Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

domenica 29 maggio 2016

Possiamo separarci permanentemente da qualsiasi cosa non è noi stessi solo attendendo soltanto a noi stessi

Michael James

17 Maggio 2016
We can separate ourself permanently from whatever is not ourself only by attending to ourself alone


In un recente commento a uno dei miei vecchi articoli, Ātma-vicāra e la ‘pratica’ di nēti nēti, un amico di nome Roger ha cercato di spiegare perché ritiene che ātma-vicāra (auto-investigazione) e nēti nēti (che letteralmente significa ‘non così, non così’, ‘non in questo modo, non in questo modo’ o ‘non come questo, non come questo’, e che è generalmente considerata la pratica di meditare sull’idea che il corpo, la mente e le altre aggiunte che confondiamo come noi stessi non sono noi stessi) sono entrambi ‘interamente valide ed hanno lo stesso potenziale’, e che nēti nēti è ‘un metodo di mantenere l’attenzione fissata su “io”, uno tra ‘molteplici altri metodi’, così questo articolo è la mia risposta a lui.
  1. Il solo mezzo per vedere ciò che siamo realmente è attendere a noi stessi
  2. Ciò che siamo realmente è solo pura consapevolezza intransitiva
  3. Siamo transitivamente consapevoli perché permettiamo alla nostra attenzione di essere distolta lontano da noi stessi
  4. Avendo compreso ciò che non siamo, dovremmo attendere solo a ciò che siamo realmente
  5. Upadēśa Undiyār verso 16: dobbiamo attendere solo a noi stessi e quindi lasciare da parte tutti i fenomeni
  6. Nāṉ Yār? paragrafo 8: non possiamo annientare il nostro ego con qualsiasi mezzo diverso da ātma-vicāra
  7. Possiamo ignorare tutti i pensieri solo attendendo soltanto a noi stessi
  8. Ciò che Bhagavan intendeva con il termine ‘pensiero’ è un fenomeno mentale di qualsiasi genere
  9. Non possiamo terminare il pensiero o il processo del pensare dando ad esso attenzione, ma solo attendendo a noi stessi
  10. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 25: questo ego cesserà di esistere solo quando attenderemo soltanto ad esso
  11. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 36: pensare ‘io non sono questo corpo ma solo brahman’ è solo un aiuto preliminare
  12. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 29: pensare ‘io non sono questo, io sono quello’ è un aiuto ma non è vicāra
  13. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 32: aggrapparsi a tali aiuti è dovuto a ‘difetto di forza’
  14. Nāṉ Yār? paragrafo 2: solo la consapevolezza che si mantiene isolata da ogni altra cosa è ‘io’

1. Il solo mezzo per vedere ciò che siamo realmente è attendere a noi stessi

Roger, come tu intendi, dovremmo cercare di mantenere la nostra attenzione fissata su ‘io’, ma sembri credere che ātma-vicāra e nēti nēti sono entrambi ‘metodi’ per fare questo, che solleva la domanda se abbiamo bisogno di qualche ‘metodo’ per guardare, osservare o attendere a noi stessi, o cosa significa in questo contesto il termine ‘metodo’. Se vogliamo vedere direttamente il sole, dobbiamo solo girarci a guardarlo, ma normalmente non descriveremmo il girarci per guardare qualcosa come il ‘metodo’ per vederla, perché il termine ‘metodo’ abitualmente implica qualcosa di più complesso che semplicemente girarci per guardare qualcosa.

Poiché ‘mantenere l’attenzione fissata su “io” significa semplicemente guardare, osservare o attendere fermamente a noi stessi, e poiché possiamo attendere a noi stessi solo direttamente e non indirettamente, non ci più essere più che un mezzo o ‘metodo’ per attendere a noi stessi o per mantenere la nostra attenzione fissata su noi stessi. Proprio come il solo mezzo per vedere il sole direttamente è guardarlo, il solo mezzo per vedere ciò che siamo realmente è attendere a noi stessi.

Ci sono molte indicazioni che ci sono state date da Bhagavan e in alcuni testi più antichi per aiutarci a rivolgere la nostra attenzione interiormente e a fissarla soltanto su noi stessi, e comprendere che non siamo il corpo, la mente o ogni altro fenomeno che ora sembriamo essere, è anche un aiuto preliminare necessario per aiutarci a fissare la nostra attenzione su niente altro che ciò che siamo realmente, che è solo pura auto-consapevolezza, ma tutte queste indicazioni e il mezzo per ottenere una chiara e ferma convinzione intellettuale che non siamo qualsiasi cosa diversa dalla pura auto-consapevolezza sono solo aiuti e non la reale auto-investigazione o auto-attentività, con la quale soltanto possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente.

Ciò che descrivi come ‘metodi’ multipli per mantenere la nostra attenzione fissata su ‘io’ sono forse solo le varie spiegazioni e indicazioni che ci sono state date per aiutarci a fissare la nostra attenzione soltanto su noi stessi, ma queste spiegazioni e indicazioni sono solo aiuti, e come spiegherò in maggiore dettaglio più avanti in questo articolo (in modo particolare nelle sezioni sette, dodici e tredici) nessun aiuto può essere la reale pratica di auto-attentività o auto-investigazione, che è il solo mezzo con cui possiamo separare completamente noi stessi da ogni altra cosa che ora sembriamo essere ma che non è ciò che siamo realmente.

2. Ciò che siamo realmente è solo pura consapevolezza intransitiva

Sebbene sembri intendere ātma-vicāra e nēti nēti come due metodi differenti per mantenere la nostra attenzione fissata su noi stessi, da ciò che scrivi non è del tutto chiaro cosa esattamente ritieni essere questi ‘metodi’, o in che modo li ritieni differenti (in modo particolare se tu credi, come sembri intendere, che entrambi comportano solo il mantenere la nostra attenzione fissata su noi stessi), così penso che il modo più utile per rispondere al tuo commento può essere fare un passo indietro da questi termini e considerare cosa stiamo cercando di realizzare e come possiamo realizzarlo.

