Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

domenica 28 giugno 2015

Upadēśa Undiyār


Bhagavan Sri Ramana

Traduzione e Commentario
Sri Sadhu Om e Michael James


Traduzione Italiana in file PDF di Upadēśa Undiyār


Introduzione

உபதேச வுந்தியார் (Upadēśa-v-Undiyār) è un poema Tamil di trenta versi che Sri Ramana compose nel 1927 rispondendo alla richiesta di Sri Muruganar, e che successivamente compose in Sanscrito, Telugu e Malayam con il titolo di Upadēśa Sāram, l’ ‘Essenza delle Istruzioni Spirituali’.

In questi trenta versi Sri Ramana ci insegna in modo conciso ma estremamente chiaro il mezzo preciso con cui possiamo ottenere il nostro stato naturale di vera auto-conoscenza ed essere quindi liberati dalla schiavitù illusoria del karma o azione, che sembra esistere finché confondiamo noi stessi con questa mente e questo corpo, gli strumenti che compiono l’azione.

Egli inizia nel verso 1 dicendo che poiché l’azione è jaḍa (non cosciente), essa sola non porta frutto ma solo secondo l’ordinamento di Dio, e poi nel verso 2 ci insegna che nessuna azione può dare la liberazione, poiché ogni azione lascia un ‘seme’ o vāsanā – la propensione o l’impulso a ripetere una determinata azione – e quindi ci immerge e ci annega nel vasto oceano dell’azione.

Tuttavia, benché nessuna azione può essere un mezzo diretto per la liberazione, nel verso 3 egli ci insegna che se compiamo un’azione senza alcun desiderio per i suoi frutti ma motivati solo dall’amore per Dio, essa purificherà la nostra mente e quindi ci permetterà di riconoscere il corretto sentiero per la liberazione. Così egli ci insegna che la pratica di niṣkāmya karma o ‘azione senza desiderio’ non è uno yōga o sentiero spirituale separato ma è solo uno stadio preliminare del sentiero di bhakti o ‘devozione’, perché se pratichiamo qualche forma di niṣkāmya karma, ciò che purificherà la nostra mente non è il karma, ma solo l’amore e l’assenza di desiderio con cui lo compiamo.

Poi dal verso 4 al verso 7 egli discute i vari tipi di niṣkāmya karma – azioni che possiamo fare con il corpo, con la parola o con la mente senza desiderio ma solo per amore di Dio – ed egli li classifica secondo la loro efficacia nel purificare la nostra mente. Le azioni che facciamo con la mente sono più purificanti di quelle che facciamo con la parola, e quelle che facciamo con la parola sono più purificanti di quelle che facciamo con il corpo. Così l’azione più efficace che possiamo fare per purificare la nostra mente è dhyāna o meditazione (su Dio), e nel verso 7 egli dice che la meditazione ininterrotta è più efficace della meditazione intermittente (cioè, la meditazione che è interrotta da altri pensieri).

Tuttavia, finché meditiamo su Dio come qualcosa diverso da noi stessi, la nostra meditazione è solo un’attività mentale – un karma – perché comporta un movimento della nostra attenzione lontano da noi stessi verso il pensiero di Dio, che è diverso da noi stessi. Quindi nel verso 8 egli ci insegna che piuttosto che anya-bhāva (la meditazione su Dio come diverso da noi stessi), ananya-bhāva (la meditazione su di lui come nessun’altro che noi stessi) è la migliore fra tutte le forme di meditazione.

Cioè, la meditazione su Dio come ‘io’, il nostro sé essenziale, purificherà la nostra mente più efficacemente che la meditazione su qualsiasi altra cosa. Poiché questa ananya-bhāva o auto-meditazione non comporta alcun movimento della nostra attenzione lontano da noi stessi, non è un’azione o un karma, ma è il nostro vero stato di ‘solo essere’ – il nostro stato naturale di chiaro essere senza pensieri e auto-cosciente, in cui non sorgiamo come una mente (una coscienza separata conoscitrice di oggetti) a pensare o a sperimentare qualcosa diversa da noi stessi.

Poiché Dio non è realmente nient’altro che il nostro sé essenziale – il nostro verso essere auto-cosciente, ‘io sono’ – nel verso 9 Sri Ramana dice che essere nel nostro sat-bhāva (il nostro ‘vero essere’ o ‘stato di essere’), che trascende bhāvanā (l’immaginazione o meditazione come attività mentale), per la forza della nostra ananya-bhāva o auto-meditazione, è para-bhakti tattva – il vero stato di devozione suprema. In altre parole, benché il sentiero di bhakti o devozione inizia con la pratica di niṣkāmya karma (atti d’amore compiuti senza desiderio ma solo come espressione del nostro amore per Dio), esso infine culmina nello stato senza pensiero e quindi senza azione di vero essere, che solo è la forma reale di Dio.

