Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

domenica 24 maggio 2015

Dṛg-dṛśya-vivēka : distinguere colui che vede da ciò che è visto

Michael James

20 Maggio 2015
Dṛg-dṛśya-vivēka: distinguishing the seer from the seen

In un commento che ha scritto al mio articolo precedente, ‘Osservazione senza l’osservatore’ e ‘consapevolezza senza scelta’: Perché gli insegnamenti di J. Krishnamurti sono diametralmente opposti a quelli di Sri Ramana, un amico di nome Venkat ha citato due brani che riportano ciò che Bhagavan ha detto in due occasioni, il primo in risposta a una domanda che gli fu posta riguardo gli insegnamenti di J. Krishnamurti e il secondo in risposta a un commento su di essi.
  1. La visione di Bhagavan sulla ‘consapevolezza senza sforzo e senza scelta’
  2. L’ego non è una ‘quantità di circostanze’ ma ciò che sperimenta tutte le circostanze
  3. L’esistenza apparente di qualsiasi cosa che è sperimentata dipende dall’ego che la sperimenta
  4. Distinguere l’ego dal resto della mente
  5. Distinguere lo sperimentatore (dṛś) dallo sperimentato (dṛśya)
  6. L’essenza della mente è l’ego, e l’essenza dell’ego è la pura auto-consapevolezza
  7. Per vedere ciò che è reale dobbiamo rinunciare a vedere ciò che è visto (dṛśya)
  8. Ciò che siamo realmente non è il testimone (sākṣin) o il veggente (dṛś) di ogni cosa
  9. Per sperimentare ciò che siamo realmente dobbiamo cessare di testimoniare o di essere consapevoli di qualsiasi altra cosa

1. La visione di Bhagavan sulla ‘consapevolezza senza sforzo e senza scelta’

Il primo brano citato da Venkat è tratto da Day by Day with Bhagavan (11-1-46 Pomeriggio), dove è registrato che un giovane uomo da Colombo chiese a Bhagavan:
J. Krishnamurti insegna il metodo di consapevolezza senza sforzo e senza scelta come distinto da quello della concentrazione intenzionale. Sri Bhagavan gradirebbe spiegare come praticare la meditazione al meglio e quale forma dovrebbe avere l’oggetto della meditazione?
La risposta di Bhagavan a questa domanda è annotata come segue:
Consapevolezza senza sforzo e senza scelta è la nostra reale natura. Se possiamo ottenerla o essere in quello stato, va bene. Ma non si può raggiungerla senza sforzo, lo sforzo della meditazione intenzionale. Tutte le vasana di lunga data [tendenze, propensioni o inclinazioni] portano la mente al di fuori e la rivolgono agli oggetti esterni. Tutti questi pensieri devono essere abbandonati e la mente deve essere rivolta all’interno. Per questo, per la maggioranza delle persone lo sforzo è necessario. Naturalmente ognuno, ogni libro dice, “சும்மா இரு” [summā iru: soltanto sii] cioè, “Sii quieto o fermo”. Ma non è facile. Questo è il motivo per cui è necessario tutto questo sforzo. Anche se troviamo qualcuno che ha raggiunto il mauna [silenzio] lo stato supremo indicato da “சும்மா இரு” [summā iru], si può supporre che lo sforzo necessario sia già stato completato in una vita precedente. Così che, la consapevolezza senza sforzo e senza scelta è raggiunta solo dopo meditazione intenzionale. […]
Questa registrazione della risposta di Bhagavan può essere non del tutto precisa, ma probabilmente lo è abbastanza per darci un’idea generale della sua visione sulla ‘consapevolezza senza sforzo e senza scelta’. Come egli dice, la consapevolezza senza sforzo e senza scelta è la nostra reale natura, perché la nostra reale natura è di essere consapevoli soltanto di noi stessi, così la pura auto-consapevolezza è ciò che siamo realmente, e quindi essere auto-consapevoli non ci richiede sforzo, né comporta qualche scelta, perché non potremmo scegliere di non essere auto-consapevoli.

Tuttavia, benché siamo sempre consapevoli di noi stessi senza sforzo e senza scelta, al momento siamo consapevoli anche di altre cose, così finché siamo consapevoli di qualcosa diversa da noi stessi, non siamo consapevoli di noi stessi come siamo realmente, ma come questo ego o mente. Quindi per essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente, abbiamo bisogno di fare lo sforzo di rivolgere la nostra attenzione soltanto verso noi stessi – e di conseguenza lontano da ogni altra cosa.

Cioè, non possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente finché ci sperimentiamo come questo ego, ed è solo quando ci sperimentiamo come questo ego che siamo anche consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi. Quindi per essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente abbiamo la necessità di smettere di essere consapevoli di altre cose, e smettere di essere consapevoli di altre cose richiede da parte nostra uno sforzo intenzionale, perché la vera natura del nostro ego è di aggrapparsi a cose diverse da se stesso.

Il motivo per cui la natura del nostro ego è quella di aggrapparsi ad altre cose è che esso non può reggersi o resistere senza fare questo, così essere consapevole di cose diverse da se stesso è ciò che lo nutre e lo sostiene, come Bhagavan sottolinea nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu (che ho citato nella seconda sezione del mio articolo precedente, Non possiamo scegliere di essere ‘consapevoli senza scelta’). Quindi per sopravvivere come questo ego dobbiamo costantemente essere consapevoli di altre cose, e perciò come questo ego abbiamo sempre un forte impulso di dirigere la nostra attenzione lontano da noi stessi e verso altre cose. Questo impulso è il potere dietro le nostre tendenze esteriorizzanti (vāsanā), così abbiamo bisogno di compiere uno sforzo intenzionale per resistere a questo impulso rivolgendo la nostra attenzione soltanto verso noi stessi, perché solo quando siamo consapevoli soltanto di noi stessi ci sperimentiamo come siamo realmente e dissolviamo l’illusione di essere questo ego. Questo è ciò che Bhagavan intendeva quando ha spiegato al giovane uomo di Colombo:
[…] Ma non si può raggiungere [la nostra reale natura] senza sforzo, lo sforzo di meditazione intenzionale. Tutte le vasana di lunga data portano la mente al di fuori e la rivolgono agli oggetti esterni. Tutti questi pensieri devono essere abbandonati e la mente deve essere rivolta all’interno. Per questo, lo sforzo è necessario […]
Così Bhagavan ha spiegato chiaramente che benché la consapevolezza di noi stessi senza sforzo e senza scelta sia la nostra reale natura, non possiamo sperimentare la nostra reale natura come è senza scegliere di fare uno sforzo intenzionale per meditare soltanto su noi stessi. Quando egli dice qui che ‘Tutti questi pensieri devono essere abbandonati e la mente deve essere rivolta all’interno’, ciò che intende con ‘tutti questi pensieri’ è tutti i pensieri riguardo qualsiasi cosa diversa da noi stessi, e ciò che intende con ‘rivolta all’interno’ è rivolta verso se stessa – cioè, rivolta soltanto verso noi stessi – perché ogni cosa diversa da noi stessi è ‘fuori’, esterno o estraneo a noi stessi. Quindi, benché queste possono non essere le sue parole esatte, l’implicazione generale della parte della sua risposta che ho citato sopra è che per ‘raggiungere’ o sperimentare la nostra natura reale dobbiamo rivolgere la nostra mente soltanto verso noi stessi.

Sebbene Devaraja Mudaliar annota che dopo aver detto al giovane uomo di Colombo che ‘la consapevolezza senza sforzo e senza scelta è raggiunta solo dopo meditazione intenzionale’, Bhagavan ha finito la sua risposta dicendo, ‘Quella meditazione può prendere la forma che più ti piace. Vedi ciò che ti aiuta a tenere lontani tutti gli altri pensieri e adotta quel metodo per la tua meditazione’, dobbiamo dedurre che questa parte della sua risposta non fu annotata con sufficiente precisione, o che egli disse questo solo come una concessione, forse perché sapeva che quel giovane uomo non sarebbe stato ancora pronto a cercare di meditare soltanto su se stesso.

Tuttavia, sia che egli terminò realmente la sua risposta in questo modo o meno, e se lo fece, qualsiasi sia stata la ragione per averlo fatto, sappiamo dai suoi scritti originali e da molte altre registrazioni delle sue risposte, che il suo reale insegnamento fu che possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente solo meditando soltanto su noi stessi. Meditare su altre cose può aiutarci a purificare in qualche misura la nostra mente, ma prima o poi dobbiamo meditare soltanto su noi stessi, perché se non lo facciamo non possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente.

2. L’ego non è una ‘quantità di circostanze’ ma ciò che sperimenta tutte le circostanze

Il secondo brano che Venkat ha citato era tratto da Talks with Sri Ramana Maharshi (sezione 239), dove è registrato che Maurice Frydman una volta ha detto a Bhagavan, “Krishnamurti dice che l’uomo dovrebbe scoprire l’ ‘io’. Poi l’ ‘io’ si dissolve, essendo solo una quantità di circostanze. Non c’è niente dietro l’ ‘io’. Il suo insegnamento sembra molto simile a quello di Buddha”, a cui Bhagavan ha risposto in modo evasivo: ‘Si – si, inesprimibile’.