Ora sperimentiamo noi stessi come una persona composta di un corpo e una mente, che sono fenomeni limitati e transitori che appaio nella veglia e nel sogno e scompaiono nel sonno, ma noi siamo consapevoli di noi stessi in tutti questi tre stati, così non possiamo essere questi o quale altro fenomeno, perché tutti i fenomeni sembrano esistere solo nella veglia e nel sogno e non esistono nel sonno. Quindi siamo solo la consapevolezza fondamentale che rimane, sia che qualsiasi fenomeno appaia o meno.

Tuttavia, ogni volta che i fenomeni appaiono, li sperimentiamo come oggetti e sperimentiamo noi stessi come il soggetto, e come tali sembriamo essere limitati. Il soggetto che è consapevole di ogni oggetto (cioè, qualunque cosa diversa da sé stesso) è il nostro ego, che appare insieme con i fenomeni nella veglia e nel sogno e scompare con essi nel sonno, così questo ego (la consapevolezza transitiva o conoscitrice di oggetti) non è ciò che siamo realmente. La consapevolezza che siamo realmente è solo pura consapevolezza intransitiva – cioè, consapevolezza che è solo consapevole e non consapevole di ogni oggetto o fenomeno (qualsiasi cosa diversa da sé stessi) – che è la consapevolezza che sperimentiamo nel sonno in assenza del nostro ego.

3. Siamo transitivamente consapevoli perché permettiamo alla nostra attenzione di essere distolta lontano da noi stessi

Quindi per conoscere noi stessi come siamo realmente, abbiamo bisogno di essere intransitivamente consapevoli – cioè, consapevoli di noi stessi senza essere consapevoli di alcun fenomeno. Tuttavia, siamo solo intransitivamente consapevoli ogni volta che siamo addormentati, ma essere addormentati non annienta il nostro ego, come sappiamo dal fatto che questo ego sorge nuovamente dal sonno nella veglia o nel sogno. Il motivo per cui il nostro ego nel sonno non è annientato è che in questo stato rimaniamo solo intransitivamente consapevoli come risultato del completo sprofondamento di questo ego, ed esso in quel momento è sprofondato solo a causa di stanchezza, mentre perché esso sia annientato deve sprofondare come risultato del nostro essere solo intransitivamente consapevoli. In altre parole, essere solo intransitivamente consapevoli annienterà il nostro ego solo se questo è ciò che causa il suo sprofondamento, e non se questo è solamente ciò che risulta dal suo sprofondamento, come nel sonno. Quindi per annientare il nostro ego ed essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente abbiamo bisogno di essere solo intransitivamente consapevoli nella veglia o nel sogno, come siamo nel sonno.

Il motivo per cui ora non siamo solo intransitivamente consapevoli è che abbiamo scelto e costantemente continuiamo a scegliere di dare attenzione e quindi di essere consapevoli di fenomeni, così per essere solo intransitivamente consapevoli nella veglia o nel sogno, come siamo nel sonno, abbiamo bisogno di cercare di attendere solo a noi stessi. In altre parole, abbiamo bisogno di cercare di essere attentivamente auto-consapevoli. Noi siamo sempre auto-consapevoli, ma nella veglia e nel sogno siamo distrattamente auto-consapevoli, perché scegliamo di dare attenzione ad altre cose invece che soltanto a noi stessi, così per essere consapevoli soltanto di noi stessi abbiamo bisogno di dirigere la nostra intera attenzione verso noi stessi.

Essere auto-consapevoli non comporta essere transitivamente consapevoli, perché noi non siamo un oggetto, e perché essere consapevoli comporta essere auto-consapevoli, dato che non potremmo essere consapevoli senza essere consapevoli che siamo consapevoli, ed essere consapevoli che siamo consapevoli comporta essere consapevoli di noi stessi, quello che è consapevole. Quindi essere auto-consapevoli è la vera natura di essere consapevoli, così anche quando siamo solo intransitivamente consapevoli – cioè, consapevoli senza essere consapevoli di alcun fenomeno – noi siamo auto-consapevoli.

Per essere consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi abbiamo bisogno di dare ad essa attenzione almeno parzialmente (cioè, anche se non è il fuoco centrale della nostra attenzione, almeno una parte della nostra attenzione deve essere diretta verso di essa), ma per essere consapevoli di noi stessi non abbiamo bisogno di attendere a noi stessi, perché siamo sempre consapevoli di noi stessi sia che attendiamo a noi stessi o meno. Nella veglia e nel sogno generalmente diamo attenzione solo a cosa diverse da noi stessi, ma per quanto l'attenzione sia diretta verso altre cose, sempre rimaniamo auto-consapevoli, così l’auto-consapevolezza è lo schermo o sfondo su cui la consapevolezza di altre cose appare e scompare.

Sebbene nel sonno non diamo attenzione e quindi non siamo consapevoli di alcuna cosa diversa da noi stessi, in quel momento non attendiamo neppure a noi stessi, sebbene rimaniamo auto-consapevoli. Il motivo per cui nel sonno non attendiamo neppure a noi stessi è che l’attenzione è una funzione del nostro ego, e il nostro ego in quel momento non esiste.

L’attenzione è un focalizzare la nostra consapevolezza su qualcosa, e può anche essere descritta come un dirigere la nostra consapevolezza verso qualcosa, o come portare qualcosa all’interno della sfera della nostra consapevolezza, così è un uso selettivo della nostra consapevolezza. Perciò, poiché ciò che è consapevole di molte cose e può quindi scegliere di essere consapevole di qualcosa più di altre cose è solo il nostro ego, e poiché il nostro sé reale, che è solo pura consapevolezza intransitiva, non è consapevole di qualcosa diversa da sé stesso, l’attenzione è una funzione solo del nostro ego e non del nostro sé reale. Nel sonno il nostro ego non esiste e quindi non siamo consapevoli di alcuna cosa diversa da noi stessi, così nel sonno non attendiamo a noi stessi perché non possiamo farlo e non abbiamo bisogno di farlo, poiché non c’è niente altro di cui potremmo scegliere di essere consapevoli.