Sri Ramana conclude poi questa prima serie di versi dicendo nel verso 10 che sprofondando e dimorando in questo modo in Dio, che è il nostro vero sé e la sorgente dalla quale siamo sorti come questa consapevolezza apparente che chiamiamo ‘mente’ o ‘ego’, è la vera pratica e il fine non solo del [niṣkāmya] karma e della bhakti, ma anche dello yōga (il sentiero del rāja yōga, che consiste nel trattenimento del respiro e vari altri esercizi finalizzati al contenimento e allo sprofondamento della mente) e jñāna (il sentiero della ‘conoscenza’, che è il vero mezzo diretto con cui possiamo conoscere noi stessi come siamo realmente).

Dal verso 11 al verso 15 egli spiega l’essenza del rāja yōga, in particolare riferendosi alla pratica del prāṇāyāma o ‘trattenimento del respiro’. Nei versi 11 e 12 egli spiega che trattenere il respiro è un mezzo per contenere la mente, perché come due rami di un singolo albero, il respiro e la mente condividono una radice o potere di attivazione comune, così quando uno cessa, anche l’altro cesserà. Tuttavia, nel verso 13 egli sottolinea che la cessazione della mente è di due tipi, laya o sospensione, che è temporanea, e nāśa o distruzione, che è permanente.

Egli inizia il verso 14 con le parole ஒடுக்க வளியை ஒடுங்கும் உளத்தை (oḍukka vaḷiyai oḍuṅgum uḷattai), che significano ‘mente, che cessa quando [noi] tratteniamo il [nostro] respiro’, volendo dire che la mente cesserà solo temporaneamente (cioè, non in nāśa ma solo in laya) quando il respiro è trattenuto. Egli poi dice che quando mandiamo la nostra mente in ஓர் வழி (ōr vaṙi), la sua forma cesserà, morirà o sarà distrutta (cioè, cesserà non solo in laya ma in nāśa).

La parola ஓர் (ōr) è sia una forma di ஒரு (oru), che significa ‘solo’ o ‘unico’, sia la radice di un verbo che significa ‘investigare’, esaminare’, ‘scrutinare’, ‘considerare attentamente’ o ‘conoscere’, così ஓர் வழி (ōr vaṙi) può significare ஒரு வழி (oru vaṙi), il ‘solo sentiero’ o ‘unico sentiero’, o ஓரும் வழி (ōrum vaṙi), il ‘sentiero di investigare’ o ‘sentiero di conoscere’ (cioè, il sentiero di investigare o conoscere il nostro sé essenziale).

Così, proprio come egli ci insegna nel verso 8 che i sentieri di niṣkāmya karma e bhakti devono condurre ed infine fondersi nel sentiero di jñāna, che è la semplice pratica di ātma-vicāra o auto-investigazione, così egli ci insegna nel verso 14 che il sentiero dello yōga deve ugualmente condurre ed infine fondersi nel sentiero di jñāna. Nel verso 8 egli descrive questa pratica di ātma-vicāra come ananya-bhāva, ‘meditazione su ciò che non è altro [che noi stessi]’, e nel verso 14 lo descrive come ōr vaṙi, il ‘solo sentiero’ o ‘sentiero di investigare e conoscere [noi stessi]’.

Come Sri Ramana una volta disse, benché vari sentieri possano aiutare a purificare la nostra mente e quindi condurci vicino alla cittadella della vera auto-conoscenza, per entrare realmente in quella cittadella dobbiamo attraversare la sola porta, che è la pratica di ātma-vicāra o auto-investigazione, perché non possiamo conoscere noi stessi come siamo realmente se non esaminiamo accuratamente noi stessi con intenso amore per scoprire ‘chi sono io?’.

Nel verso 15 egli conclude questa serie di versi riguardo il sentiero dello yōga dicendo che per il grande ātma-yōgi, la cui mente è stata distrutta e che è stabilito permanentemente come la realtà, non esiste azione da fare. Cioè, come le azioni che costituiscono il sentiero del niṣkāmya karma e gli stadi iniziali del sentiero della bhakti, le azioni che costituiscono gli stadi iniziali del sentiero dello yōga devono infine condurci alla pratica di ātma-vicāra, che sola distruggerà la nostra mente e ci stabilirà nel nostro stato naturale di essere senza azione.