Ho risposto al commento di Venkat in una serie di due commenti consecutivi, nella prima parte del primo dei quali ho scritto:
Venkat, riguardo le due risposte di Bhagavan a cui ti riferisci nel tuo commento, è interessante notare che nel brano registrato in Day by Day (1-11-46 Pomeriggio) egli è molto esplicito nell’esprimere la sua visione che la ‘consapevolezza senza sforzo e senza scelta’ non può essere un metodo o mezzo per sperimentare la nostra reale natura, perché finché ci sperimentiamo come questa mente abbiamo bisogno di fare uno sforzo intenzionale per sperimentare ciò che siamo realmente, mentre nel brano registrato in Talks (sezione 239) la sua risposta è evasiva, cosa che dovrebbe spingerci a considerare perché, in quest’ultimo brano, egli non espresse la sua visione più esplicitamente.

Una spiegazione possibile è che nel brano in Talks Maurice Frydman non gli pose effettivamente una domanda ma espresse semplicemente il proprio punto di vista che l’insegnamento di Krishnamurti sembra essere molto simile a quello di Buddha, così Bhagavan non si sentì chiamato in causa per esprimere la propria opinione, mentre nel brano in Day by Day il giovane uomo di Colombo gli pose effettivamente una domanda riguardo la pratica spirituale, così egli si sentì chiamato in causa per dare una risposta esplicita. Un’altra spiegazione possibile, ma è strettamente allineata e compatibile con la prima che ho suggerito, è che Bhagavan riconobbe che Frydman era soddisfatto della propria visione di Krishnamurti e quindi non voleva effettivamente imparare qualcosa da Bhagavan ma solo ricevere la sua approvazione per la sua visione, e quindi Bhagavan non si coinvolse approvandola né disapprovandola.

Se Frydman gli avesse posto una domanda o mostrato qualche segno di voler apprendere qual’era realmente la sua opinione, Bhagavan avrebbe potuto sottolineargli che al contrario di quanto egli (Frydman) o Krishanmurti avevano detto, l’ego (l’ ‘io’ di cui essi stavano parlando) non è ‘solo una quantità di circostanze’ ma è ciò che crea e sperimenta tutte le circostanze, e che non è corretto dire che non c’è niente dietro di esso, perché ciò che vi è dietro l’apparenza illusoria di questo ego è solo noi stessi. Se non ci fosse niente dietro l’ego, quando esso si dissolve non rimarrebbe niente, ma secondo Bhagavan ciò che esiste realmente ed esiste sempre è solo noi stessi, e ogni altra cosa sembra esistere solo quando il nostro ego sembra esistere, così quando il nostro ego è dissolto ogni altra cosa anche cessa di esistere, e allora rimaniamo noi soli. Quindi noi soli siamo ciò che è dietro l’apparenza di questo ego e di ogni altra cosa.

Tuttavia, benché questo è ciò che Bhagavan ha insegnato a chiunque ha voluto sinceramente conoscere ciò che è reale, egli non lo ha insegnato spontaneamente a chi non veniva a lui cercando di conoscere la verità, così ogni volta che qualcuno gli diceva la propria opinione, credenza, aspirazione o pratica invece di chiedergli cosa avrebbe dovuto credere, cosa avrebbe dovuto aspirare o cosa avrebbe dovuto praticare, o perché avrebbe dovuto farlo, egli non rifiutava la sua opinione e non lo distoglieva dalle convinzioni e dalle pratiche che aveva scelto.
3. L’esistenza apparente di qualsiasi cosa che è sperimentata dipende dall’ego che la sperimenta

Dopo aver citato i due brani che ho discusso sopra, Venkat ha concluso il suo commento scrivendo:
Penso che ci sono (come ho detto prima) due spiegazioni plausibili per la nostra esperienza. Una è che ogni cosa è un’immagine nella consapevolezza – eka jiva vada [l’argomento che c’è solo un jīva o ego, proprio come un sogno è sperimentato solo da una persona]. L’altra è che c’è qualche esistente mondo fatto di particelle subatomiche, di cui il nostro corpo-mente è una parte integrale e dal quale non è mai separato (come il substrato d’oro nella gioielleria). Queste particelle si uniscono per elaborare gli umani con la mente, che poi iniziano a pensare e per motivi di auto-preservamento, sviluppano l’ego, che è solo una quantità di pensieri e di condizionamenti, ma non è reale.

L’approccio di JK sembra prendere quest’ultimo come il punto d’inizio – forse perché egli sentiva che le persone non avrebbero potuto apprezzare la prospettiva eka jiva vada? – e quindi si sforza di mostrare l’ego come non esistente e semplicemente una costruzione dei condizionamenti passati. Mentre l’approccio di Bhagavan è quello di focalizzarsi sul presupposto fondamentale – il pensiero-‘io’ – e di investigare la sua realtà; che, devo ammettere, va alla radice della questione.
Ho risposto a questa parte del suo commento nel resto del primo e in tutto il secondo dei miei due commenti consecutivi:
In relazione a ciò che dici circa le ‘due spiegazioni possibili per la nostra esperienza’, penso che probabilmente sei nel giusto dicendo che JK [J.Krishnamurti] sembra aver accettato la visione che il mondo esiste indipendentemente dalla nostra esperienza di esso, perché tutto ciò che disse e fece dà l’impressione che accettava il mondo come reale, o almeno non ha messo in dubbio che esso sia effettivamente reale, come sembra essere. Il suo interesse sembra essere stato più nella mente e nella psicologia che nelle astratte questioni metafisiche come cosa sia ciò che appare come questo ego e se qualsiasi cosa che questo ego sperimenta esista indipendentemente da esso.

Se JK credeva che l’ego è ‘solo una quantità di circostanze’ o che ci può essere osservazione senza osservatore, stava chiaramente difettando in vivēka, in modo particolare della più profonda ed essenziale forma di essa, vale a dire dṛg-dṛśya-vivēka, che è l’abilità di distinguere ciò che sperimenta (il dṛś, che letteralmente significa l’occhio o ciò che vede, e che diviene dṛg in composti come dṛg-dṛśya-vivēka) da ciò che è sperimentato (il dṛśya, che letteralmente significa ciò che è visto). Qualunque circostanza possiamo sperimentare, ed anche qualsiasi cosa che possiamo osservare, è dṛśya (un oggetto sperimentato), mentre noi, l’ego che lo sperimenta o lo osserva, siamo dṛś (il soggetto sperimentante). Secondo Bhagavan, niente che è dṛśya può esistere indipendentemente dal dṛś, così solo quando sorgiamo come il dṛś qualche dṛśya ha origine, e quindi il dṛś (l’ego o sperimentatore) è il fondamento essenziale su cui è costruita tutta l’esperienza. Quindi Bhagavan ci consiglia di occuparci e di investigare solo noi stessi, lo sperimentatore (dṛś), mentre JK sembra occuparsi maggiormente di qualsiasi altra cosa sperimentiamo, che è dṛśya.

Delle ‘due spiegazioni plausibili per la nostra esperienza’ di cui parli, la prima è la visione consigliata da Bhagavan, vale a dire che l’esistenza apparente di qualunque cosa è sperimentata (dṛśya), dipende dall’esistenza apparente di noi stessi come questo ego, il soggetto (dṛś) che la sperimenta. La seconda è basata sull’ipotesi infondata che il mondo fisico che sperimentiamo non sia solo una serie di immagini create dalla nostra mente, come un sogno, ma sia qualcosa che esiste indipendentemente dalla nostra esperienza di esso. Questa ipotesi è fondata sulla nostra esperienza di noi stessi come un corpo fisico, ma Bhagavan ha spiegato perché questa esperienza di noi stessi è solo un’illusione, perché se fossimo realmente questo corpo fisico, non potremmo sperimentare noi stessi senza sperimentarlo, mentre di fatto sperimentiamo noi stessi sia nel sogno che nel sonno senza sperimentarci come questo corpo. Nel sogno ci sperimentiamo come qualche altro corpo, e nel sonno ci sperimentiamo come nessun corpo, così non possiamo essere il corpo che ora sembriamo essere.

Quindi, poiché la nostra esperienza di essere questo corpo è solo un’illusione, ogni altra cosa che sperimentiamo sulla base di questa esperienza illusoria deve anche essere illusoria. Perciò la seconda spiegazione che citi non è plausibile come sembra essere superficialmente, e abbiamo buoni motivi per rifiutarla. Se analizziamo la nostra esperienza di noi stessi nei tre stati transitori, è chiaro che non abbiamo buoni motivi per supporre che il nostro stato attuale non sia nient’altro che un sogno, e non abbiamo prove che qualsiasi altra cosa diversa da noi stessi esista realmente. Anche l’ego che ora sembriamo essere non è reale, perché sembra esistere solo negli stati di veglia e di sogno, mentre nel sonno permaniamo in sua assenza.

