o pronunciate da altri, sia che essi si dichiarino seguaci di Sri Ramana o no, nello stesso modo abbiamo bisogno di considerare criticamente qualsiasi cosa leggiamo o sentiamo, e abbiamo bisogno di usare un’acuta vivēka per vedere se essa contraddice o è in qualche modo incoerente con gli insegnamenti di Sri Ramana. Ci sono molte persone che dichiarano di essere seguaci di Sri Ramana e che scrivono o parlano dei suoi insegnamenti, e alcuni di essi dichiarano di essere o sono creduti essere guru o  jñāni,  ma chiunque possano essere e qualsiasi cosa possano scrivere o dire, se leggiamo o sentiamo qualsiasi cosa scritta o detta da essi  dovremmo considerarla criticamente alla luce della nostra comprensione, attentamente considerata, degli insegnamenti di Sri Ramana e non dovremmo presupporre acriticamente che è coerente con i suoi insegnamenti.


  6. Gli insegnamenti di Sri Ramana e Nisargadatta sono significativamente diversi

 Inoltre, anche se alcune delle idee che una persona scrive o dice sembrano essere coerenti con gli insegnamenti di Sri Ramana, non dovremmo dedurre da questo che qualsiasi cosa possa scrivere o dire è coerente con essi. Un esempio sono gli insegnamenti di Nisargadatta. Spesso ricevo email da persone che mi fanno domande sulle idee espresse da Nisargadatta, e benché trovo che alcune delle sue idee sembrano almeno superficialmente coerenti con gli insegnamenti di Sri Ramana, trovo che molti altri non sono coerenti con essi. Da ciò che ho osservato, mi sembra che la differenza più significativa tra i loro rispettivi insegnamenti sta nel modo in cui ciascuno di essi dice come dovremmo praticare l’auto-investigazione.

Secondo Sri Ramana, l’auto-investigazione comporta il dare attenzione solo a ‘io’, noi stessi, colui che sperimenta ogni cosa, così qualche pensiero di qualsiasi altra cosa diversa da ‘io’ sorge nella nostra mente, non dovremmo dare a esso neppure la minima attenzione ma dovremmo immediatamente volgere la nostra attenzione verso noi stessi solamente. Questo è stato da lui spiegato ripetutamente in Nāṉ Yār? (come i tre brani di esso che ho citato in una sezione iniziale di questo articolo, La perseveranza è il solo vero segno di progresso) e altrove, così chiunque ha studiato i suoi insegnamenti e pensato attentamente ad essi dovrebbe comprendere che questo è il modo in cui dovremmo investigare noi stessi.  Comunque, se leggiamo gli insegnamenti di Nisargadatta, troviamo che benché qualche volta sembra raccomandare di dare attenzione solo a ‘io’, in molte occasioni sembra raccomandare di osservare i nostri pensiero o altre cose.

Benché Nisargadatta spesso disse che dovremmo osservare noi stessi, ciò che egli intende esattamente con questo non è chiaro, perché spesso sembra intendere che dovremmo guardare o osservare i pensieri e le sensazioni che sorgono nella nostra mente piuttosto che l’ ‘io’ che li sta guardando o osservando. Molte persone che leggono i suoi insegnamenti non riescono a comprendere quanto sia importante la distinzione tra l’osservare solo ‘io’ e l’osservare qualche altro pensiero o i pensieri, ma distinguere tra questi due (soggetto e oggetto, l’osservatore e l’osservato, l’ ‘io’ sperimentante e qualsiasi altra cosa che esso può sperimentare) e cercare di osservare solo l’osservatore e quindi ignorare ogni altra cosa è ciò che l’auto-investigazione (ātma-vicāra) comporta, ed è chiamata dṛg-dṛśya-vivēka (distinguere o discernere il vedente dal visto).