Poiché la nostra mente è la causa radice di tutto il karma o azione, quando sprofonda tutte le azioni sprofondano con essa, e quando essa cessa di esistere tutte le azioni cesseranno per sempre. Come la nostra mente, che causa la sua comparsa, l’azione o ‘fare’ è un’aggiunta innaturale e irreale che abbiamo sovrapposto sulla nostra reale natura, che è semplice essere non-duale e auto-cosciente, ‘io sono’. Quindi quando la nostra mente è dissolta e distrutta dalla chiara luce della pura auto-consapevolezza senza pensiero – che possiamo scoprire e rivelare solo per mezzo della pratica di ātma-vicāra o vigilante auto-attentività – tutto il karma o l’azione sarà dissolto e distrutto insieme con essa.

Avendo esposto in questo modo l’irrealtà del karma e la sua inabilità a dare vera auto-conoscenza nei primi quindici versi, nei quindici versi successivi Sri Ramana discute in maggiore dettaglio il sentiero senza azione di jñāna – che è ātma-vicāra, la semplice pratica non-duale di solo essere acutamente e vigilantemente auto-attentivi – e il nostro stato naturale di essere, che possiamo sperimentare solo per mezzo di tale auto-attentività.

Nel verso 16 egli ci dà una definizione chiara e pratica della vera conoscenza, dicendo che è la conoscenza non-duale che sperimenteremo quando la nostra mente cesserà di conoscere வெளி விடயங்கள் (veḷi viḍayaṅgaḷ) — viṣayas esterni (oggetti o esperienze), cioè, qualsiasi cosa diversa da noi stessi – e invece conoscerà solo la sua essenziale ஒளி உரு (oḷi uru) o ‘forma di luce’, cioè, la sua vera forma di consapevolezza, ‘io sono’.

Nel verso 17 egli afferma l’irrealtà della nostra mente e ci insegna il mezzo diretto con cui possiamo sperimentare la sua non-esistenza e la realtà che sottende la sua falsa apparenza, dicendo che quando esaminiamo la sua forma senza dimenticanza – cioè, senza pramāda o auto-disattenzione – scopriremo che non c’è affatto una cosa come la ‘mente’. Questo è per ognuno, egli dice, il நேர் மார்க்கம் (nēr mārggam) – il sentiero o mezzo diritto, diretto, corretto e appropriato per sperimentare la vera auto-conoscenza.

Nel verso 18 egli chiarifica con precisione ciò che intende nel verso 17 con மனத்தின் உரு (maṉattiṉ uru), la ‘forma della mente’ che dovremmo investigare o esaminare, dicendo che solo i pensieri costituiscono la mente, e che di tutti i pensieri il pensiero ‘io’ è மூலம் (mūlam), la radice, la base, il fondamento, l’origine o la sorgente. Cioè, quello che pensa tutti gli altri pensieri è esso stesso un pensiero – il nostro pensiero primario ‘io’. Mentre tutti gli altri pensieri sono oggetti non-coscienti, che non conoscono niente, questo pensiero radice ‘io’ è il soggetto cosciente che li pensa e li conosce. Poiché questo pensiero pensante ‘io’ è la sorgente e il fondamento di tutti gli altri pensieri, e poiché è quindi il solo elemento essenziale della nostra mente – il solo elemento che permane finché la nostra mente è attiva – ciò che chiamiamo ‘mente’ è in essenza solo questo primo pensiero ‘io’.

Così il significato chiaramente inteso nel verso 18 è che la pratica di மனத்தின் உருவை மறவாது உசாவுதல் (maṉattiṉ uruvai maṟavādu usāvudal) o ‘esaminare la forma della mente senza dimenticanza [cioè, senza pramāda, negligenza, inavvertenza, trascuratezza o indolenza nella nostra auto-attentività]’ che egli prescrive nel verso 17 è lo sforzo che dobbiamo fare per esaminare con vigilanza il nostro pensiero primario ‘io’, che è la sola forma essenziale della nostra mente. Questo sforzo di esaminare ‘io’ è la vera pratica di ātma-vicāra o ‘auto-investigazione’, che egli chiama jñāna-vicāra o ‘conoscenza-investigazione’ nel verso successivo.