Questo tipo di analisi metafisica è totalmente mancante negli insegnamenti di J.Krishnamurti, così è chiaro che qualunque cosa di cui si occupino i suoi insegnamenti è completamente differente dall’interesse centrale degli insegnamenti di Bhagavan, ovvero che dovremmo investigare noi stessi per sperimentare ciò che è reale e quindi liberare noi stessi da qualsiasi altra cosa, incluso l’ego che sperimenta tutto questo.
Poiché ho scritto questa risposta come un commento, non ho risposto in maggiore dettaglio, ma se lo avessi fatto avrei analizzato la descrizione di Venkat della seconda delle ‘due spiegazioni plausibili per la nostra esperienza’, delle quali ha scritto. Egli ha iniziato la sua descrizione dicendo, ‘L’altra è che c’è qualche esistente mondo fatto di particelle subatomiche, di cui il nostro corpo-mente è una parte integrale e dal quale non è mai separato’, ma in questa visione c’è un grave difetto, perché l’elemento essenziale della mente è la coscienza o consapevolezza, che non può essere adeguatamente spiegata in termini di particelle subatomiche.

Le particelle subatomiche sono entità teoriche, e come tali sono solo idee che gli scienziati hanno sviluppato per spiegare le loro osservazioni, e le loro idee riguardo tali particelle si stanno sviluppando e stanno cambiando costantemente per spiegare nuovi dati che essi raccolgono da metodi di osservazione più sofisticati, così se tali particelle esistano realmente o quale sia la loro precisa natura è una questione aperta a un dibattito infinito. Tuttavia, anche se supponiamo che esse esistano e che l’attuale comprensione di esse degli scienziati sia più o meno precisa, esse sono solo entità fisiche, e quindi non possono spiegare e non spiegano l’esistenza di qualcosa che è cosciente o consapevole.

Che cosa è cosciente o consapevole? Sono le particelle subatomiche? Sembra inverosimile che esse sono consapevoli, e anche se lo sono, non abbiamo mezzi per sapere di cosa sono consapevoli. Possiamo solo sperimentare una consapevolezza, vale a dire la nostra, e ciò che sappiamo riguardo la nostra consapevolezza è che la nostra consapevolezza di altre cose cambia costantemente, mentre la nostra consapevolezza di noi stessi è essenzialmente la stessa. Qualche volta siamo consapevoli di noi stessi come se fossimo una cosa (come il corpo che ora sperimentiamo come se fosse noi stessi), e altre volte come se fossimo qualcos’altro (come qualunque corpo che abbiamo sperimentato come noi stessi in un sogno), ma se accantoniamo tutte queste esperienze transitorie e consideriamo solo ciò che le sottende, vale a dire la nostra consapevolezza basilare ed essenziale di noi stessi soltanto, è chiaro che questa è costante e immutabile.

Quindi, mentre la consapevolezza del nostro corpo e di altre cose fisiche è impermanente, la nostra consapevolezza di noi stessi è permanente, così la nostra esperienza di cose fisiche è un fenomeno temporaneo, l’esistenza del quale dipende dalla nostra più permanente e duratura esperienza di noi stessi. Quindi, poiché sperimentiamo noi stessi anche quando non sperimentiamo alcuna cosa fisica, non sembra plausibile suggerire che la nostra consapevolezza possa in ogni modo essere dipendente da fenomeni fisici o possa essere originata da essi.

Venkat anche ha scritto, ‘Queste particelle [subatomiche] si uniscono per elaborare gli umani con la mente, che poi iniziano a pensare e per motivi di auto-preservamento, sviluppano l’ego, che è solo una quantità di pensieri e di condizionamenti, ma non è reale’. Questo è chiaramente mettere il carro davanti ai buoi, perché ciò che proietta e sperimenta tutti i pensieri è solo l’ego, così il pensare non può venire prima dell’ego. In assenza di ego non ci potrebbero essere pensieri perché non ci sarebbe nessuno a sperimentarli. L’ego anche non è ‘solo un quantità di pensieri e condizionamenti’, perché come ho spiegato nella sezione precedente, esso è ciò che sperimenta quella quantità, e benché quella quantità cambi costantemente, ciò che la sperimenta e tutti i suoi cambiamenti sono la stessa cosa. Quindi prendere l’ego come ‘solo una quantità di circostanze’ o ‘solo una quantità di pensieri e condizionamenti’ è il risultato di non applicare correttamente dṛg-dṛśya-vivēka – cioè, non distinguere il soggetto o sperimentatore (dṛś) dagli oggetti o cose che esso sperimenta (dṛśya).

4. Distinguere l’ego dal resto della mente

In risposta ai due commenti che ho scritto in replica al suo primo commento, Venkat ha scritto un altro commento, che ha iniziato citando la parte seguente del mio secondo commento:
Qualunque circostanza possiamo sperimentare, e anche qualsiasi cosa che possiamo osservare, è dṛśya (un oggetto sperimentato), mentre noi, l’ego che lo sperimenta o lo osserva, siamo dṛś (il soggetto sperimentante). Secondo Bhagavan, niente che è dṛśya può esistere indipendentemente dal dṛś, così solo quando sorgiamo come il dṛś ogni dṛśya ha origine, e perciò il dṛś (l’ego o lo sperimentatore) è il fondamento essenziale su cui è costruita tutta l’esperienza.
Dopo aver citato questo, Venkat ha commentato:
Solo per chiarire, in drs-drsya viveka, l’ego, che è parte dell’illusione, è messo in drsya (non in drs). Così viveka è comprendere che tutto ciò che vedi, percepisci, senti, pensi, è parte dell’ego-mondo illusorio, parte del drsya (quindi l’analisi delle 5 guaine); e c’è qualcosa che è il substrato, il drs che sta osservando questo ego-mondo illusorio.

Sankara nel primo verso del suo drgdrsyaviveka scrive: “Una forma oggetto è percepito, ma è l’occhio che percepisce. Questo è percepito dalla mente che diviene il soggetto percipiente. Poi, la mente, con le sue modificazioni, è percepita dal testimone (il Sé) che non può essere un oggetto di percezione”.

Bhagavan nel verso 18 di Upadesa Undiyar, identifica l’ego con la mente, che, dice, è una moltitudine di pensieri (non differente da ‘una quantità di circostanze’). Così drs drsya viveka richiede la discriminazione che tutti i pensieri, incluso il pensiero-‘io’ sono parte di drsya, e tu sei il testimone che osserva tutto questo.

Così penso che quando K dice di osservare attentamente, di essere consapevoli senza scelta dei pensieri/sensazioni, e di vedere l’egoismo inerente in essi, scoprirai da te stesso che non sei quei pensieri-sensazioni ma il loro testimone.
Nel primo verso di डृग्दृश्यविवेकः (dṛgdṛśyavivēkaḥ), a cui Venkat si riferisce, Sankara usa il termine sākṣin, che (come ho spiegato in Cosa s’intende con il termine sākṣi o ‘testimone’?) non è un termine che Bhagavan generalmente ha usato di propria iniziativa, perché il suo significato è ambiguo e perciò rischia di creare confusione piuttosto che chiarire l’argomento. Quindi, prima di esaminare quel verso nel dettaglio, esaminerò l’altro verso a cui Venkat si riferisce, vale a dire il verso 18 di Upadēśa Undiyār, che è una composizione originale di Bhagavan e che quindi rappresenta i suoi reali insegnamenti più chiaramente e precisamente di ogni altro testo come Dṛgdṛśyavivēkaḥ. Ciò che egli dice nel verso 18 è:
எண்ணங்க ளேமனம் யாவினு நானெனு
மெண்ணமே மூலமா முந்தீபற
யானா மனமென லுந்தீபற.

eṇṇaṅga ḷēmaṉam yāviṉu nāṉeṉu
meṇṇamē mūlamā mundīpaṟa
yāṉā maṉameṉa lundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: எண்ணங்களே மனம். யாவினும் நான் எனும் எண்ணமே மூலம் ஆம். யான் ஆம் மனம் எனல்.

Padacchēdam (separazione delle parole): eṇṇaṅgaḷ-ē maṉam. yāviṉ-um nāṉ eṉum eṇṇam-ē mūlam ām. yāṉ ām maṉam eṉal.

அன்வயம்: எண்ணங்களே மனம். யாவினும் நான் எனும் எண்ணமே மூலம் ஆம். மனம் எனல் யான் ஆம்.

Anvayam (parole ridisposte secondo ordine naturale di prosa): eṇṇaṅgaḷ-ē maṉam. yāviṉ-um nāṉ eṉum eṇṇam-ē mūlam ām. maṉam eṉal yāṉ ām.