Recentemente qualcuno che era confuso su come praticare l’auto-investigazione dopo aver letto gli insegnamenti di Nisargadatta, e che credeva che egli insegnò che per scoprire il nostro sé reale dobbiamo osservare i nostri pensieri fino a che si fermano, mi ha scritto chiedendo riguardo questo, così ho controllato online e ho trovato una compia pdf di ‘Io sono Quello’ a cui fare riferimento. Ho letto alcuni brani di esso negli anni ’70, quando qualcuno mi presto una copia e mi chiese di leggerlo, e sebbene sono passati circa quarant’anni da quando l’ho letto per l’ultima volta, posso ricordare che egli raccomandava frequentemente di dare attenzione ai pensieri o ad altre cose piuttosto che ignorarle, come Sri Ramana disse che dovremmo fare, così ho voluto controllare se la mia memoria era esatta, e ho trovato molti punti dove egli raccomanda ciò.

Per esempio dice: ‘Guardando la loro influenza in voi e su di voi. Siate consapevoli di essi [tamas e rajas] in azione, guardate le loro espressioni nei vostri pensieri, nelle vostre parole e nei vostri atti, e gradualmente la loro presa su di voi diminuirà’ (p.17 nella copia pdf); ‘Controlla i tuoi pensieri, le sensazioni, le parole le azioni’ (p.27); ‘Osservala [l’attività], ed essa cesserà’ (p.171); ‘Inizia lasciando fluire i pensieri e osservandoli. La precisa osservazione rallenta la mente fino a che si ferma completamente’ (p.175); ‘Osserva i tuoi pensieri e osserva te stesso che osserva i pensieri. Lo stato di libertà da tutti i pensieri accadrà  improvvisamente’ (p.175); ‘Osserva i tuoi pensieri come osservi il traffico in strada.[…] Può non essere facile all’inizio, ma con un po’ di pratica scoprirai che la tua mente  può funzionare a molti livelli allo stesso tempo e tu puoi essere consapevole di tutti. (p.185); ‘Se sei arrabbiato o soffri, separa te stesso dalla rabbia e dal dolore e osservali. L’estrinsecazione è il primo passo verso la liberazione.  Fai un passo da parte e osserva’ (p.189); ‘Osservalo attentamente e vedrai come la mente assume innumerevoli nomi e forme, come un fiume che spumeggia tra i massi. Traccia ogni azione fino al suo motivo egoistico e guarda il motivo attentamente fino a che si dissolve’ (p.235); ‘La vera consapevolezza (samvid) è uno stato di pura testimonianza, senza il minimo tentativo di fare qualcosa riguardo l’evento testimoniato. I tuoi pensieri e le sensazioni, le parole e le azioni possono anche essere una parte dell’evento; tu osserva tutto indifferente nella piena luce della chiarezza e della comprensione’ (p.283); ‘Come sai che ti sei realizzato se non osservi i tuoi pensieri e le sensazioni, le parole e le azioni e ti stupisci dei cambiamenti che accadono in te senza che tu sappia perché e come? E’ precisamente perché essi sono così sorprendenti che tu sai che essi sono reali’ (p.296); ‘osserva la tua vita quotidiana senza sosta’ (p.336); ‘Nello specchio della tua mente tutti i generi di immagini appaiono e scompaiono. Sappi che esse sono completamente la tua creazione, osservale silenziosamente venire e andare, sii vigile, ma non turbato. Questa attitudine di silente osservazione è proprio il fondamento dello Yoga’ (p.345); ‘osserva ciò che viene alla superficie della mente’ (p.356).

 Il consiglio che Nisargadatta da in brani come questi è del tutto opposto al consiglio che Sri Ramana era solito dare. Sti Ramana non ci consigliò mai di osservare i nostri pensieri, ma di ignorarli dando attenzione solo a noi stessi, l’ ‘io’ a cui essi avvengono. Uno dei principi fondamentali dei suoi insegnamenti è che la nostra mente sorge ed è nutrita e sostenuta solo dando attenzione a qualsiasi altra cosa diversa da se stessa. E che essa sprofonderà e si dissolverà nella sua sorgente solo quando essa da attenzione a ‘io’ solamente, così secondo questo principio osservare i pensieri o qualsiasi altra cosa nutrirà la nostra mente e non aiuterà a determinare la sua dissoluzione. Egli spesso espresse questo principio sia esplicitamente sia implicitamente, e una espressione molto chiara di esso è il verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu:

உருப்பற்றி யுண்டா முருப்பற்றி நிற்கு முருப்பற்றி யுண்டுமிக வோங்கு — முருவிட் டுருப்பற்றுந் தேடினா லோட்டம் பிடிக்கு முருவற்ற பேயகந்தை யோர்.

 uruppaṯṟi yuṇḍā muruppaṯṟi niṟku
muruppaṯṟi yuṇḍumiha vōṅgu — muruviṭ
ṭuruppaṯṟun tēḍiṉā lōṭṭam piḍikku
muruvaṯṟa pēyahandai yōr.

