Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

martedì 10 maggio 2016

L’ego è il pensatore, non l’atto di pensare

Michael James

8 Maggio 2016
The ego is the thinker, not the act of thinking


In un commento al mio articolo precedente, La persona che sembriamo essere è una forma composta di cinque guaine, un amico di nome Ann Onymous ha scritto, ‘L’ego è il vero pensare che c’è, o anche sembra essere un ego’, ma questo è confondere un’azione con chi agisce, confondendo il primo (il pensare) come il secondo (il pensatore). Pensare che c’è un ego o che non c’è un ego, che esso esiste realmente o solo sembra esistere, o pensare ad ogni altro pensiero riguardo ad esso o riguardo a qualsiasi altra cosa non può essere l’ego, perché pensare è un’azione, mentre l’ego è il pensatore, chi compie l’azione.

Se l’ego fosse l’atto di pensare, potremmo investigarlo semplicemente osservando il nostro pensare, ma ovviamente non è così. Per investigare questo ego dobbiamo ignorare tutto il pensare e osservare solo il pensatore, quello che è consapevole di pensare e dei pensieri prodotti dal pensare. Quindi è necessario distinguere chiaramente il pensatore dal suo pensare, e anche da qualunque cosa che esso pensa.

Il pensatore, il suo pensare e i suoi pensieri insieme formano una tripuṭi, una triade che consiste di tre fattori implicati in ogni forma di conoscenza o esperienza oggettiva (o transitiva), vale a dire il soggetto, l’oggetto e qualunque azione che connette queste due. Altri esempi di una tripuṭi includono il conoscitore, il suo conoscere e qualunque cosa esso conosce; lo sperimentatore, il suo sperimentare e qualunque cosa esso sperimenta; e il percettore, la sua percezione e qualunque cosa esso percepisce. In tutti questi casi il soggetto – quello che sta pensando, conoscendo, sperimentando o percependo – è l’ego; l’oggetto è qualunque cosa esso pensa, conosce, sperimenta o percepisce; e l’azione che connette questi due è il pensare, il conoscere, lo sperimentare o il percepire del soggetto.

L’unico fattore costante in tutte queste tripuṭi è l’ego o soggetto, perché è sempre lo stesso ego ed è essenzialmente immutabile, mentre ciò che esso pensa conosce, sperimenta o percepisce cambia forma da momento a momento, e quindi le sue azioni di pensare, conoscere, sperimentare e percepire cambiano insieme con qualunque oggetto che esso pensa, conosce, sperimenta o percepisce. L’ego è quindi la radice, il fondamento e il supporto di ogni tripuṭi, come Bhagavan indica nel verso 9 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
இரட்டைகண் முப்புடிக ளென்றுமொன்று பற்றி
யிருப்பவா மவ்வொன்றே தென்று — கருத்தினுட்
கண்டாற் கழலுமவை கண்டவ ரேயுண்மை
கண்டார் கலங்காரே காண்.

iraṭṭaigaṇ muppuḍiga ḷeṉḏṟumoṉḏṟu paṯṟi
yiruppavā mavvoṉḏṟē teṉḏṟu — karuttiṉuṭ
kaṇḍāṯ kaṙalumavai kaṇḍava rēyuṇmai
kaṇḍār kalaṅgārē kāṇ
.

பதச்சேதம்: இரட்டைகள் முப்புடிகள் என்றும் ஒன்று பற்றி இருப்பவாம். அவ் ஒன்று ஏது என்று கருத்தின் உள் கண்டால், கழலும் அவை. கண்டவரே உண்மை கண்டார்; கலங்காரே. காண்.

Padacchēdam (separazione delle parole): iraṭṭaigaḷ muppuḍigaḷ eṉḏṟum oṉḏṟu paṯṟi iruppavām. a-vv-oṉḏṟu ēdu eṉḏṟu karuttiṉ-uḷ kaṇḍāl, kaṙalum avai. kaṇḍavarē uṇmai kaṇḍār; kalaṅgārē. kāṇ.