Traduzione: Solo i pensieri sono la mente. Di tutti [i pensieri], solo il pensiero chiamato ‘io’ è il mūla [la radice, la base, il fondamento, l’origine, la sorgente o la causa]. [Quindi] ciò che è chiamata mente è [essenzialmente solo] ‘io’ [l’ego o pensiero-radice chiamato ‘io’].
Benché Venkat abbia scritto, ‘Bhagavan nel verso 18 di Upadesa Undiyar, identifica l’ego con la mente, che, dice, è una moltitudine di pensieri (non differente da ‘una quantità di circostanze’)’, questo non è effettivamente ciò che Bhagavan intendeva in questo verso, e non è corretto dedurre da ciò che egli stesse dicendo che l’ego è ‘una moltitudine di pensieri’ o che volesse dire che esso è ‘una quantità di circostanze’.

Nella prima frase di questo verso egli dice, ‘எண்ணங்களே மனம்’ (eṇṇaṅgaḷē maṉam), in cui la parola எண்ணங்கள் (eṇṇaṅgaḷ) è la forma plurale di எண்ணம்’ (eṇṇam), così essa significa ‘pensieri’ o idee’. Di conseguenza ciò che egli intende in questa prima frase è che il termine மனம் (maṉam) o ‘mente’ è un nome collettivo per i pensieri. Quando egli usa termini che significano ‘pensieri’ o ‘idee’, non li usa in senso stretto ma nel senso lato di fenomeni mentali di tutti i tipi, e quindi secondo lui il mondo intero e ogni altra cosa che sperimentiamo diversa a noi stessi sono soltanto pensieri o idee – cioè, fenomeni che appaiono nella nostra mente e che non hanno esistenza indipendente da essa.

Nella seconda frase egli dice, ‘யாவினும் நான் எனும் எண்ணமே மூலம் ஆம்’ (yāviṉum nāṉ eṉum eṇṇamē mūlam ām), che significa, ‘Di tutti, solo il pensiero chiamato ‘io’ è il mūla’. Qui la prima parola யாவினும் (yāviṉum) significa ‘di tutti’, che si riferisce ai pensieri citati nella prima frase, così essa significa di tutti i pensieri che costituiscono la mente. நான் எனும் எண்ணம் (nāṉ eṉum eṇṇam) significa ‘il pensiero chiamato io’, che è l’ego, e il suffisso ē che è apposto a eṇṇam è un intensificatore che significa ‘solo’, ‘se stesso’ o ‘certamente’. Così fra tutti i pensieri che costituiscono la mente egli sta distinguendo un pensiero, vale a dire l’ ‘io’ o ego, e dice che solo quest’unico pensiero è il mūla, che è una parola che significa radice, base, fondamento, origine, sorgente o causa.

Il motivo per cui egli distingue quest’unico pensiero da tutti gli altri pensieri e dice che è la radice o origine di tutti essi è che questo è l’unico pensiero che sperimenta ogni cosa (poiché è l’unico pensiero che è consapevole o cosciente), così nessun altro pensiero potrebbe sorgere o apparire se non fosse sperimentato da questo pensiero originale chiamato ‘io’, l’ego. Questo ‘io’ è quindi il soggetto sperimentante, il dṛś o ‘colui che vede’ (cioè, il percettore, il conoscitore o lo sperimentatore), mentre tutti gli altri pensieri sono oggetti sperimentati da esso, e perciò sono dṛśya o il ‘visto’ (cioè, sono ciò che è percepito, conosciuto o sperimentato). Così questa frase è un esempio di dṛg-dṛśya-vivēka, distinguere il percettore (dṛś) dal percepito (dṛśya) – veramente, è la vera essenza di dṛg-dṛśya-vivēka, perché è distinguere il percettore o sperimentatore essenziale da ogni altra cosa che esso sperimenta.

L’ego o pensiero chiamato ‘io’ è il percettore essenziale e primario (dṛś). Di fatto esso è l’unico percettore reale, perché esso solo percepisce ogni cosa, e niente altro realmente percepisce o sperimenta qualcosa. Nessun altro pensiero sperimenta o è consapevole di se stesso o di qualsiasi altra cosa, mentre questo pensiero primario chiamato ‘io’ sperimenta ed è consapevole sia di se stesso che di tutti gli altri pensieri. Questo è il motivo per cui Bhagavan lo distingue come il mūla, la radice, la base, il fondamento, l’origine, la sorgente e la causa di tutti gli altri pensieri. Questo è anche il perché egli dice nel verso 26 di Uḷḷadu Nāṟpadu che se l’ego ha origine , ogni cosa ha origine (அகந்தை உண்டாயின், அனைத்தும் உண்டாகும்: ahandai uṇḍāyiṉ, aṉaittum uṇḍāhum), e che se esso non esiste, niente altro esiste (அகந்தை இன்றேல், இன்று அனைத்தும்: ahandai iṉḏṟēl, iṉḏṟu aṉaittum).

Quando questo ego o pensiero chiamato ‘io’ non ha avuto origine, nessun altro pensiero può sorgere o apparire, perché altri pensieri non possono esistere o sembrare esistere se non sono sperimentati da questo ego. Quindi questo ego resiste finché ogni altro pensiero appare. Gli altri pensieri vanno e vengono, così i contenuti o costituenti della mente sono in costante cambiamento, ma finché essi vanno e vengono l’ego resiste e rimane immutabile. Il solo cambiamento che l’ego subisce è il sorgere e lo sprofondare – cioè, l’apparire e lo scomparire – così quando esso sorge o appare rimane immutato finché nuovamente sprofonda e scompare. Tutto il cambiamento che esso sperimenta costantemente non è un cambiamento di se stesso ma solo un cambiamento di ciò che sperimenta.

Così l’ego è l’unico pensiero che resiste finché resiste la mente, così è l’essenza della mente. Gli altri pensieri costituiscono l’intero pacchetto chiamato ‘mente’, ma nessuno di essi è essenziale ad essa, perché ciascuno di essi può essere sostituito, e presto o tardi lo sarà, da qualche altro pensiero. Di tutti i pensieri che costituiscono la mente, il solo che non è mai sostituito e non può essere sostituito è questo pensiero fondamentale chiamato ‘io’, l’ego. Quindi Bhagavan conclude il verso 18 di Upadēśa Undiyār dicendo: ‘யான் ஆம் மனம் எனல்’ (yāṉ ām maṉam eṉal), che significa, ‘ciò che è chiamata mente è ‘io’.

Ciò che egli vuole dire in questo verso è quindi che benché il termine ‘mente’ è usato generalmente come un nome collettivo per la totalità di tutti i pensieri o fenomeni mentali, di tutti questi pensieri l’unico essenziale è l’ego, che è il pensiero originale chiamato ‘io’, così ciò che è chiamata mente è essenzialmente solo questo ego.

Quindi contrariamente a ciò che ha scritto Venkat, in questo verso egli non ‘identifica l’ego con la mente’ semplicemente, né dice che l’ego è ‘una moltitudine di pensieri’. Al contrario, egli realmente distingue l’ego da tutti gli altri pensieri, così non lo identifica con l’interezza della mente, ma dice solo che esso è la radice, il fondamento o l’essenza della mente. Quindi in alcuni contesti il termine ‘mente’ si riferisce all’insieme di tutti i pensieri, mentre in altri contesti si riferisce al suo unico elemento essenziale, vale a dire questo ego.

Quindi, quando usato nel suo senso collettivo, il termine ‘mente’ si riferisce a un’entità i cui costituenti o elementi possono essere classificati in due gruppi: अहम् (aham) e इदम् (idam), நான் (nāṉ) e இது (idu), ‘io’ e ‘questo’. Aham, nāṉ o l’elemento ‘io’ della mente è l’ego, la prima persona o soggetto, che solo è il reale veggente o sperimentatore (dṛś), e che è quindi l’essenza dell’intera mente. Idam, idu o la parte ‘questo’ della mente è tutti o ognuno dei suoi altri pensieri, che sono seconde e terze persone o oggetti, e che sono quindi ciò che è visto o sperimentato (dṛśya).

Quando pratichiamo l’auto-investigazione (ātma-vicāra), stiamo cercando di osservare o essere attentivi soltanto a noi stessi per sperimentarci in completo isolamento da tutte le altre cose, così l’auto-investigazione è l’applicazione pratica di dṛg-dṛśya-vivēka, cercare di distinguere aham o ‘io’ (il soggetto sperimentante o dṛś) da ogni altra cosa, che è idam o ‘questo’ (gli oggetti sperimentati o dṛśya). Quindi dṛg-dṛśya-vivēka non è solamente un esercizio intellettuale o un’analisi razionale, ma è il reale processo di distinguere sperimentalmente noi stessi da ogni altra cosa che sperimentiamo. L’analisi intellettuale è naturalmente un punto di partenza necessario, ma è solo porre le fondamenta, ed è su questa fondazione di discriminazione intellettuale che dobbiamo applicare il reale processo di cercare di distinguere o discernere sperimentalmente noi stessi da ogni altra cosa con cui ora siamo mescolati e confusi.