 பதச்சேதம்: உரு பற்றி உண்டாம்; உரு பற்றி நிற்கும்; உரு பற்றி உண்டு மிக ஓங்கும்; உரு விட்டு, உரு பற்றும்; தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும், உரு அற்ற பேய் அகந்தை. ஓர்.

 Padacchēdam (separazione delle parole): uru paṯṟi uṇḍām; uru paṯṟi niṯkum; uru paṯṟi uṇḍu miha ōṅgum; uru viṭṭu, uru paṯṟum; tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum, uru aṯṟa pēy ahandai. ōr.

 அன்வயம்: உரு அற்ற பேய் அகந்தை உரு பற்றி உண்டாம்; உரு பற்றி நிற்கும்; உரு பற்றி உண்டு மிக ஓங்கும்; உரு விட்டு, உரு பற்றும்; தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும். ஓர்.

 Anvayam (parole disposte secondo l’ordine di prosa naturale): uru aṯṟa pēy ahandai uru paṯṟi uṇḍām; uru paṯṟi niṯkum; uru paṯṟi uṇḍu miha ōṅgum; uru viṭṭu, uru paṯṟum; tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum. ōr.

 Traduzione: Afferrando una forma, l’ego-fantasma senza forma ha origine; afferrando una forma esso permane; afferrando e nutrendosi della forma esso cresce abbondantemente; lasciando [una] forma, esso afferra [un'altra] forma. Se cercato [esaminato o investigato], esso fugge. Investiga [o sappi questo].

Qui  உரு (uru) o ‘forma’ significa ogni cosa che ha caratteristiche peculiari di qualunque genere – cioè, ogni caratteristica che lo distingue in qualche modo da qualsiasi altra cosa. Poiché noi stessi siamo essenzialmente senza caratteristiche, siamo senza forma, e quindi ‘forma’ qui indica qualcosa diversa da noi stessi. In se stesso, l’ego non ha ‘forma’ o caratteristiche peculiari, così Sri Ramana lo descrive qui come உருவற்ற பேய் அகந்தை (uru-v-aṯṟa pēy ahandai), ‘l’ego-fantasma senza forma’. Poiché non ha forma, l’ego non è realmente qualcosa diversa dal nostro sé infinito e reale, così può sembrare esistere come un’entità separata solo attaccando se stesso alle forme (cioè, alle cose che sono diverse da se stesso), che esso crea insieme a se stesso.

Quindi l’ego ha origine apparente creando e attaccando se stesso alle forme, esso ‘permane’ o resiste continuando ad attaccare se stesso alle forme, e nutrendosi in questo modo delle forme esso prospera. Poiché esso non può permanere senza afferrarsi a una forma o un’altra, quando lascia andare una forma ne afferra un’altra. Esso ‘afferra’ o attacca se stesso alle forme per sperimentarle, e le sperimenta dando attenzione ad esse. Quindi ciò che nutre e sostiene l’ego è solo l’attenzione a qualsiasi cosa diversa da se stessa. Quindi se, invece di dare attenzione a qualsiasi altra cosa, l’ego cerca di dare attenzione solo a se stesso, esso sprofonderà e si dissolverà nella sua sorgente, il nostro sé reale.

Perciò Sri Ramana conclude questo verso dicendo: ‘தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும்’ (tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum), ‘Se cercato, esso fuggirà’. Qui தேடினால் (tēḍiṉāl) significa letteralmente ‘se cercato’, così questa frase condizionale implica che se cerchiamo di vedere, esaminare o investigare ciò che l’ego è realmente, esso scomparirà, non avendo una reale esistenza propria.