அன்வயம்: இரட்டைகள் முப்புடிகள் என்றும் ஒன்று பற்றி இருப்பவாம். அவ் ஒன்று ஏது என்று கருத்தின் உள் கண்டால், அவை கழலும். கண்டவரே உண்மை கண்டார்; கலங்காரே. காண்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): iraṭṭaigaḷ muppuḍigaḷ eṉḏṟum oṉḏṟu paṯṟi iruppavām. a-vv-oṉḏṟu ēdu eṉḏṟu karuttiṉ-uḷ kaṇḍāl, avai kaṙalum. kaṇḍavarē uṇmai kaṇḍār; kalaṅgārē. kāṇ.

Traduzione: Le diadi e le triadi esistono aggrappandosi sempre a uno (l’ego o mente, il pensiero ‘io sono il corpo’). Se uno guarda all’interno della mente [per vedere] cos’è quell’uno, essi cesseranno di esistere. Solo coloro che hanno visto [questo] hanno visto la realtà. Vedi, essi non saranno confusi.
‘இரட்டை’ (iraṭṭai) significa un paio, una coppia, una diade o ogni serie di due cose, ma in questo contesto si riferisce specificatamente a ogni paio di opposti (chiamato in Sanscrito dvaṁdva o dvandva), come conoscenza o ignoranza, consapevolezza e non-consapevolezza, esistenza e non-esistenza, realtà e illusione, felicità e infelicità, o schiavitù e liberazione. ‘முப்புடி’ (muppuḍi) è adattato dal termine Sanscrito त्रिपुटि (tripuṭi), che come ho spiegato sopra significa una triade nel senso di tre fattori implicati in ogni forma di conoscenza o esperienza oggettiva, vale a dire il soggetto, l’oggetto e qualunque azione connette questi due. Come Bhagavan dice in questo verso, tutte queste diadi e triadi esistono solo aggrappandosi sempre a, o dipendendo da, ‘ஒன்று’ (oṉḏṟu), che significa ‘uno’, ma che in questo contesto si riferisce specificatamente all’ego, perché tutti i fenomeni come queste diadi e triadi sembrano esistere solo nella visione di questo ego, così esse sembrano esistere solo quando noi sembriamo essere questo ego, come nella veglia o nel sogno, e cessano di esistere appena questo ego sprofonda, come nel sonno.

Quindi, poiché questo ego sembra esistere solo quando noi non lo guardiamo attentamente, e poiché cesserà quindi di esistere se lo osserveremo accuratamente, nella seconda frase di questo verso Bhagavan dice che se uno guarda all’interno della propria mente per vedere cosa questo ego è realmente, le diadi e triadi cesseranno di esistere. Il verbo che egli usa qui è கழல் (kaṙal), che significa letteralmente divenire slegati, slacciati, sciolti, sbrogliati o dispersi, svignarsela, scappare, cessare o scomparire, ma che in questo contesto implica cessare di esistere.

Diveniamo consapevoli di fenomeni come le diadi e le triadi solo quando sperimentiamo noi stessi come questo ego conoscitore di oggetti, e quando sperimentiamo noi stessi in questo modo non ci stiamo sperimentiamo come siamo realmente. Quindi il nostro sorgere come questo ego è ciò che oscura la nostra chiara consapevolezza di noi stessi come siamo realmente, così in questa terza frase di questo verso Bhagavan dice, ‘கண்டவரே உண்மை கண்டார்’ (kaṇḍavarē uṇmai kaṇḍār), che significa letteralmente ‘Solo coloro che hanno visto hanno visto la realtà’ ma che in questo contesto significa ‘Solo coloro che hanno visto [che l’ego (insieme con tutta la sua progenie) non esiste] hanno visto la realtà’.