Nella veglia e nel sogno siamo transitivamente consapevoli – cioè, consapevoli di cose diverse da noi stessi – perché scegliamo di permettere alla nostra attenzione di essere distratta lontano da noi stessi verso altre cose. Tuttavia, anche quando siamo transitivamente consapevoli, siamo tuttavia intransitivamente consapevoli, perché non potremmo essere consapevoli di qualcosa se non fossimo consapevoli. La consapevolezza intransitiva è quindi il terreno o fondamento permanente su cui la consapevolezza transitiva appare e scompare. Per essere solo intransitivamente consapevoli, quindi, abbiamo semplicemente bisogno di cessare di essere transitivamente consapevoli, e il solo modo per evitare di essere transitivamente consapevoli nella veglia o nel sogno è di attendere soltanto a noi stessi.

4. Avendo compreso ciò che non siamo, dovremmo attendere solo a ciò che siamo realmente

Lo scopo di nēti nēti è rifiutare, eliminare o mettere da parte ogni cosa che non è noi stessi, ma possiamo realizzare questo solo stringendoci saldamente soltanto a noi stessi – cioè, cercando di essere attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi, che è la corretta pratica di auto-investigazione (ātma-vicāra). Se dirigiamo la nostra intera attenzione verso noi stessi (cioè, se focalizziamo la nostra consapevolezza unicamente su noi stessi, quello che è consapevole), la nostra attenzione sarà quindi automaticamente ritirata da ogni altra cosa.

Tuttavia, poiché nēti nēti significa letteralmente ‘non così, non così’ e implica ‘io non sono questo fenomeno, né quello’, comporta il pensare riguardo a qualsiasi cosa che non siamo piuttosto che riguardo a ciò che siamo realmente. Quindi non è intesa come una pratica spirituale o un mezzo diretto per conoscere ciò che siamo realmente, ma è semplicemente un’analisi intellettuale che è intesa sgombrare il terreno, per così dire, per la pratica di auto-investigazione. Cioè, al fine di focalizzare la nostra intera attenzione soltanto su noi stessi, all’inizio abbiamo bisogno di comprendere chiaramente che sebbene ora sembriamo essere un fenomeno come questo corpo e questa mente, nessun fenomeno può essere ciò che siamo realmente, così possiamo investigare noi stessi solo attendendo a noi stessi (la nostra fondamentale auto-consapevolezza) e non a fenomeni di qualunque genere. Avendo chiaramente compreso questo, dovremmo cercare di attendere solo a noi stessi e quindi di cercare di ignorare o evitare di attendere a qualsiasi fenomeno, incluso qualunque corpo, mente e altre aggiunte estranee che ora sembrano essere noi stessi.

5. Upadēśa Undiyār verso 16: dobbiamo attendere solo a noi stessi e quindi lasciare da parte tutti i fenomeni

Il fatto che per conoscere ciò che siamo realmente abbiamo bisogno di attendere solo a noi stessi e quindi cessare di dare attenzione a qualsiasi fenomeno è indicato chiaramente da Bhagavan nel verso 16 di Upadēśa Undiyār:
வெளிவிட யங்களை விட்டு மனந்தன்
னொளியுரு வோர்தலே யுந்தீபற
வுண்மை யுணர்ச்சியா முந்தீபற.

veḷiviḍa yaṅgaḷai viṭṭu maṉantaṉ
ṉoḷiyuru vōrdalē yundīpaṟa
vuṇmai yuṇarcciyā mundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: வெளி விடயங்களை விட்டு மனம் தன் ஒளி உரு ஓர்தலே உண்மை உணர்ச்சி ஆம்.

Padacchēdam (separazione delle parole): veḷi viḍayaṅgaḷai viṭṭu maṉam taṉ oḷi-uru ōrdalē uṇmai uṇarcci ām.

அன்வயம்: மனம் வெளி விடயங்களை விட்டு தன் ஒளி உரு ஓர்தலே உண்மை உணர்ச்சி ஆம்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): maṉam veḷi viḍayaṅgaḷai viṭṭu taṉ oḷi-uru ōrdalē uṇmai uṇarcci ām.

Traduzione: Lasciando da parte i fenomeni esterni, solo la conoscenza della mente della propria forma di luce è reale conoscenza [o conoscenza della realtà].
In questo contesto il termine ‘ஒளியுரு’ (oḷi-y-uru) o ‘forma di luce’ si riferisce alla pura consapevolezza intransitiva, che è la nostra ‘forma’ o reale natura, così ‘மனம் தன் ஒளியுரு ஓர்தலே’ (maṉam taṉ oḷi-y-uru ōrdalē), ‘la conoscenza della mente della propria forma di luce’, implica il rivolgere la nostra attenzione interiormente per essere consapevoli solo della pura consapevolezza che siamo realmente. Quando rivolgiamo la nostra attenzione all’interno per essere consapevoli soltanto di noi stessi automaticamente la ritiriamo da tutti i fenomeni esterni (viṣayas), così ஓர்தலே (ōrdalē), che è un sostantivo verbale che significa ‘conoscere’ o ‘essere consapevoli di’, è il soggetto di questa frase, mentre விட்டு (viṭṭu), che significa ‘lasciare’ o ‘lasciare da parte’ è un participio verbale, e quindi ‘மனம் தன் ஒளியுரு ஓர்தலே உண்மை உணர்ச்சி ஆம்’ (maṉam taṉ oḷi-y-uru ōrdalē uṇmai uṇarcci ām), ‘solo la conoscenza della mente della propria forma di luce è vera conoscenza’, è la proposizione principale di questa frase, mentre ‘வெளி விடயங்களை விட்டு’ (veḷi viḍayaṅgaḷai viṭṭu), ‘வெளி விடயங்களை விட்டு’ (veḷi viḍayaṅgaḷai viṭṭu), ‘lasciando da parte i fenomeni esterni’, è solo una proposizione avverbiale, indicando che è solo un effetto collaterale o una conseguenza di focalizzare la nostra intera attenzione soltanto su noi stessi.