Nel verso successivo Sri Ramana dice che ogni altra cosa (tutte le forme a cui si aggrappa o sperimenta) ha origine solo quando l’ego ha origine, e non esiste quando l’ego non esiste.

 Quindi, se investighiamo ciò che questo ego è, non solo esso cesserà di esistere, ma ogni altra cosa cesserà di esistere con esso, e quindi egli conclude quel verso dicendo, ‘ஆதலால், யாது இது என்று நாடலே ஓவுதல் யாவும் என ஓர்’ (ādalāl, yādu idu eṉḏṟu nādal-ē ōvudal yāvum eṉa ōr), che significa, ‘Quindi, sappi che solo investigare cosa è questo [ego] è rinunciare ad ogni cosa’.

Perciò, riflettendo sul significato di questi due versi criticamente e profondamente, dovremmo comprendere che dando attenzione a, guardando, osservando o sperimentando qualsiasi cosa diversa da noi stessi, stiamo nutrendo e sostenendo l’ego, e che se vogliamo liberare noi stessi da esso, dobbiamo cercare di dare attenzione solo a esso. Non c’è altro modo, come Sri Ramana ha spesso detto.

Dunque, quando Nisargadatta dice che la presa di tamas e rajas su di voi diminuiranno gradualmente se ‘osservate le loro espressioni nei vostri pensieri, parole e atti’ (p.17), quell’attività cesserà se la osservate (p.171), che la precisa osservazione dei pensieri ‘rallenta la mente fino a che si ferma completamente’ (p.175), che se osserviamo i nostri pensieri e osserviamo oi stessi osservando i pensieri lo ‘stato di libertà da tutti i pensieri accadrà improvvisamente’ (p.175), e che il motive egoistico per ogni azione si dissolverà se lo guardiamo attentamente (p.235), egli sta intendendo l’’opposto di ciò che Sri Ramana ci ha insegnato, vale a dire che il solo mezzo effettivo per indebolire e dissolvere il potere di ogni pensiero è ignorarlo dando attenzione solo a noi stessi, la sorgente da cui è apparso.

 I pensieri e tutte le altre cose che Nisargadatta dice che dovremmo osservare esistono solo nella visione del nostro ego, e può quindi essere sperimentata solo fino a che confondiamo noi stessi come questo ego. Perciò osservandoli stiamo perpetrando l’illusione che l’ego è noi stessi, e quindi stiamo nutrendo e sostenendo l’ego. Fino a che nutriamo il nostro ego in questo modo, esso continuerà a creare pensieri e altre ‘forme’ di esperienza, perché sperimentare queste cose è il suo cibo. Quindi, contrariamente a quando afferma Nisargadatta, i pensieri non si rallenteranno o cesseranno fino a che continuiamo ad osservarli o a dare loro attenzione. La sola cosa che sprofonderà e cesserà se diamo attenzione a essa è il nostro ego, che è il motivo per cui Sri Ramana disse che dovremmo cercare di dare attenzione a noi stessi solamente.

Comunque, quando Nisargadatta dice, ‘La vera consapevolezza (samvid) è uno stato di pura testimonianza, senza il minimo tentativo di fare alcuna cosa riguardo l’evento testimoniato’ (p.283), egli sta chiaramente intendendo che osservando o essendo consapevoli degli eventi (di cui egli dice nella prossima frase che i nostri ‘pensieri e sensazioni, parole e azioni possono anche essere una parte’) è ‘vera consapevolezza’, mentre secondo Sri Ramana essere consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi è ignoranza, e quindi la vera consapevolezza è solo essere consapevoli di noi stessi solamente. Per esempio, nel verso 13 di Uḷḷadu Nāṟpadu dice: ‘ஞானம் ஆம் தானே மெய். நானாவாம் ஞானம் அஞ்ஞானம் ஆம்’ (jñāṉam ām tāṉ-ē mey. nāṉā-v-ām jñāṉam ajñāṉam ām), che significa ‘solo il sé, che è jñāna [conoscenza o consapevolezza] , è reale. La conoscenza che è molteplice [o conoscenza della moltitudine] è ajñāna [ignoranza]’. Allo stesso modo nel verso 11 di Uḷḷadu Nāṟpadu dice: ‘அறிவு உறும் தன்னை அறியாது அயலை அறிவது அறியாமை; அன்றி அறிவோ?’ (aṟivu uṟum taṉṉai aṟiyādu ayalai aṟivadu aṟiyāmai; aṉḏṟi aṟivō?), che significa ‘Non conoscendo se stesso, colui che conosce, conoscere [invece ogni] altra cosa è ignoranza; tranne [quello], può questo essere conoscenza?’. E nel verso 16 di Upadēśa Undiyār dice:

வெளிவிட யங்களை விட்டு மனந்தன் னொளியுரு வோர்தலே யுந்தீபற
      வுண்மை யுணர்ச்சியா முந்தீபற.

 veḷiviḍa yaṅgaḷai viṭṭu maṉantaṉ
ṉoḷiyuru vōrdalē yundīpaṟa
      vuṇmai yuṇarcciyā mundīpaṟa.

 பதச்சேதம்: வெளி விடயங்களை விட்டு மனம் தன் ஒளி உரு ஓர்தலே உண்மை உணர்ச்சி ஆம்.

 Padacchēdam (separazione delle parole): veḷi viḍayaṅgaḷai viṭṭu maṉam taṉ oḷi-uru ōrdal-ē uṇmai uṇarcci ām.

 Traduzione: Avendo rinunciato [a conoscere] i viṣayas esterni [oggetti, eventi, condizioni o esperienze], solo la conoscenza della mente della propria forma di luce [pura auto-consapevolezza] è vera conoscenza [o conoscenza della realtà].


Riflettendo su questi versi e altri insegnamenti simili di Sri Ramana, dovremmo essere in grado di comprendere che secondo lui il testimoniare, l’osservare o essere consapevoli di ogni eventi, pensiero, sensazione, parola, azione o qualsiasi altra cosa diversa da noi stessi solamente non è ‘vera consapevolezza’ ma solo ignoranza. Quindi se usiamo almeno un po’ di discriminazione (vivēka) e consideriamo criticamente la dichiarazione di Nisargadatta, ‘La vera consapevolezza (samvid) è uno stato di pura testimonianza, senza il minimo tentativo di fare alcuna cosa riguardo l’evento testimoniato. I tuoi pensieri e sensazioni, parole e azioni possono anche essere una parte dell’evento; tu osserva tutto indifferente nella piena luce della chiarezza della comprensione’ (p.283), dovrebbe essere chiaro che la sua comprensione della ‘vera o reale consapevolezza’ e della ‘piena luce di chiarezza’ è completamente opposta a quella che Sri Ramana ci ha insegnato riguardo la natura della reale consapevolezza, che è essere consapevoli di niente altro che noi stessi.


Secondo Sri Ramana, la vera chiarezza è solo auto-consapevolezza perfettamente chiara – cioè, consapevolezza di noi stessi solamente. Quindi nella ‘piena luce di chiarezza’ non c’è niente da osservare tranne che noi stessi. La consapevolezza di qualsiasi altra cosa è possibile solo quando sperimentiamo noi stessi come l’ego o mente, che è la nuvola che oscura ‘la piena luce di chiarezza’, che è il nostro sé reale. Quindi fino a che stiamo testimoniando qualche evento, pensiero, sensazione, parola o azione, non stiamo sperimentando  ‘la piena luce di chiarezza’ ma solo un’illusione creata dal nostro ego.

Un altro chiaro esempio della differenza tra gli insegnamenti di Nisargadatta e quelli di Sri Ramana possono essere visti nel seguente dialogo registrato a pag. 170-1 della copia PDF di Io sono Quello (nel capitolo 48, ‘La consapevolezza è Libera’):

M: […] Quando siedi quieto e osservi te stessi, tutti i generi di come possono venire in superficie. Non fare niente con esse, non reagire ad esse; come sono venute così se ne andranno, da loro stesse. Tutte quelle questioni sono attenzione, totale consapevolezza di se stessi o piuttosto, della propria mente.