5. Distinguere lo sperimentatore (dṛś) dallo sperimentato (dṛśya)

Avendo esaminato attentamente la semplice ed essenziale dṛg-dṛśya-vivēka che Bhagavan esprime nel verso 18 di Upadēśa Undiyār, esaminiamo ora l’espressione un po’ più complicata di dṛg-dṛśya-vivēka nel primo verso di Dṛgdṛśyavivēkaḥ:
रूपं दृश्यं लोचनं दृक् तद्दृश्यं दृक्तु मानसं ।
दृश्या धीवृत्तय साक्षी दृगेव न तु दृश्यते ॥

rūpaṁ dṛśyaṁ lōcanaṁ dṛk taddṛśyaṁ dṛktu mānasaṁ
dṛśyā dhīvṛttaya sākṣī dṛgēva na tu dṛśyatē
.

पदच्छेदम्: रूपम् दृश्यम्, लोचनम् दृश्; तत् दृश्यम्, दृश् तु मानसम्; दृश्या धी-वृत्तय, साक्षी दृश्-एव न तु दृश्यते.

Padacchēdam (separazione delle parole): rūpam dṛśyam, lōcanam dṛś; tat dṛśyam, dṛś tu mānasam; dṛśyā dhī-vṛttaya, sākṣī dṛś-ēva na tu dṛśyatē.

Traduzione: La forma è il visto, l’occhio è il veggente; esso [l’occhio] è il visto, mentre il veggente è la mente; il visto sono le vṛtti [le modificazioni o pensieri] della mente, mentre il sākṣin [il testimone] è solo il veggente ma non ciò che è visto.
Benché generalmente diciamo che i nostri occhi vedono le forme visibili del mondo esterno, e che i nostri altri sensi percepiscono altri tipi di sensazioni, né i nostri occhi né ognuno dei nostri altri sensi realmente vede o percepisce qualcosa, perché non sono coscienti. Essi ricevono soltanto le impressioni e le convertono in impulsi neurali, che trasmettono al nostro cervello (o almeno questo è ciò che generalmente si crede che accada). Benché il nostro cervello (presumibilmente) riceve questi impulsi neurali e li elabora o registra in qualche modo, nello stesso modo esso non sperimenta niente, perché non è cosciente. Ciò che realmente ‘vede’ o sperimenta tutte le informazioni che si crede siano trasmesse dai nostri occhi e dagli altri sensi al nostro cervello è solo la nostra mente, e ciò che essa sperimenta non è realmente alcun oggetto esterno o alcun impulso neurale ma solo una serie di immagini o impressioni percettive, che sono tutte solo pensieri, idee o fenomeni mentali (proprio come le impressioni della percezione che sperimentiamo in un sogno).

Tuttavia, benché si dice che la mente sia il veggente, abbiamo bisogno di distinguere ciò che si intende esattamente con questo, perché la maggior parte dei pensieri o fenomeni (vṛtti) che costituiscono la mente non vedono né sperimentano niente. Il solo elemento della mente che vede o sperimenta qualsiasi cosa è l’ego, così questo ego è ciò a cui ci si riferisce in questo verso come il sākṣin o il ‘testimone’, che è dṛś, mentre tutti gli altri elementi della mente sono ciò a cui ci si riferisce come dhī-vṛttaya, ‘modificazioni mentali’ o ‘movimenti della mente’, che sono dṛśya.

La proposizione finale di questo verso, ‘साक्षी दृश्-एव न तु दृश्यते’ (sākṣī dṛś-ēva na tu dṛśyatē), che significa, ‘il testimone è solo il veggente ma non ciò che è visto’, enfatizza che benché l’ego vede ogni altra cosa, esso non può essere visto da nulla. La sola cosa che può vedere qualsiasi cosa è questo ego, ma se esso cerca di vedere se stesso sprofonderà e scomparirà, perché non è realmente ciò che sembra essere, ma è solo ciò che siamo realmente (il nostro sé reale), che non vede nient’altro che se stesso (noi stessi) soltanto. Finché vediamo o sperimentiamo qualsiasi cosa diversa da noi stessi, sembriamo essere questo ego, ma se cerchiamo di vedere noi stessi, vedremo che non siamo questo ego ma solo l’unica realtà infinita, oltre alla quale niente esiste per essere visto.

Cercare di vedere l’ego è come cercare di vedere un serpente illusorio. Ci sembra di vedere un serpente, così possiamo osservarlo, ma non possiamo realmente vederlo, perché se lo guardiamo molto attentamente, vedremo che non è l’ego o ‘il testimone’ che sembra essere (cioè, non è un’entità limitata che vede cose diverse da se stessa) ma è solo l’essenza infinita o sostanza reale, che vede nient’altro che se stessa.

6. L’essenza della mente è l’ego, e l’essenza dell’ego è la pura auto-consapevolezza

Il fatto che l’ego non può mai essere visto fu spesso enfatizzato da Bhagavan. Per esempio, nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu egli dice, ‘தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும்’ (tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum), che significa, ‘Se cercato [esaminato o investigato], esso fuggirà’, e nel verso 17 di Upadēśa Undiyār dice:
மனத்தி னுருவை மறவா துசாவ
மனமென வொன்றிலை யுந்தீபற
மார்க்கநே ரார்க்குமி துந்தீபற.

maṉatti ṉuruvai maṟavā dusāva
maṉameṉa voṉḏṟilai yundīpaṟa
mārgganē rārkkumi dundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: மனத்தின் உருவை மறவாது உசாவ, மனம் என ஒன்று இலை. மார்க்கம் நேர் ஆர்க்கும் இது.

Padacchēdam (separazione delle parole): maṉattiṉ uruvai maṟavādu usāva, maṉam eṉa oṉḏṟu ilai. mārggam nēr ārkkum idu.

அன்வயம்: மறவாது மனத்தின் உருவை உசாவ, மனம் என ஒன்று இலை. இது ஆர்க்கும் நேர் மார்க்கம்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): maṟavādu maṉattiṉ uruvai usāva, maṉam eṉa oṉḏṟu ilai. idu ārkkum nēr mārggam.

Traduzione: Quando [uno] investiga [esamina o investiga] la forma della mente senza dimenticanza, qualcosa chiamata ‘mente’ non esisterà. Per tutti questo è il sentiero diretto [diritto, giusto, corretto o vero].
Le parole di apertura di questo verso, மனத்தின் உருவை (maṉattiṉ uruvai), che significano ‘la forma della mente’ (essendo உருவை una forma accusativa di உரு, che significa ‘forma’), non si riferisce a qualche altro pensiero della mente, ma solo al suo pensiero originale, fondamentale ed essenziale, vale a dire l’ego. Se investighiamo, osserviamo o esaminiamo qualche altro pensiero, staremo quindi nutrendo e perpetuando l’illusione di essere questo ego, perché come Bhagavan dice nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu, l’ego sorge e si regge afferrando altri pensieri. Solo se investighiamo, osserviamo o esaminiamo il nostro ego, il pensiero che sperimenta l’afferrare altri pensieri, sarà scoperto come non-esistente, e solo quando esso cesserà di esistere l’intero edificio della mente si frantumerà e scomparirà.

La prima metà della prima frase di questo verso, மனத்தின் உருவை மறவாது உசாவ (maṉattiṉ uruvai maṟavādu usāva), significa ‘quando [uno investiga la forma della mente senza dimenticanza’. Benché la ‘forma della mente’ che dobbiamo investigare è questo ego, quando la investighiamo non stiamo investigando qualcuna delle aggiunte con cui è ora mischiata e confusa, come il nostro corpo o qualche altro pensiero con cui identifichiamo noi stessi, ma stiamo investigando solo il centro essenziale dell’ego, che è la sua auto-consapevolezza. Questo è ciò che Bhagavan intendeva quando disse (come registrato nell’ultimo capitolo di Maharshi’s Gospel, edizione 2002, pagina 96), ‘Nella tua investigazione nella sorgente di aham-vritti, prendi l’essenziale aspetto chit dell’ego’.

Aham-vritti’ (ahaṁ-vṛtti) significa il ‘pensiero-io’ o ego, e ‘chit’ (cit) significa coscienza o consapevolezza, che in questo contesto significa specificatamente auto-consapevolezza, non qualche consapevolezza di ogni altra cosa. Come Bhagavan ha appunto messo in evidenza nello stesso brano di Maharshi’s Gospel, l’ego è descritto come cit-jaḍa-granthi, il nodo (granthi) che lega insieme due elementi distinti come se fossero uno, vale a dire noi stessi, che siamo cit o pura auto-consapevolezza, e il nostro corpo fisico, che è jaḍa, non cosciente o consapevole. L’elemento jaḍa dell’ego è solamente un'aggiunta o una serie di aggiunte, così non è ciò che l’ego è essenzialmente, ma è qualcosa di estraneo alla sua essenza. Il suo elemento essenziale è solo la sua auto-consapevolezza o coscienza (cit), che è ciò che siamo realmente, così quando investighiamo il nostro ego, ciò che stiamo cercando di isolare e sperimentare come è, è solo la sua auto-consapevolezza essenziale, priva di tutte le aggiunte con cui ora sembra essere mischiata.