‘Lasciare da parte i fenomeni esterni’ significa cessare di dare attenzione ad essi, ma benché cessiamo di dare attenzione ad essi ogni volta che ci addormentiamo non distruggiamo per questo il nostro ego, così solamente ‘lasciare da parte i fenomeni esterni’ non è sufficiente. Per annientare il nostro ego, l’’io’ che sorge per attaccare sé stesso ai fenomeni esterni, non dobbiamo solo cessare di dare attenzione ai fenomeni esterni ma dobbiamo anche attendere accuratamente a noi stessi.

Attendendo solo a noi stessi, automaticamente cessiamo di dare attenzione a qualsiasi altra cosa, ma cessando di dare attenzione a qualsiasi altra cosa, non attendiamo automaticamente a noi stessi, perché quando ci addormentiamo cessiamo di dare attenzione a qualsiasi altra cosa, ma con questo non attendiamo a noi stessi. Quindi poiché possiamo distruggere il nostro ego solo essendo attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi, non dovremmo solamente cercare di cessare di dare attenzione a qualsiasi altra cosa ma dovremmo cercare solo di attendere a noi stessi.

Se cercassimo solo di lasciare da parte i fenomeni esterni senza cercare di attendere accuratamente a noi stessi, metteremmo noi stessi in un’impresa impossibile, perché cercando di non dare attenzione ai fenomeni staremmo dando ad essi attenzione e quindi annullando ciò che stiamo cercando di realizzare. Tuttavia, non è necessario per noi fare un tale inutile sforzo, perché se cerchiamo semplicemente di attendere soltanto a noi stessi, automaticamente lasceremo da parte i fenomeni esterni nella misura in cui riusciremo a focalizzare la nostra intera attenzione soltanto su noi stessi.

Poiché tutte le aggiunte che sembrano essere noi stessi, come questo corpo e questa mente, sono solo fenomeni esterni, non possiamo separare totalmente noi stessi da essi solamente pensando che essi non sono ‘io’, ma solo attendendo accuratamente soltanto a noi stessi. Cercando di separare noi stessi da essi pensando solo che essi non sono ‘io’ è tanto inutile quanto cercare di farlo non pensando deliberatamente ad essi, perché in entrambi i casi staremmo pensando ad essi e quindi perpetuando la nostra presa su di essi. Quindi per salvarci da questi inutili sforzi, Bhagavan ci ha insegnato che tutto ciò che abbiamo bisogno di fare è solo cercare di attendere soltanto a noi stessi.

6. Nāṉ Yār? paragrafo 8: non possiamo annientare il nostro ego con qualsiasi mezzo diverso da ātma-vicāra

Sebbene ci sono certe tecniche yōgiche come il prāṇāyāma (contenimento del respiro) che possono servire come mezzi indiretti per ritirate la propria attenzione da tutti i fenomeni esterni, se riuscissimo a lasciare da parte tutti i fenomeni esterni con questi mezzi, il risultato sarebbe che la nostra mente sprofonderebbe in manōlaya, che è solo uno stato temporaneo di sospensione della mente, come il sonno. Questo è il motivo per cui Bhagavan dice nell’ paragrafo 8 di Nāṉ Yār?:
மனம் அடங்குவதற்கு விசாரணையைத் தவிர வேறு தகுந்த உபாயங்களில்லை. மற்ற உபாயங்களினால் அடக்கினால் மனம் அடங்கினாற்போ லிருந்து, மறுபடியும் கிளம்பிவிடும். பிராணாயாமத்தாலும் மன மடங்கும்; ஆனால் பிராண னடங்கியிருக்கும் வரையில் மனமு மடங்கியிருந்து, பிராணன் வெளிப்படும்போது தானும் வெளிப்பட்டு வாசனை வயத்தா யலையும். [...] ஆகையால் பிராணாயாமம் மனத்தை யடக்க சகாயமாகுமே யன்றி மனோநாசஞ் செய்யாது.

maṉam aḍaṅguvadaṟku vicāraṇaiyai-t tavira vēṟu tahunda upāyaṅgaḷ-illai. maṯṟa upāyaṅgaḷiṉāl aḍakkiṉāl maṉam aḍaṅgiṉāl-pōl irundu, maṟupaḍiyum kiḷambi-viḍum. pirāṇāyāmattāl-um maṉam aḍaṅgum; āṉāl pirāṇaṉ aḍaṅgi-y-irukkum varaiyil maṉam-um aḍaṅgi-y-irundu, pirāṇaṉ veḷi-p-paḍum-bōdu tāṉum veḷi-p-paṭṭu vāsaṉai vayattāy alaiyum. […] āhaiyāl pirāṇāyāmam maṉattai y-aḍakka sahāyam-āhum-ē y-aṉḏṟi maṉōnāśam seyyādu.