Q: Con ‘se stesso’ intendi il sé quotidiano?

M: Sì, la persona, che solamente è osservabile oggettivamente, L’osservatore è oltre l’osservazione. Ciò che è osservabile non è il sé reale.

Q: Posso sempre osservare l’osservatore, in regressione infinita.

M: Puoi osservare l’osservazione, ma non l’osservatore. […]

L’osservatore è solo l’ego, che è l’essenza della mente e della persona o ‘sé quotidiano?, e secondo Sri Ramana questo osservatore è la sola cosa che dovremmo osservare, perché solo quando rinunciamo ad osservare o ad essere consapevoli di qualsiasi altra cosa e invece cerchiamo di osservare solo l’ego che osserva, esso sprofonderà e si dissolverà nella sua sorgente, il nostro sé essenziale, che è ciò che siamo realmente. Naturalmente non possiamo osservare l’osservatore ‘oggettivamente’, come dice Nisargadatta, perché l’osservatore non è un oggetto ma solo il soggetto. Comunque, benché non possiamo osservarlo ‘oggettivamente’  o come un oggetto, lo possiamo osservare come il soggetto., ‘io’, perché nonostante possiamo essere consapevoli o no di qualsiasi altra cosa, siamo sempre consapevoli di noi stessi.

Ora siamo consapevoli di noi stessi e di altre cose, e come risultato di ciò confondiamo altre cose come noi stessi, così il nostro scopo nell’auto-investigazione è di essere consapevoli di noi stessi solamente, in completo isolamento da ogni altra cosa, così che possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente – senza confondere noi stessi con aggiunte, come facciamo ora. Per essere consapevoli di noi stessi solamente, dobbiamo cercare di osservare, guardare o dare attenzione solo a noi stessi, l’osservatore. Più accuratamente e con vigilanza osserviamo l’osservatore, più esso sprofonderà, fino a che infine si fonde e si dissolve nella sua sorgente, il nostro sé reale, dopo di che (secondo Sri Ramana) tutto ciò che rimarrà è la pura auto-consapevolezza, infinita, indivisibile, immutabile ed eterna.

Nisargadatta dice che non possiamo osservare l’osservatore ma solo l’osservazione, ma non è affatto chiaro ciò che questo significa. L’osservazione non può esiste di per sé, ma deve sempre essere osservazione di qualcosa, o di noi stessi o di qualche altra cosa, perché anche se diciamo che non stiamo osservando niente, il ‘niente’ che stiamo osservando è solo un’idea, poiché ‘niente’ non esiste realmente e quindi non può essere osservato. Quindi quando egli dice, ‘Tu puoi osservare l’osservazione, ma non l’osservatore’, dobbiamo logicamente dedurre che poiché egli dice che non possiamo osservare l’osservatore, ciò che intende con osservare l’osservazione è osservare l’osservazione di altre cose.

Ma c’è una qualche differenza reale tra l’osservare qualche altra cosa e osservare l’osservazione di essa? Il discorso di osservare l’osservazione di qualsiasi altra cosa sembra essere una tautologia, perché l’osservazione di qualsiasi cosa non è qualcosa di separato dall’osservazione di essa, così se stiamo osservando qualcosa non c’è osservazione separata di essa da osservare. Naturalmente mentre osserviamo qualcosa possiamo pensare ‘sto osservando questo’, e poi possiamo osservare il pensiero ‘sto osservando questo’, ma allora staremmo osservando un pensiero riguardo l’osservare piuttosto che osservare l’osservazione stessa.

Comunque, qualsiasi cosa Nisargadatta può intendere dicendo ‘tu puoi osservare l’osservazione’, è chiaro che ciò che intende con ‘l’osservazione’ è qualcosa diversa da noi stessi, l’osservatore, perché egli dice che non possiamo osservare l’osservatore. Poiché noi siamo l’osservatore, se non possiamo osservare l’osservatore, questo significa che non possiamo osservare noi stessi, nel qual caso come possiamo investigare noi stessi? L’osservazione è lo strumento primario di ogni investigazione, così se non possiamo osservare noi stessi, non possiamo investigare noi stessi. Quindi dire che non possiamo osservare l’osservatore è una diretta contraddizione degli insegnamenti di Sri Ramana, poiché egli ci ha insegnato che per sperimentare noi stessi come siamo realmente dobbiamo investigare, esaminare, scrutare o osservare solo noi stessi e non qualsiasi altra cosa. 