Proprio come l’ego è l’essenza della mente, la pura auto-consapevolezza è l’essenza dell’ego, così quando Bhagavan dice nel verso 17 di Upadēśa Undiyār che se investighiamo la forma della nostra mente senza dimenticanza, scopriremo che non c’è realmente una cosa come la mente, e ciò che egli intende con ‘la forma della mente’ (மனத்தின் உரு: maṉattiṉ uru) è solo il nostro ego, o ancora più specificatamente la sua auto-consapevolezza essenziale. In altre parole, possiamo interpretare queste parole (மனத்தின் உரு: maṉattiṉ uru) o ‘la forma della mente’ in riferimento al verso successivo come l’ego o ‘il pensiero chiamato io’ (நான் எனும் எண்ணம்: nāṉ eṉum eṇṇam), o in riferimento al verso precedente come la ‘forma di luce’ della mente (ஒளியுரு: oḷi-y-uru), che è la sua auto-consapevolezza essenziale.

7. Per vedere ciò che è reale dobbiamo rinunciare a vedere ciò che è visto (dṛśya)

Abbiamo già considerato il significato del verso successivo (verso 18) nella quarta sezionequi sopra, così esaminiamo ora il significato del verso precedente (verso 16):
வெளிவிட யங்களை விட்டு மனந்தன்
னொளியுரு வோர்தலே யுந்தீபற
வுண்மை யுணர்ச்சியா முந்தீபற.

veḷiviḍa yaṅgaḷai viṭṭu maṉantaṉ
ṉoḷiyuru vōrdalē yundīpaṟa
vuṇmai yuṇarcciyā mundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: வெளி விடயங்களை விட்டு, மனம் தன் ஒளி உரு ஓர்தலே உண்மை உணர்ச்சி ஆம்.

Padacchēdam (separazione delle parole): veḷi viḍayaṅgaḷai viṭṭu, maṉam taṉ oḷi-uru ōrdal-ē uṇmai uṇarcci ām.

அன்வயம்: மனம் வெளி விடயங்களை விட்டு தன் ஒளி உரு ஓர்தலே உண்மை உணர்ச்சி ஆம்.

Anvayam (parole ridisposte secondo ordine naturale di prosa): maṉam veḷi viḍayaṅgaḷai viṭṭu taṉ oḷi-uru ōrdal-ē uṇmai uṇarcci ām.

Traduzione: Avendo rinunciato [a conoscere] i viṣayas esterni [oggetti o qualsiasi cosa percepita o conosciuta], solo la conoscenza della mente della propria forma di luce è reale conoscenza [o conoscenza della realtà].
Le parole di apertura di questo verso, வெளி விடயங்களை (veḷi viḍayaṅgaḷai), significano ‘viṣayas esterni’, perché வெளி (veḷi) significa fuori o esterno, e விடயம் (viḍayam) è una forma Tamil della parola Sanscrita विषय (viṣaya), che significa un oggetto o qualsiasi cosa percepita, conosciuta o sperimentata. In questo contesto ‘esterno’ non significa solo esterno al nostro corpo, ma esterno a noi stessi, così i viṣaya esterni sono qualsiasi cosa è diversa da noi stessi. In altre parole, essi sono qualsiasi cosa che è dṛśya (vista, percepita o conosciuta), come confermato da Bhagavan nella sua traduzione Sanscrita di questo verso, in cui ha tradotto வெளி விடயங்கள் (veḷi viḍayaṅgaḷ) come दृश्य (dṛśya):
दृश्य वारितं चित्त मात्मनः ।
चित्त्व दर्शनं तत्त्व दर्शनम् ॥

dṛśya vāritaṁ citta mātmanaḥ
cittva darśanaṁ tattva darśanam
.

पदच्छेदम्: दृश्य वारितम्, चित्तम् आत्मनः चित्त्व दर्शनम् तत्त्व दर्शनम्.

Padacchēdam (separazione delle parole): dṛśya vāritam, cittam ātmanaḥ cittva darśanam tattva darśanam.

Traduzione: [Essendo] tenuto lontano ciò che è visto, il vedere della mente la propria cittva [consapevolezza o coscienza] è vedere tattva [‘essoità’ (‘itness’), ciò che esiste realmente o è reale].
Sia nella versione Tamil che in quella Sanscrita di questo verso la prima proposizione è avverbiale, con il suo verbo come un participio, che la subordina alla proposizione principale della frase, così ciò che è descritto nella prima proposizione è in effetti una precondizione per ciò che è descritto nella proposizione principale. In Tamil la prima proposizione è வெளி விடயங்களை விட்டு (veḷi viḍayaṅgaḷai viṭṭu), in cui விட்டு (viṭṭu) è un participio che significa lasciare, abbandonare, rimuovere, liberarsi di, rinunciare o arrendersi, così l’intera proposizione significa lasciare o abbandonare i viṣayas esterni o oggetti di cognizione. Ugualmente in Sanscrito la prima proposizione è दृश्य वारितम् (dṛśya vāritam), in cui वारितम् (vāritam) è un participio che significa tenuto lontano, scansato o prevenuto, così l’intera proposizione significa essendo tenuto lontano o scansato dṛśya (ciò che è visto o conosciuto). Se non rinunciamo a dare attenzione o a essere consapevoli di ogni viṣayas o dṛśya esterno – cioè, qualsiasi cosa diversa da noi stessi – non possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente.

Sperimentare noi stessi come siamo realmente è ciò che è descritto nella proposizione principale di questo verso. In Tamil il soggetto della proposizione principale è ‘மனம் தன் ஒளி உரு ஓர்தலே’ (maṉam taṉ oḷi-uru ōrdalē), che significa ‘la conoscenza della mente della propria forma di luce', e in Sanscrito è ‘चित्तम् आत्मनः चित्त्व दर्शनम्’ (cittam ātmanaḥ cittva darśanam), che significa ‘il vedere della mente la propria consapevolezza’. La parola Tamil ஓர்தல் (ōrdal) è un sostantivo verbale che significa effettivamente conoscere o investigare, esaminare o osservare attentamente, ma poiché questa proposizione sta descrivendo ciò che è la reale conoscenza o consapevolezza, in questo contesto ஓர்தல் (ōrdal) significa conoscere o sperimentare.

Le parole ஒளி உரு (oḷi-uru) significano letteralmente ‘forma di luce’, ma qui ஒளி (oḷi) è una metafora per consapevolezza o coscienza, che è il motivo per cui Bhagavan l’ha tradotta in Sanscrito come चित्त्व (cittva). चित् (cit) significa ciò che è consapevole o cosciente, e il suffisso त्व (tva) ha più o meno lo stesso significato del suffisso inglese ‘-ness’ (italiano: ‘-ità’), così चित्त्व (cittva) significa la qualità o condizione di essere consapevole o cosciente, o in altra parola consapevolezza o coscienza. आत्मनः (ātmanaḥ) è la forma genitiva di आत्मन् (ātman), così ha esattamente lo stesso significato di தன் (taṉ), che in questo contesto è ‘suo proprio’, nel senso di ‘proprio della mente’.

La propria ‘forma di luce’ della mente (ஒளி உரு: oḷi-uru) o ‘consapevolezza’ (चित्त्व: cittva) è la sua auto-consapevolezza essenziale, che nella sua pura condizione è ciò che siamo realmente e ciò che solo è reale, così Bhagavan dice che la conoscenza o il vedere della mente la propria forma di luce è உண்மை உணர்ச்சி (uṇmai uṇarcci) o तत्त्व दर्शनम् (tattva darśanam). உண்மை உணர்ச்சி (uṇmai uṇarcci) significa conoscenza o consapevolezza reale, o conoscenza o consapevolezza della realtà, e तत्त्व दर्शनम् (tattva darśanam) significa vedere ciò che è reale.

La mente in se stessa non può realmente sperimentare una vera conoscenza o vedere ciò che è reale, ma quando essa rinuncia a sperimentare o a essere consapevole di qualsiasi cosa diversa da se stessa (cioè, ogni oggetto esterno o dṛśya) cercando di sperimentare solo la propria auto-consapevolezza essenziale, cessa di essere la mente o l’ego che sembrava essere (in altre parole, cessa di essere dṛś, il veggente, il percettore o il testimone di ogni oggetto), e rimane come ciò che è sempre e realmente, cioè pura auto-consapevolezza senza aggiunte. Cioè, quando tutti i dṛśya sono abbandonati, niente rimane come dṛś (l’ego o mente), così ciò che rimane è solo pura auto-consapevolezza, che è l’essenziale ‘forma di luce’ o ‘consapevolezza’ della mente, e che è anche l’unica realtà (uṇmai or tattva) e quindi ciò che siamo sempre realmente.

Quindi la mente che vede solo la propria ‘forma di luce’ o consapevolezza non è più la mente come tale ma è solo quella ‘forma di luce’, così ciò che realmente vede o sperimenta la propria ‘forma di luce’ o consapevolezza è realmente solo il nostro sé reale, perché niente altro che ciò che siamo realmente può essere consapevole di ciò che siamo realmente. Finché siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, sembriamo essere questa mente o ego, ma quando siamo consapevoli soltanto di noi stessi, siamo solo ciò che siamo realmente.