Per far sprofondare la mente [nel senso di cessare di esistere], tranne vicāraṇā [investigazione di sé] non ci sono altri mezzi adeguati. Se fatta sprofondare con altri mezzi, la mente rimarrà come se fosse quietata, [ma] emergerà nuovamente. Anche per mezzo di prāṇāyāma la mente sprofonderà; tuttavia, [sebbene] la mente rimane controllata fino a che il respiro è controllato, quando il respiro emerge [o diviene manifesto] essa anche emerge e vaga sotto l'influenza delle [sue] vāsanā [disposizioni, inclinazioni, impulsi o desideri]. […] Quindi il prāṇāyāma è semplicemente un aiuto per trattenere la mente [o per farla sprofondare temporaneamente], ma non determinerà manō-nāśa [l'annientamento della mente].
Il corpo, la mente e altre aggiunte che ora sperimentiamo come se fossero noi stessi sono tutti fenomeni esterni, così ogni volta che ci addormentiamo o sprofondiamo in qualche altro stato di manōlaya, separiamo completamente noi stessi da essi, ma appena il nostro ego sorge nuovamente nella veglia o nel sogno esso proietta tali aggiunte e le afferra come sé stesso. Quindi per separare permanentemente noi stessi da tutte queste aggiunte dobbiamo annientare questo ego, cosa che possiamo fare solo rivolgendo la nostra intera attenzione all’interno e quindi essendo consapevoli soltanto di noi stessi.

Il nostro ego è ciò che è chiamato cit-jaḍa-granthi, il nodo (granthi) formato dal groviglio di noi stessi, che siamo consapevolezza (cit), con aggiunte come questo corpo fisico, che sono insenzienti (jaḍa), così finché questo ego sopravvive ci legherà a tutte le aggiunte che sembrano essere noi stessi, anche se non sono noi stessi. Quindi non possiamo slacciare o distaccare noi stessi da queste aggiunte solamente pensando che esse non sono ‘io’, perché ciò che pensa che esse non sono ‘io’ è il nostro ego, e questo ego è ciò che ci lega ad esse. Per slegare questo nodo che ci lega ad aggiunte (vale a dire il nostro ego) abbiamo bisogno di separare completamente la nostra consapevolezza da tutti i fenomeni, che sono jaḍa, e il solo modo per separarla è attendere solo a noi stessi e non a qualsiasi altra cosa.

Se invece di cercare di attendere soltanto a noi stessi meditiamo solo sull’idea che il corpo, la mente e altre aggiunte che sembrano essere noi stessi non sono ‘io’, staremo pensando proprio alle cose dalle quali dovremmo separarci, e dunque staremo nutrendo e sostenendo il nostro ego e il suo attaccamento a queste aggiunte. Quindi sebbene per mezzo dell’analisi concettuale chiamata nēti nēti possiamo comprendere che non possiamo essere qualcuno dei fenomeni che sembriamo essere, come questo corpo o la mente rivolta all’esterno, per sperimentare noi stessi come siamo realmente e quindi per liberare noi stessi dall’illusione profondamente radicata che siamo questi fenomeni dobbiamo rivolgere la nostra mente o attenzione all’interno e quindi essere consapevoli soltanto di noi stessi, in completo isolamento da tutte le aggiunte e gli altri fenomeni.

7. Possiamo ignorare tutti i pensieri solo attendendo soltanto a noi stessi

Riguardo la tua osservazione, ‘tu hai usato le parole “semplicemente ignorare il pensare” e “escludere tutti i pensieri” e “ignorare i pensieri” che può implicare forza’, essere attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi e quindi non essere consapevoli di qualsiasi altra cosa è uno stato estremamente sottile e astratto, così nessuna parola può descriverlo adeguatamente, e qualunque parola può essere usata per descriverlo è soggetta ad essere fraintesa, ma se tu hai letto attentamente ciò che ho scritto in quell’articolo, dovresti aver compreso che non intendevo che dovremmo forzatamente cercare di ignorare o escludere tutti i pensieri. Se cerchiamo deliberatamente o direttamente di ignorare qualcosa o di escluderla dalla nostra attenzione, questo sarà ovviamente uno sforzo inutile, perché cercare direttamente di ignorare qualcosa comporta il pensare ad essa, cosa che annulla il nostro vero scopo. Per esempio, se cerchiamo direttamente di ignorare il pensiero di una scimmia, ogni volta che cerchiamo di ignorare quel pensiero staremmo quindi pensando ad esso, così il solo modo per ignorarlo sarebbe pensare a qualcos’altro e quindi dimenticare anche che vogliamo ignorare quel pensiero.

Il contesto in cui ho scritto ‘semplicemente ignorare’ in quell’articolo era quando spiegavo perché non possiamo separare noi stessi dal nostro corpo, mente e altre aggiunte pensando che essi non sono ‘io’, perché pensando ad essi staremmo sostenendo il nostro ego e i suoi attaccamenti ad essi, così ho scritto: ‘Per separarci da essi, li dobbiamo semplicemente ignorare, cosa che possiamo fare realmente solo attendendo esclusivamente a ciò che è realmente ‘io’, vale a dire il nostro essere auto-cosciente’. Ugualmente ciò che ho scritto riguardo l’escludere tutti i pensieri era: ‘Possiamo escludere tutti i pensieri solo attendendo a niente altro che il nostro essere essenziale, che è la sorgente da cui essi sorgono e in cui devono tutti sprofondare. Poiché i pensieri possono sorgere solo quando diamo ad essi attenzione, essi sprofonderanno tutti naturalmente quando manterremo la nostra attenzione fissata esclusivamente nel nostro essenziale essere auto-cosciente ‘io sono’.

Quindi ciò che stavo sostenendo non era che dovremmo fare direttamente qualche sforzo per ignorare o escludere tutti i pensieri ma solo che dovremmo cercare di attendere soltanto a noi stessi, perché quando riusciamo ad attendere solo a noi stessi avremo automaticamente cessato di dare attenzione a qualsiasi altra cosa. Quindi per ignorare il pensare non abbiamo bisogno di usare qualche forza ma solo di avere un profondo e sincero amore per essere attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi.