 Quando Nisargadatta dice, ‘L’osservatore è oltre l’osservazione. Ciò che è osservabile non è il sé reale’, dobbiamo chiederci cosa intende con ‘osservare’ in questo contesto. Se egli intende osservare oggettivamente, ovviamente né l’osservatore (il nostro ego) né il nostro sé reale possono essere osservati come se fossero oggetti, così sarebbe senza senso parlare di osservarli oggettivamente. Ma proprio come siamo consapevoli degli oggetti, siamo anche consapevoli di noi stessi, il soggetto che è consapevole di essi, così se possiamo osservare gli oggetti, possiamo anche osservare noi stessi, sebbene non oggettivamente.

Quando parliamo di investigare, esaminare o osservare noi stessi, l’osservatore ovviamente non intendiamo che possiamo fare questo oggettivamente, così in questo contesto ‘osservare’ deve significare qualcosa diversa da osservare oggettivamente. Ciò che ‘osservare’ significa quando parliamo di osservare noi stessi o l’osservatore è solo sperimentare o essere consapevoli di noi stessi solamente. Quando osserviamo qualcosa accuratamente (noi stessi o ogni altra cosa), cerchiamo di focalizzare la nostra attenzione su di essa così che siamo consapevoli di essa esclusivamente, in questo modo possiamo osservare ogni cosa di cui siamo consapevoli, incluso noi stessi, l’osservatore. Quindi se comprendiamo ‘osservare’ nel significato di cercare di sperimentare o essere consapevoli di qualsiasi cosa più o meno esclusivamente, non sarebbe corretto dire come fece Nisargadatta: ‘L’osservatore è oltre l’osservazione, Ciò che è osservabile non è il sé reale’. Noi possiamo osservare l’osservatore (il nostro ego), e quindi possiamo sperimentare il nostro sé reale.

Nisargadatta spesso consigliò ‘guarda la tua mente’. Per esempio, disse ‘Sii conscio di te stessi, guarda la tua mente, dai ad essa la tua piena attenzione’ (pag.102), ‘Qualsiasi cosa hai da fare, guarda la tua mente’ (p.168) e ‘Guarda la tua mente con grande diligenza’ (p.210). Comunque il significato di ‘osserva la tua mente’ è ambiguo, perché il termine ‘mente’ può essere usato sia come un termine collettivo indicante tutti i nostri pensieri o come una parola indicante il nostro ego, che è l’essenza della nostra mente e la radice di tutti gli altri pensieri. Come Sri Ramana disse nel verso 18 di  Upadēśa Undiyār:

எண்ணங்க ளேமனம் யாவினு நானெனு மெண்ணமே மூலமா முந்தீபற
      யானா மனமென லுந்தீபற.

 eṇṇaṅga ḷēmaṉam yāviṉu nāṉeṉu
meṇṇamē mūlamā mundīpaṟa
      yāṉā maṉameṉa lundīpaṟa
.

 பதச்சேதம்: எண்ணங்களே மனம். யாவினும் நான் எனும் எண்ணமே மூலம் ஆம். யான் ஆம் மனம் எனல்.

 Padacchēdam (separazione delle parole): eṇṇaṅgaḷ-ē maṉam. yāviṉ-um nāṉ eṉum eṇṇam-ē mūlam ām. yāṉ ām maṉam eṉal.

 அன்வயம்: எண்ணங்களே மனம். யாவினும் நான் எனும் எண்ணமே மூலம் ஆம். மனம் எனல் யான் ஆம்.

 Anvayam (parole disposte in ordine di prosa naturale): eṇṇaṅgaḷ-ē maṉam. yāviṉ-um nāṉ eṉum eṇṇam-ē mūlam ām. maṉam eṉal yāṉ ām.