Nel verso 19 egli spiega sia la pratica che il risultato di ஞான விசாரம் (jñāna-vicāram) – ‘conoscenza-investigazione’ o esame della nostra conoscenza primaria, ‘io sono’ – dicendo che quando esaminiamo all’interno di noi, ‘cos’è la sorgente dalla quale la nostra mente sorge come io?’ questo falso ‘io’ morirà.

Nel verso 20 egli dice che nel luogo (il nostro ‘cuore’ o il più profondo centro del nostro essere) dove questo falso ‘io’ in questo modo si fonde, l’unica realtà certamente ‘risplenderà’ (cioè, sarà sperimentata) spontaneamente come ‘io [sono] io’, e che quello, che è il nostro sé reale, è il pūrṇa o tutto (la totalità infinita o pienezza di sat-cit-ānanda – essere, consapevolezza e felicità).

Nel verso 21 egli dice che questa realtà infinita che sperimentiamo in questo modo come ‘io [sono] io’ è sempre il vero significato della parola ‘io’, perché nel sonno, anche se il nostro ‘io’ limitato (la nostra mente o ego) ha cessato di esistere, noi non cessiamo di esistere. Cioè, poiché nel sonno esistiamo anche in assenza della nostra mente, e poiché non possiamo realmente essere qualcosa alla cui assenza continuiamo ad esistere, il nostro sé reale (il vero significato della parola ‘io’) deve essere quello che siamo in tutti i tempi e in tutti gli stati. Quella è solo la nostra consapevolezza essenziale di essere, ‘io sono’, che esiste permanentemente – nella veglia, nel sogno e nel sonno senza sogni – e che sperimenteremo chiaramente solo quando esamineremo la nostra mente e scopriremo che essa in realtà non esiste come tale, perché la sua unica realtà è questa essenziale auto-consapevolezza ‘io sono’, che sottende e supporta la sua falsa apparenza (proprio come una corda è l’unica realtà che sottende e supporta la falsa apparenza di un serpente immaginario che giace a terra nella debole luce del crepuscolo).

Nel verso 22 egli dice che poiché le nostre ‘cinque guaine’ – i nostri corpo, vita, mente e intelletto, e l’apparente ‘oscurità’ o assenza di conoscenza che sperimentiamo nel sonno – sono tutti jaḍa (non-coscienti) e asat (non-esistente o irreale), essi non sono il nostro ‘io’ reale, che è cit (consapevolezza) e sat (essere o realtà).

Nel verso 23 egli continua a discutere il soggetto della consapevolezza e l’essere (cit e sat), che sono la natura del nostro ‘io’ reale, e afferma che essi non sono due cose separate ma sono realmente una realtà assolutamente non-duale. Cioè, egli dice che poiché non c’è consapevolezza diversa dall’essere per conoscere l’essere, l’essere è consapevolezza, e la consapevolezza soltanto è ‘noi’ (il nostro vero sé o essere essenziale, ‘io sono’).

Dal verso 24 al verso 26 egli discute la vera natura di Dio, come siamo a lui connessi e come possiamo sperimentarlo come è realmente. Nel verso 24 dice che nella loro vera natura, che è essere, Dio e le anime sono solo una sostanza, essenza o realtà, e che ciò che le fa apparire differenti è solo la consapevolezza delle anime di aggiunte. Cioè, poiché immaginiamo certe aggiunte non essenziale, come il nostro corpo e la mente, come il nostro sé reale, sperimentiamo noi stessi come separati da Dio, che è realmente nessun altro che il nostro essere essenziale o vero sé, ‘io sono’.

Quindi nel verso 25 Sri Ramana ci insegna che se accantoniamo tutte le nostre aggiunte e conosciamo noi stessi come siamo realmente, questo è conoscere Dio, perché Dio esiste e risplende come ‘io sono’, il nostro sé essenziale.

Nel verso 26 egli chiarifica ciò che intende nel verso 25 con le parole ‘conoscere [il nostro] sé’, dicendo che poiché il sé è assolutamente non-duale, ‘conoscere il sé’ non è uno stato dualistico di conoscenza oggettiva, ma è solamente lo stato di ‘essere il sé’. Cioè, poiché il nostro sé reale è eternamente auto-cosciente, per conoscere noi stessi come siamo realmente non abbiamo bisogno di fare niente, ma semplicemente di essere come siamo realmente – cioè, chiaramente coscienti di niente altro che noi stessi, il nostro essere essenziale, ‘io sono’.