8. Ciò che Bhagavan intendeva con il termine ‘pensiero’ è un fenomeno mentale di qualsiasi genere

Da ciò che scrivi riguardo il pensiero, come quando ti riferisci ad esso come ‘la mente-bambino piagnucolante’, sembri intendere il termine ‘pensiero’ solo nel significato del futile chiacchierio mentale che abitualmente si muove nella nostra mente ogni volta che non siamo impegnati a dare attenzione a qualsiasi altra cosa, ma quando Bhagavan ha usato qualche termine in Tamil che significa ‘pensiero’ o ‘idea’, ciò che intendeva con questi termini è fenomeni mentali di qualunque genere, e poiché secondo lui tutti i fenomeni che sembrano essere fisici sono realmente solo mentali, proprio come tutti i fenomeni apparentemente fisici che vediamo in un sogno, tutti i fenomeni sono solo pensieri. Questo è il motivo per cui egli ha detto nel quarto paragrafo di Nāṉ Yār?, நினைவுகளைத் தவிர்த்து ஜகமென்றோர் பொருள் அன்னியமா யில்லை’ (niṉaivugaḷai-t tavirttu jagam-eṉḏṟōr poruḷ aṉṉiyamāy illai), che significa ‘Escludendo i pensieri, non c’è separatamente una cosa come il mondo’, e nel quattordicesimo paragrafo ‘ஜக மென்பது நினைவே’ (jagam eṉbadu niṉaivē), che significa ‘Ciò che è chiamato il mondo è solo pensiero’.

È importante che comprendiamo questo, perché molte persone credono che se possono fermare tutto il chiacchierio mentale meditando, stanno con questo fermando tutti i pensieri, che non è così, perché tutti i fenomeni di cui possiamo essere consapevoli sono solo pensieri, ed anche il nostro ego, che è ciò che è consapevole di essi, è anche un pensiero – il nostro pensiero primario chiamato ‘io’, che è la radice e il fondamento di tutti gli altri pensieri. Quindi se cerchiamo di fermare tutti i pensieri, sarebbe il caso di un pensiero (questo ego) che cerca di fermare altri pensieri, ed anche il suo desiderio e lo sforzo di fermare altri pensieri sarebbero anch’essi pensieri, così non possiamo realmente fermare tutti i pensieri se non evitiamo di sorgere come questo ego, quello che vuole fermarli.

Finché sembriamo essere questo ego, saremo consapevoli di pensieri di un tipo o un altro, perché questo ego sembra esistere solo quando è consapevole di cose diverse da sé stesso, e ogni cosa diversa da sé stesso è solo un pensiero. Quindi tutti i pensieri possono cessare solo quando questo ego cessa di esistere, come fa temporaneamente nel sonno o in ogni altro stato di manōlaya, e come fa permanentemente solo nello stato di manōnāśa (annientamento della mente insieme con la sua radice, questo ego).

Quindi il solo modo efficace di liberare permanentemente noi stessi da tutti i pensieri è di annientare il nostro ego, cosa che possiamo fare solo essendo attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi e quindi sperimentando noi stessi come siamo realmente. Se riusciamo a liberare noi stessi dai pensieri con qualche altro mezzo, ciò che risulterà sarà solo uno stato temporaneo di manōlaya, dal quale presto o tardi il nostro ego e i suoi pensieri sorgeranno nuovamente.

9. Non possiamo terminare il pensiero o il processo del pensare dando ad esso attenzione, ma solo attendendo a noi stessi

Tu lasci intendere che per comprendere come possiamo essere liberi dai pensieri dovremmo dar retta a J. Krishnamurti, che secondo te ha insegnato che ‘se la forza è usata per terminare i pensieri, allora la libertà rimarrà sfuggente’, e aggiungi, ‘Sembra che finché il processo del pensiero è realmente conosciuto, realmente compreso, il pensiero persiste. […] Sembra che mentre ascoltiamo attentivamente a qualunque cosa può sorgere, infine il sorgere cessa’.

Prima di considerare queste affermazioni, vale la pena indicare che abbiamo buone ragioni per essere molto scettici riguardo qualunque cosa Krishnamurti può aver detto riguardo i pensieri o il processo del pensiero, perché alcune delle sue affermazioni riguardo ad essi sono palesemente assurde e non reggono ad un esame critico. Per esempio, in Commentaries on Living, Serie 3, capitolo 12, ‘Non C’è Pensatore, Solo Pensiero Condizionato’, egli ha scritto: ‘Il pensiero crea il pensatore; è il processo del pensiero che dà origine al pensatore. Il pensiero viene prima, e dopo il pensatore; non è il contrario’.

Come può questo essere corretto? Ogni pensiero è un prodotto del pensare, e il pensare non potrebbe accadere se non ci fosse uno che sta pensando. Pensare è un’azione, e nessuna azione può avvenire se non c’è qualcosa che la fa, così il risultato di un’azione (vale a dire, in questo caso, il pensiero) non può proprio esistere prima che qualunque cosa abbia fatto quell’azione (vale a dire il pensatore il cui pensare ha prodotto quel pensiero), e quindi il pensiero non può essere ciò che crea il pensatore.

L’affermazione di Krishnamurti che ‘Il pensiero viene prima, e dopo il pensatore’ non solo può essere provata falsa dalla semplice logica, ma è anche del tutto contraria a ciò che Bhagavan ci ha insegnato riguardo il pensiero, come ciò che ha detto nella frase finale del quinto paragrafo di Nāṉ Yār?:
மனதில் தோன்றும் நினைவுக ளெல்லாவற்றிற்கும் நானென்னும் நினைவே முதல் நினைவு. இது எழுந்த பிறகே ஏனைய நினைவுகள் எழுகின்றன. தன்மை தோன்றிய பிறகே முன்னிலை படர்க்கைகள் தோன்றுகின்றன; தன்மை யின்றி முன்னிலை படர்க்கைக ளிரா.

maṉadil tōṉḏṟum niṉaivugaḷ ellāvaṯṟiṟkum nāṉ-eṉṉum niṉaivē mudal niṉaivu. idu eṙunda piṟahē ēṉaiya niṉaivugaḷ eṙugiṉḏṟaṉa. taṉmai tōṉḏṟiya piṟahē muṉṉilai paḍarkkaigaḷ tōṉḏṟugiṉḏṟaṉa; taṉmai y-iṉḏṟi muṉṉilai paḍarkkaigaḷ irā.