Il solo mezzo con cui possiamo abbandonare o tenere lontani tutti i dṛśya è cercare di vedere il veggente o ego (dṛś), ma sebbene cerchiamo di farlo, non saremo mai realmente in grado di vedere il veggente, perché quando, cercando di vederlo, riusciamo ad abbandonare tutti i dṛśya, anche il veggente cesserà di esistere come tale, e ciò che allora vedremo è solo ciò che siamo realmente, che non è dṛśdṛśya, perché non c’è niente altro che noi stessi che possiamo vedere o che può vederci. Quello stato in cui vediamo o siamo consapevoli di nient’altro che noi stessi è ciò che Bhagavan descrive in questo verso come ‘conoscenza reale’ (உண்மை உணர்ச்சி: uṇmai uṇarcci) o ‘vedere la realtà’ (तत्त्व दर्शनम्: tattva darśanam).

8. Ciò che siamo realmente non è il testimone (sākṣin) o il veggente (dṛś) di ogni cosa

Nella quinta sezionequi sopra ho discusso che il ‘testimone’ (sākṣin) o veggente primario (dṛś) citato nella proposizione finale del primo verso di Dṛgdṛśyavivēkaḥ è solo il nostro ego. Tuttavia in molte traduzioni di quel verso il testimone è interpretato come ‘il Sé’ (come è stato interpretato nella traduzione approssimativa che Venkat ha fornito nel suo commento), e questo comporta che esso non è il nostro ego ma ciò che siamo realmente.

Sebbene credo che questa sia una interpretazione errata, potrebbe essere discusso che la traduzione Tamil di Bhagavan si presta a sostenerla, perché egli ha tradotto (o piuttosto adattato o parafrasato) questo verso come segue:
நாம் பார்க்கும் இப்பிரபஞ்சவுருவம் கண்ணாற் காணப்படுவதால் திருசியம், காணுங் கண் திருக்கு; அக்கண் மனதாலறியப்படுவதால் திருசியம், மனம் திருக்கு; விருத்திகளுடன் கூடின அம்மனம் சாக்ஷியாகிய ஆத்மாவா லறியப்படுவதால் திருசியம், ஆத்மாதிருக்கு; அது ஒன்றாலு மறியப்படாததால் திருசியமன்று.

nām pārkkum i-p-pirapañca-v-uruvam kaṇṇāl kāṇa-p-paḍuvadāl diruśiyam, kāṇuṅ kaṇ dirukku; a-k-kaṇ maṉadāl aṟiya-p-paḍuvadāl diruśiyam, maṉam dirukku; viruttigaḷ-uḍaṉ gūḍiṉa a-m-maṉam sākṣi-y-āhiya ātmāvāl aṟiya-p-paḍuvadāl diruśiyam, ātma dirukku; adu oṉḏṟāl-um aṟiya-p-paḍādadāl diruśiyam aṉḏṟu.

Poiché la forma di questo mondo che vediamo è vista dall’occhio, essa è dṛśya, [mentre] l’occhio che vede è dṛś; poiché quell’occhio è conosciuto dalla mente, è dṛśya, [mentre] la mente è dṛś; poiché quella mente, che è mischiata [o affollata] con pensieri, è conosciuta da noi stessi, che siamo il sākṣi, è dṛśya, [mentre] il noi stessi è dṛś; poiché esso [noi stessi] non è conosciuto da alcuna cosa, non è dṛśya.
Benché la parola ஆத்மா (ātma), che ho tradotto qui come ‘noi stessi’, è spesso usata per indicare ciò che siamo realmente (il nostro sé reale), ha esattamente lo stesso significato della parola Tamil தான் (tāṉ), vale a dire se stesso, me stesso, tu stesso, lui stesso, lei stessa o se stesso, così non significa necessariamente il nostro sé reale, ed è spesso usata per indicare il nostro sé personale (jīvātman) o ego, o più generalmente solo se stesso, senza intendere specificatamente ciò che siamo realmente o ciò che sembriamo essere. E’ in questo senso non specifico che essa è usata qui, ed è il motivo per cui l’ho tradotta semplicemente come ‘noi stessi’ (avrei potuto tradurla come ‘se stesso’, che in questo contesto significherebbe lo stesso di ‘noi stessi’, ma poiché Bhagavan ha iniziato questa frase con la parola நாம் (nām), che significa ‘noi’, ho deciso che in questo caso ‘noi stessi’ sarebbe stato più adatto).

Benché egli usa qui ‘ஆத்மா’ (ātma) in questo senso non specifico, possiamo dedurre che ciò a cui si riferisce in questo contesto non è ciò che siamo realmente (il nostro sé reale) ma solo il nostro ego, che è ciò che sembriamo essere ogni volta che vediamo qualcosa diversa da noi stessi. Ciò che siamo realmente non è il testimone (sākṣin) o il veggente (dṛś) di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, ed esso certamente non conosce la nostra mente o ognuna delle sue vṛtti o pensieri, perché esse esistono solo nella visione auto-ignorante del nostro ego.

Se qualcuno ha qualche dubbio riguardo alla correttezza di questa deduzione, può riferirsi al verso 98 di Guru Vācaka Kōvai (che ho tradotto e discusso in Cosa s’intende con il termine sākṣi o ‘testimone’?), perché in quel verso Muruganar riporta ciò che disse Bhagavan, ‘ஆன்மாதான் ஏன்ற கரி என்றல் இழுக்கு’ (āṉmā-tāṉ ēṉḏṟa kari eṉḏṟal iṙukku), che significa, ‘non è corretto dire che ātman è il reale testimone’, e anche diede un chiaro motivo per dirlo. Nel contesto di quel verso di Guru Vācaka Kōvai ஆன்மா (āṉmā) significa chiaramente solo il nostro sé reale, così quando egli dice nel suo adattamento Tamil del primo verso di Dṛgdṛśyavivēkaḥ ‘சாக்ஷியாகிய ஆத்மா’ (sākṣi-y-āhiya ātmā), che significa, ‘noi stessi’ che siamo il sākṣi’, non sta ovviamente usando ஆத்மா (ātma) nel senso del nostro sé reale ma solo nel senso di noi stessi come l’ego, che solo è ciò che vede qualsiasi cosa diversa da noi stessi.

Il fatto che il nostro sé reale non vede nient’altro che se stesso è anche inteso chiaramente in molti versi di Uḷḷadu Nāṟpadu. Per esempio, nel verso 4 Bhagavan dice:
உருவந்தா னாயி னுலகுபர மற்றா
முருவந்தா னன்றே லுவற்றி — னுருவத்தைக்
கண்ணுறுதல் யாவனெவன் கண்ணலாற் காட்சியுண்டோ
கண்ணதுதா னந்தமிலாக் கண்.

uruvandā ṉāyi ṉulahupara maṯṟā
muruvandā ṉaṉḏṟē luvaṯṟi — ṉuruvattaik
kaṇṇuṟudal yāvaṉevaṉ kaṇṇalāṯ kāṭciyuṇḍō
kaṇṇadutā ṉantamilāk kaṇ
.

பதச்சேதம்: உருவம் தான் ஆயின், உலகு பரம் அற்று ஆம்; உருவம் தான் அன்றேல், உவற்றின் உருவத்தை கண் உறுதல் யாவன்? எவன்? கண் அலால் காட்சி உண்டோ? கண் அது தான் அந்தம் இலா கண்.

Padacchēdam (separazione delle parole): uruvam tāṉ āyiṉ, ulahu param aṯṟu ām; uruvam tāṉ aṉḏṟēl, uvaṯṟiṉ uruvattai kaṇ uṟudal yāvaṉ? evaṉ? kaṇ alāl kāṭci uṇḍō? kaṇ adu tāṉ antam-ilā kaṇ.

அன்வயம்: தான் உருவம் ஆயின், உலகு பரம் அற்று ஆம்; தான் உருவம் அன்றேல், உவற்றின் உருவத்தை யாவன் கண் உறுதல்? எவன்? கண் அலால் காட்சி உண்டோ? கண் அது தான் அந்தம் இலா கண்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): tāṉ uruvam āyiṉ, ulahu param aṯṟu ām; tāṉ uruvam aṉḏṟēl, uvaṯṟiṉ uruvattai yāvaṉ kaṇ uṟudal? evaṉ? kaṇ alāl kāṭci uṇḍō? kaṇ adu tāṉ antam-ilā kaṇ.