Finché confondiamo una corda come un serpente, non vediamo la corda come è, ma se guardiamo attentamente a ciò che sembra essere un serpente vedremo che non è realmente un serpente ma solo una corda. Ugualmente, finché confondiamo noi stessi come questo ego, non vediamo noi stessi come siamo realmente, ma se guardiamo molto attentamente ciò che sembra essere questo ego vedremo che non è realmente un ego ma solo la pura, infinita e intransitiva auto-consapevolezza che siamo realmente. Quindi vedere la non-esistenza dell’ego è vedere ciò che solo è reale, vale a dire il nostro sé infinito. Se vediamo in questo modo, non saremo mai più confusi, turbati, impauriti o afflitti, perché non vedremo mai più alcun fenomeno né confonderemo noi stessi come qualche fenomeno, che è ciò che Bhagavan intende dicendo, ‘கலங்காரே’ (kalaṅgārē), che significa ‘essi non saranno confusi [turbati, impauriti o afflitti]’.

Essere consapevoli soltanto di noi stessi è pura consapevolezza intransitiva, perché ciò che siamo realmente non è un oggetto ma solo consapevolezza, e la natura della consapevolezza è di essere sempre consapevole di sé stessa, così la pura auto-consapevolezza non comporta anche la minima relazione soggetto-oggetto. Essa comporta solo il nostro essere consapevoli di noi stessi, come siamo sempre. D’altra parte, essere consapevoli di qualsiasi fenomeno comporta una relazione soggetto-oggetto, così è consapevolezza transitiva, che è ciò che Bhagavan chiama ‘சுட்டறிவு’ (suṭṭaṟivu), che significa letteralmente ‘consapevolezza che punta’ o ‘consapevolezza che mostra’, e che implica consapevolezza che è diretta a, o che mostra, qualsiasi cosa diversa da noi stessi (cioè, ogni oggetto o fenomeno).

Poiché la consapevolezza transitiva comporta che un soggetto (il nostro ego) sia consapevole di un oggetto (ogni tipo di fenomeno), in ogni forma di consapevolezza transitiva c’è una tripuṭi, una triade che consiste di questi tre fattori: il soggetto, un oggetto e l’atto del soggetto di essere consapevole di quell’oggetto (che comporta che esso punti la sua consapevolezza a quell’oggetto). Un esempio di questo è il processo del pensare, che comporta un soggetto (il nostro ego, che è il pensatore), un oggetto (un pensiero, che è qualunque cosa a cui questo ego accada di pensare) e l’atto di pensare di questo ego (che comporta il formare o proiettare quel pensiero e simultaneamente essere consapevole di esso).

Quando Ann Onymous ha scritto, ‘L’ego è il vero pensare che c’è, o anche sembra essere un ego’, il ‘vero pensare’ a cui lei si è riferita è l’azione che collega il pensatore ai suoi pensieri, vale a dire l’atto di proiettare e simultaneamente essere consapevole di qualunque cosa che esso sta pensando. Questa azione di pensare è fatta da chi? Solo da noi stessi come questo ego, che è il pensiero primario e il pensatore di tutti i pensieri. Quindi il nostro ego non è il ‘vero pensare’ ma proprio il pensatore che sta facendo l'azione di pensare.

Sia il pensare sia qualunque pensiero che è prodotto dal pensare sembrano esistere solo perché noi come questo ego sembriamo star pensando e quindi producendo pensieri. Quindi come Bhagavan intende nel summenzionato verso di Uḷḷadu Nāṟpadu, entrambi sembrano esistere solo dipendendo da questo ego. Il pensare comporta l’essere consapevoli di qualcosa diversa da noi stessi, e ogni volta che siamo consapevoli di qualcosa diversa da noi stessi siamo consapevoli di noi stessi come questo ego. Quindi il pensare dipende dal nostro essere consapevoli di noi stessi come questo ego, chi sta pensando.

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