Di tutti i pensieri che appaiono nella mente, solo il pensiero chiamato ‘io’ è il primo pensiero. Solo dopo che questo sorge, sorgono altri pensieri. Solo dopo che appare la prima persona, la seconda e la terza persona appaiono; senza la prima persona la seconda e la terza persona non esistono.

Ciò che Bhagavan descrive qui come ‘நானென்னும் நினைவு’ (nāṉ-eṉṉum niṉaivu), che significa letteralmente ‘il pensiero chiamato io’, è il nostro ego, che è il pensatore di tutti gli altri pensieri, e ciò che solo è consapevole della loro esistenza apparente. Poiché altri pensieri sembrano esistere solo nella visione di questo ego, nessuno di essi potrebbe esistere indipendentemente da esso, così è logicamente il primo pensiero e la radice e il fondamento di ogni altro pensiero. Quindi Bhagavan dice che esso è ‘முதல் நினைவு’ (mudal niṉaivu), che significa il pensiero primo, primario, originale, basilare o causale.

Poiché questo ego o primo pensiero chiamato ‘io’ è ciò che è consapevole sia di sé stesso che di tutti i suoi altri pensieri, è il soggetto o prima persona, mentre tutti gli altri pensieri sono oggetti da esso conosciuti, così essi sono seconde e terze persone. Quindi nelle due frasi finali di questo paragrafo Bhagavan dice; ‘Solo dopo che la prima persona [l’ego] appare, la seconda e la terza persona [tutti gli altri pensieri] appaiono; senza la prima persona, la seconda e la terza persona non esistono’.

Egli anche intende questo nella prima frase del verso 7 di Śrī Aruṇācala Aṣṭakam: ‘இன்று அகம் எனும் நினைவு எனில், பிற ஒன்றும் இன்று’ (iṉḏṟu aham eṉum niṉaivu eṉil, piṟa oṉḏṟum iṉḏṟu), che significa ‘Se il pensiero chiamato ‘io’ non esiste, anche un altro non esisterà’. ‘பிற ஒன்றும்’ (piṟa oṉḏṟum) significa ‘anche un altro’, e in questo contesto può significare ‘anche un’altra cosa’ o ‘anche un altro pensiero’, ma entrambi questi significati si equivalgono, perché ogni cosa diversa da noi stessi è solo un pensiero.

Ciò che Bhagavan dice in questa frase e nel suddetto brano di Nāṉ Yār? è in accordo con la nostra esperienza ed è coerente alla logica, perché ogni volta che sorgiamo come questo primo pensiero chiamato ‘io’ o ‘ego’, come nella veglia e nel sogno, altre cose (pensieri o fenomeni) sembrano esistere, e ogni volta che non sorgiamo come questo ‘io’, come nel sonno, niente altro sembra esistere. Quindi non abbiamo sufficienti motivi per credere che ogni pensiero o altra cosa esiste quando non sorgiamo come questo ego, che solo è ciò che è consapevole di tutte queste cose.

Quando Krishnamurti dice, ‘Il pensiero viene prima, e poi il pensatore; non è il contrario’, questo non è in accordo con la nostra esperienza né è coerente alla logica, così perché dovremmo credere in lui? Se crediamo in lui nonostante la completa mancanza di ogni prova di supporto dalla nostra esperienza e nonostante il fatto che la sua affermazione è contraria a tutta la logica, questo nostro credere sarebbe un caso estremo di fede cieca, così poiché lo stesso Krishnamurti fu un fedele critico della fede cieca, secondo i suoi stessi insegnamenti, in queste circostanze non dovremmo credere in lui.

Più avanti nello stesso brano Krishnamurti ha scritto: ‘Percependosi impermanente, insicuro, e desiderando la permanenza, la sicurezza, il pensiero dà origine al pensatore’. Questo significa che il pensiero è senziente, perché se non lo fosse non potrebbe percepire o desiderare qualcosa, ma ogni pensiero è realmente senziente? Il solo pensiero senziente è il nostro ego, perché esso solo è ciò che è consapevole sia di sé stesso che di tutti gli altri pensieri. Nessun altro pensiero è senziente, perché nessun altro pensiero è consapevole di sé stesso o di qualsiasi altra cosa, così non può percepire sé stesso come impermanente o insicuro, né può desiderare la permanenza o la sicurezza.

Ciò che percepisce e desidera qualsiasi cosa è solo il nostro ego, e poiché esso è ciò che proietta ed è consapevole di tutti gli altri pensieri, esso solo è il pensatore. Quindi gli altri pensieri non possono esistere indipendentemente da questo ego, né possono avere origine prima di esso. Questo è il motivo per cui Bhagavan ha ripetutamente indicato che questo ego è il primo pensiero e la radice e il fondamento di ogni altro pensiero.

In questo stesso brano Krishnamurti equipara ripetutamente il ‘pensatore’ con l’osservatore’ e ‘il suo pensiero’ con ‘l’osservato’, che implica (del tutto correttamente) che il pensatore è ciò che è consapevole dei pensieri, ma poiché questo è così, come possiamo giustificare la sua affermazione che ‘Il pensiero viene prima, e poi il pensatore; non è il contrario’? Come può ogni pensiero sorgere prima che ci sia qualcuno che è consapevole di esso? Ogni pensiero esiste indipendentemente dalla nostra consapevolezza di esso? Affermare che ogni pensiero esisteva prima dell’ego, l’’io’ che è ora consapevole di esso, è come affermare che il mondo che abbiamo visto in un sogno esisteva prima che iniziassimo a sognarlo. Come potremmo sapere che qualcosa esisteva prima della nostra consapevolezza di essa? I pensieri esistono solo perché li pensiamo, e pensarli comporta sia il formarli nella nostra mente sia simultaneamente essere consapevoli di essi, perché non potremmo formare alcun pensiero senza essere consapevoli di esso. Quindi come avrebbe potuto esistere qualche pensiero prima di noi stessi, l’’io’ che lo pensa e che è consapevole di esso?