Traduzione: Se il se stesso è una forma, il mondo e Dio lo saranno ugualmente; se il se stesso non è una forma, chi può vedere la loro forma, e come [farlo]? Ciò che è visto può essere diverso [in natura] dall’occhio [che lo vede]? L’occhio [reale] è se stesso, l’occhio infinito.
Nella frase finale di questo verso, ‘கண் அது தான் அந்தம் இலா கண்’ (kaṇ adu tāṉ antam-ilā kaṇ), Bhagavan vuole dire che ciò che siamo realmente è privo di ogni termine o limite (atnam), e quindi è infinito e senza forma. La prima (e anche l’ultima) parola di questa frase, கண் (kaṇ), significa letteralmente ‘occhio’, ma è qui usata in un senso metaforico per indicare ciò che vede, conosce o che è consapevole. அது (adu) è un pronome che significa ‘quello’ e si riferisce alla parola precedente கண் (kaṇ), di conseguenza qui non ha realmente qualche significato separato, e quindi கண் அது (kaṇ adu) significa semplicemente ‘l’occhio’, o forse ‘quell’occhio’. In questo contesto தான் (tāṉ) può essere interpretato nel significato di ‘se stesso’, nel qual caso கண் அது தான் (kaṇ adu tāṉ) significherebe ‘l’occhio stesso’, ‘l’occhio soltanto’ o ‘l’occhio davvero’. அந்தம் இலா (antam-ilā) significa senza fine, illimitato o infinito, e la parola finale கண் (kaṇ) di nuovo significa ‘occhio’, così il significato di questa intera frase è ‘l’occhio è se stesso, l’occhio infinito’ o ‘l’occhio stesso è l’occhio infinito’, così il significato implicito è che l’occhio reale è solo se stesso, ma non se stesso come una forma limitata, ma solo se stesso come ‘l’occhio’ o consapevolezza infinita e quindi senza forma.

Qualunque cosa ha una forma di qualsiasi genere è limitata e quindi separata da tutte le altre forme, mentre qualunque cosa che non ha forma è infinita e quindi separata da nulla, perché ogni genere di forma è una limitazione e quindi esclude da se stessa qualsiasi cosa sia oltre o esterna ai limiti della sua forma. Quindi, poiché ciò che siamo realmente (il nostro sé reale) è ‘l’occhio infinito’, siamo realmente senza forma, e di conseguenza non esiste nient’altro che noi stessi. Quindi, come l’occhio infinito e perciò senza forma, non possiamo vedere o essere consapevoli di qualcosa diversa dal nostro sé senza forma, così questo occhio infinito (il nostro sé reale) è solo pura auto-consapevolezza – consapevolezza di nient’altro che noi stessi soltanto.

Quindi possiamo vedere o essere consapevoli di forme solo quando ci sperimentiamo come una forma. Come l’occhio infinito, non possiamo sperimentarci come una forma, così ciò che sperimenta se stesso come una forma è solo il nostro ego, che non è ciò che siamo realmente ma solo ciò che ora sembriamo essere. Nella visione dell’occhio infinito, questo ego non esiste, così esso esiste solo nella propria visione – cioè, nella visione di noi stessi come questo ego. Il nostro ego è quindi un enigma inesplicabile, e secondo Bhagavan esso non esiste realmente, come scopriremo se investighiamo noi stessi per vedere se siamo realmente ciò che ora sembriamo essere.

Come Bhagavan dice nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu, l’ego è உருவற்ற பேய் (uru-v-aṯṟa pēy), un ‘fantasma senza forma’, così non ha una propria esistenza separate, ma può apparentemente avere origine e resistere solo afferrando una forma, vale a dire un corpo fisico. Tuttavia, il corpo che sperimenta come se stesso non esiste indipendentemente da esso, perché come Bhagavan dice nel verso 26 di Uḷḷadu Nāṟpadu, ogni altra cosa ha (apparentemente) origine solo quando l’ego ha (apparentemente) origine, così quando non ci sperimentiamo come questo ego, niente altro esiste (tranne naturalmente noi stessi come siamo realmente). Quindi il corpo e tutte le altre forme che questo ego sperimenta sono solo sue proiezioni. Esse esistono solo nella sua visione auto-ignorante, e non esistono o sembrano esistere quando esso non sorge a sperimentarle.

Quindi quando Bhagavan dice nella prima frase di questo verso, ‘உருவம் தான் ஆயின், உலகு பரம் அற்று ஆம்’ (uruvam tāṉ āyiṉ, ulahu param aṯṟu ām), ‘Se il se stesso è una forma, il mondo e Dio lo saranno ugualmente’, egli intende che se sorgiamo come questo ego e quindi sperimentiamo noi stessi come un corpo, vedremo ogni altra cosa come forma. E quando poi egli dice, ‘உருவம் தான் அன்றேல், உவற்றின் உருவத்தை கண் உறுதல் யாவன்? எவன்?’ (uruvam tāṉ aṉḏṟēl, uvaṯṟiṉ uruvattai kaṇ uṟudal yāvaṉ? evaṉ?), ‘Se il se stesso non è una forma, chi può vedere la loro forma, e come [farlo]?’, egli intende che se non sorgiamo come questo ego e quindi non ci sperimentiamo come un corpo o come ogni altro genere di forma, non ci sarà nessuno a vedere qualche altra forma, e nessun modo per farlo.

Quindi possiamo vedere forme (qualsiasi cosa diversa da nostro sé infinito e senza forma) solo se ci sperimentiamo come una forma, e quindi quando sperimentiamo noi stessi come siamo realmente non possiamo sperimentare nessuna forma. Questa è l’implicazione della sua altra domanda in questo verso, ‘கண் அலால் காட்சி உண்டோ?’ (kaṇ alāl kāṭci uṇḍō?), che significa ‘Ciò che è visto può essere diverso [in natura] dall’occhio [che lo vede]?’. Quindi il nostro sé reale, che è ‘l’occhio infinito’, non può mai vedere qualcosa diversa da se stesso, e perciò non può essere corretto descriverlo come un ‘testimone’ (sākṣin) o un ‘veggente’ (dṛś). Quindi ciò che è chiamato il ‘testimone’ e ‘veggente’ della mente e dei suoi pensieri (vṛitti) nella parte finale del primo verso di Dṛgdṛśyavivēkaḥ è solo il nostro ego e non il nostro sé reale.

9. Per sperimentare ciò che siamo realmente dobbiamo cessare di testimoniare o di essere consapevoli di qualsiasi altra cosa

Riguardo a ciò che Venkat dice nella frase finale del suo commento che ho citato nella quarta sezionequi sopra, vale a dire ‘Così penso che quando K [J.Krishnamurti] dice di osservare attentamente, di essere consapevoli senza scelta di pensieri/sensazioni, e di vedere l’egoismo inerente in essi, scoprirai da te stesso che non sei quei pensieri/sensazioni ma il loro testimone’, per conoscere che non siamo i pensieri e le sensazioni che sperimentiamo ma solo ciò che testimonia o è consapevole di essi, non abbiamo bisogno di osservarli attentamente o di cercare di essere ‘consapevoli senza scelta’ di essi, perché possiamo risolvere questo fatto ovvio semplicemente facendo una piccola analisi razionale. Tutti i pensieri e le sensazioni che sperimentiamo appaiono e scompaiono, mentre noi esistiamo sia che essi appaiano o meno, così essi non possono essere noi stessi.

Tuttavia, benché siamo il testimone dei pensieri e delle sensazioni quando li sperimentiamo, non sempre li sperimentiamo, così non siamo sempre un testimone. Nel sonno profondo non testimoniamo nessun pensiero o sensazione, sebben siamo consapevoli di esistere, così il testimone dei pensieri o delle sensazioni non può essere ciò che siamo realmente. Sperimentiamo pensieri e sensazioni solo quando sperimentiamo noi stessi come un corpo, e quando ci sperimentiamo in questo modo non stiamo sperimentando noi stessi come siamo realmente. Quindi finché ci sperimentiamo come il testimone dei pensieri, delle sensazioni o di qualsiasi altra cosa diversa da noi stessi, stiamo solo perpetuando l’illusione di essere un ego limitato piuttosto che l’infinita auto-consapevolezza che siamo realmente.

Quindi, per sperimentare noi stessi come siamo realmente, dobbiamo cessare di testimoniare o di essere consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, e dobbiamo invece cercare di essere consapevoli soltanto di noi stessi. Questa è la pratica di auto-investigazione (ātma-vicāra) che Bhagavan ci ha insegnato, e come ha enfatizzato ripetutamente, questo è il solo mezzo con cui possiamo distruggere il nostro ego, l’illusione di essere qualcosa diversa dalla pura ed infinita auto-consapevolezza.

Il fine di dṛg-dṛśya-vivēka (distinguere il veggente dal visto, o il percettore da ciò che è percepito) è solo quello di permetterci di ritirare la nostra attenzione da ogni altra cosa e di focalizzarla esclusivamente soltanto su noi stessi – o in altre parole, di cessare di essere consapevoli di qualsiasi altra cosa e di essere attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi. Più riusciamo a essere attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi, più il nostro ego sprofonderà e si dissolverà in noi stessi, la sua sorgente, e quando infine riusciremo nel nostro tentativo di essere consapevoli soltanto di noi stessi, ci sperimenteremo come siamo realmente, e così sapremo che abbiamo sempre sperimentato noi stessi come siamo realmente e quindi non abbiamo mai sperimentato noi stessi come un ego o un ‘veggente’ (dṛś), né abbiamo mai sperimentato qualsiasi altra cosa (alcun dṛśya).

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