Poiché conoscere il sé è solo essere il sé, e poiché Dio non è nient’altro che il sé, Sri Ramana conclude questa serie di tre versi chiudendo il verso 26 con le parole தன்மய நிட்டை ஈது (taṉmaya niṭṭhai idu), che significano ‘questo [stato di conoscere e essere il nostro sé reale] è tanmaya-niṣṭhā [lo stato di essere fermamente stabiliti come tat o ‘esso’, l’unica realtà assoluta chiamata Dio o brahman]’. Cioè, poiché Dio è il nostro sé reale, conoscere ed essere il sé è conoscere ed essere Dio. In altre parole, possiamo sperimentare Dio come è realmente solo essendo come egli è realmente, e possiamo essere come egli è realmente solo cessando di essere questa mente o ego, la falsa coscienza limitata che pensa e conosce cose che sembrano essere diverse da se stessa.

Nel verso 27 egli afferma ulteriormente la natura assolutamente non-duale e ‘senza altro’ della vera auto-conoscenza, dicendo che solo la conoscenza che è completamente priva sia di conoscenza che di ignoranza (riguardo qualsiasi cosa diversa da noi stessi) è vera conoscenza, e che questa vera auto-conoscenza è la sola realtà, perché in verità niente (diverso da noi stessi) esiste che possiamo conoscere.

Nel verso 28 afferma che la natura infinita ed eterna della vera auto-conoscenza, e anche afferma che il nostro sé reale non è solo essere infinito e infinita consapevolezza ma anche infinita felicità, dicendo che se conosciamo noi stessi esaminando ‘cos’è la reale natura di me stesso?’ (‘chi sono io?’), allora scopriremo noi stessi come sat-cit-ānanda (essere-consapevolezza-beatitudine) senza inizio, senza fine e ininterrotto.

Cioè, poiché l’auto-conoscenza è la nostra vera natura, non ha inizio né fine, sia nel tempo, nello spazio o in ogni altra dimensione, e non ha intervalli o interruzioni. Ogni dimensione come il tempo o lo spazio, o ogni inizio, fine o intervallo in una tale dimensione, è solo un’immaginazione creata dalla nostra mente e quindi esiste solo nella nostra mente, così quando conosciamo noi stessi come siamo realmente e quindi scopriamo questa mente come realmente non-esistente, conosceremo che nessuna dimensione o ogni inizio, fine o intervallo sono mai realmente esistiti.

Quindi, poiché lo stato di vera auto-conoscenza (che è anche chiamato lo stato di ‘liberazione’ dall’auto-ignoranza) non ha inizio, fine o intervallo, nessuno stato di auto-ignoranza (o ‘schiavitù’) è mai realmente esistito. La nostra attuale cosiddetta ‘schiavitù’ di auto-ignoranza e la cosiddetta ‘liberazione’ da quella ‘schiavitù’ che cerchiamo di ottenere conoscendo noi stessi come siamo realmente, sono entrambi solo pensieri, che appaiono essere reali solo nella prospettiva distorta della nostra mente.

La liberazione sarebbe reale solo se la schiavitù dalla quale desideriamo essere liberati fosse reale, e la schiavitù sarebbe reale solo se la mente che è schiava fosse reale, ma poiché questa mente è un’immaginazione irreale, la sua attuale schiavitù e la futura liberazione sono ugualmente irreali. Quindi nel verso 29 Sri Ramana ci insegna che la suprema felicità della vera auto-conoscenza trascende la falsa dualità di ‘schiavitù’ e ‘liberazione’, dicendo che dimorare permanentemente in questo stato di vera auto-conoscenza come para-sukha (felicità suprema o trascendente), che è priva sia di schiavitù che di liberazione, è dimorare come Dio ha comandato (dimorare nel servizio di Dio).

Infine Sri Muruganar conclude questo poema dicendo nel verso 30 che Sri Ramana, che è il nostro sé reale, ci ha insegnato che il nostro stato naturale (di essere senza pensiero, non-duale e auto-cosciente, ‘io sono’), che è ciò che sperimenteremo se conosceremo che ciò che soltanto rimane dopo che l’ ‘io’ (la nostra mente o ego) ha cessato di esistere, è il verso tapas (austerità, ascetismo o auto-negazione). Dunque Upadēśa Undiyār (o Upadēśa Sāram, l’ ‘Essenza di [tutte] le Istruzioni Spirituali’, come è chiamato in Sanscrito, Telugu e Malayalam) è un’esposizione chiara, precisa e completa del mezzo con cui possiamo sperimentare il nostro stato naturale di essere auto-cosciente originario, senza pensiero e assolutamente senza ego.

Traduzione Italiana in file PDF di Upadēśa Undiyār

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