 Traduzione: I pensieri solamente solo la mente è [o la mente è solo i pensieri]. Di tutti [i pensieri], solo il pensiero chiamato ‘io’ è il mūla [la radice, la base, il fondamento, l’origine, la sorgente o la causa]. [Quindi] ciò che è chiamato mente è [essenzialmente solo] ‘io’ [l’ego o il pensiero-radice chiamato ‘io’].

Quando Sri Ramana ci consigliò di investigare o esaminare la mente, ciò che egli intendeva con ‘mente’ era solo l’ego, il nostro pensiero primario chiamato ‘io’, che è ciò che sperimenta sia se stesso e tutti gli altri pensieri. Egli non intendeva che dovremmo investigare qualche altro pensiero o anche l’intera serie di pensieri, perché dare attenzione ad ogni pensiero diverso dal nostro pensiero primario chiamato ‘io’  nutrirà e sosterrà l’illusione che questa mente è noi stessi, mentre dare attenzione a questo pensiero originario ‘io’ solamente dissolverà questa illusione e quindi ci metterà in grado di sperimentare noi stessi come siamo realmente.

Comunque, quando Nisargadatta consigliava le persone di osservare la loro mente, sembra che ciò che intendeva è che essi avrebbero dovuto osservare qualsiasi pensiero sorga nella loro mente, perché spesso consigliò le persone di osservare i loro pensieri e perché disse che non è possibile osservare l’osservatore, che è l’ego, il primo pensiero chiamato ‘io’. Questo sembra essere confermato da altre cose che egli disse. Per esempio, a pagina 28 dice, ‘Tu devi osservare te stesso continuamente – particolarmente la tua mente – momento dopo momento, non lasciandoti sfuggire niente’. Quando egli dice ‘osserva te stesso continuamente – particolarmente la tua mente’, sembra implicare che ciò che intende con ‘mente’ non è ‘io’ ma qualcos’altro che o è distinto da noi stessi o è una parte di noi stessi. Nello stesso modo, quando dice ‘non lasciandoti sfuggire niente’, implica che ciò che dovremmo osservare è qualsiasi cosa accade nella nostra mente piuttosto che l’ ‘io’ che la sperimenta accadere.

A pagina 150 egli dice, ‘Osserva la tua mente, come ha origine, come opera. Mentre osservi la tua mente, scopri te stesso come l’osservatore’.  Quando egli dice questo, implica che la mente che dovremmo osservare è qualcosa di diverso da noi stessi, chi deve  osservarla, e quando dice che dovremmo osservare come opera, nuovamente implica che ciò che dovremmo osservare non è ‘io’, l’osservatore, ma tutti gli altri pensieri che operano nella nostra mente. Nello stesso modo, a pagina 235 dice, ‘Osserva attentamente e vedrai come la mente assume innumerevoli nomi e forme’. Se osserviamo l’ego attentamente, esso non assumerà alcun nome o forma, ma sprofonderà, perché esso può assumere nomi e forme solo quando da attenzione a qualsiasi cosa diversa da se stesso, così questa frase nuovamente suggerisce che ciò che egli intende con ‘mente’ è la serie di altri pensieri piuttosto che il primo pensiero chiamato ‘io’, che è l’ego.

In modo simile, ogni volta che egli dice che dobbiamo osservare noi stessi, sembra che ciò che intende è che dovremmo osservare tutti i nostri pensieri e sensazioni piuttosto che l’ ‘io’ che li sta osservando, perché come ha confermato nel brano di pagina 170-1 che ho citato sopra, ciò che egli intende con ‘se stessi’ quando parla di ‘totale consapevolezza di se stessi o piuttosto, della propria mente è solo la persona o ‘sé quotidiano’, che egli dice è solo ‘osservabile oggettivamente’, poiché afferma che non possiamo realmente osservare  l’osservatore. Questo illustra perché è necessario usare discriminazione  (vivēka) per considerare criticamente qualsiasi cosa possiamo leggere o udire, perché ciò che Sri Ramana intende quando dice che dovremmo dare attenzione solo a noi stessi o alla  nostra mente è del tutto differente da ciò che Nisargadatta ed qualche altra persona intende dicendo la stessa cosa.



continua...

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