Proprio come egli ha affermato che ‘Il pensiero crea il pensatore’, ha anche affermato che ‘l’osservatore è ancora il prodotto del pensiero’, che implica che l’osservatore è il prodotto di ciò che osserva o di cui è consapevole, o in altre parole che il soggetto è il prodotto dell’oggetto. È vero che l’osservatore è tale solo in relazione a qualunque cosa sta osservando, così se niente fosse osservato non ci sarebbe osservatore come tale, ma questo non giustifica la sua affermazione che ‘Il pensiero viene prima, e poi il pensatore’, perché un pensiero è un pensiero solo perché è pensato e osservato dal pensatore, quello che lo sta pensando e osservando.

Paradossalmente Krishnamurti usava criticare la fede cieca e dire che non dovremmo credere ciecamente a qualunque cosa ci viene detta da qualche religione, guru o altre supposte autorità, sebbene chiunque lo crede un’autorità lo fa così ciecamente, perché se essi pensassero criticamente e indipendentemente, sarebbero in grado di vedere le numerose assurdità logiche e le contraddizioni in ciò che ha scritto e ha detto. Quindi se desideriamo seguire il suo consiglio di non credere ciecamente a qualunque cosa ci è detta da ogni presunta ‘autorità’, dovremmo considerare criticamente qualunque cosa egli ha affermato e giudicare personalmente se esso possa essere vero o no.

Ciò che hai scritto riguardo la lezione che dovremmo imparare da Krishnamurti sembra implicare che egli ha detto qualcosa all'effetto che ‘se la forza è usata per terminare il pensiero, allora la libertà rimane sfuggente’, che ‘finché il processo del pensiero è realmente ascoltato, realmente compreso, il pensare persiste’ e che ‘mentre ascoltiamo attentivamente qualunque cosa può sorgere, infine il sorgere cessa’, così consideriamo queste affermazioni. È vero che non possiamo liberare noi stessi dai pensieri cercando forzatamente di terminarli, perché il nostro sforzo di terminarli sarebbe solo un altro pensiero, e anche l’’io’ che compie un tale sforzo è anche un pensiero. Ma possiamo liberare noi stessi dal pensare soltanto ascoltando realmente il processo del pensiero?

Non è chiaro in questo contesto cosa significa esattamente ‘realmente ascoltando’, ma deve comportare il dare attenzione al processo del pensiero, che è ciò che facciamo ogni volta che stiamo pensando. Così finché stiamo dando attenzione in ogni modo al nostro pensare o ai nostri pensieri, essi non cesseranno, perché come tutti sappiamo dalla nostra esperienza, sono sostenuti dalla nostra attenzione ad essi. Supponiamo, per esempio, che pensiamo ad una mela: finché continuiamo a dare attenzione a quel pensiero esso persiste, e cessa solo quando la nostra attenzione è deviata su qualcos’altro o quando ci addormentiamo. Quindi dare attenzione al pensiero o al processo del pensare non può essere un mezzo per terminarlo.

Riguardo l’affermazione che ‘mentre ascoltiamo attentivamente qualunque cosa può sorgere, infine il sorgere cesserà’, questo non può essere vero per la stessa ragione. Qualunque cosa può sorgere è un pensiero, e i pensieri sorgono e sono sostenuti solo dalla nostra attenzione, così finché diamo attenzione a qualsiasi cosa che sorge il suo sorgere non cesserà.

Come possiamo allora terminare tutti i pensieri? Ovviamente il solo modo è di cessare di dare ad essi attenzione, come facciamo ogni giorno quando ci addormentiamo. Tuttavia, sebbene nel sonno rimaniamo senza alcun pensiero per un po’ di tempo, prima o poi sorgeremo di nuovo come questo ego, e appena facciamo questo proiettiamo e diveniamo consapevoli di altri pensieri, così solamente cessare di dare attenzione ai pensieri non è una soluzione permanente.

Quindi c’è qualche modo in cui possiamo terminare permanentemente tutti i pensieri? Secondo Bhagavan il solo modo non è solamente cessare di dare ad essi attenzione, ma è di attendere solo a noi stessi, questo ego, che è ciò che è consapevole di essi. Sebbene questo ego è esso stesso un pensiero, è del tutto dissimile da tutti gli altri pensieri, perché è il soggetto ed essi sono i suoi oggetti, così mentre tutti gli altri pensieri sono solo fenomeni insenzienti, questo ego è lo sperimentatore senziente di tutti i fenomeni. Inoltre, sebbene gli altri pensieri sorgono e sono sostenuti solo perché questo ego dà ad essi attenzione, questo ego non sorge e non è sostenuto attendendo a sé stesso ma solo dando attenzione ad altri pensieri.

Di fatto questo ego sembra esistere solo finché dà attenzione ed è quindi consapevole di altri pensieri, così appena smette di dare attenzione ad altri pensieri cade nel sonno. Generalmente durante la veglia e il sogno questo ego dà attenzione solo ad altri pensieri, e poiché prende la propria esistenza come scontata, abitualmente non tenta di attendere a sé stesso. Anche quando si addormenta lo fa senza attendere a sé stesso, e questo è il motivo per cui non è per questo annientato.

Poiché esso sembra esistere solo finché dà attenzione a cose diverse da sé stesso, se cerca di attendere a sé stesso inizierà a sprofondare, e quando infine riesce ad attendere soltanto a sé stesso, si dissolverà e scomparirà per sempre, perché esso non esiste realmente ma solamente sembra esistere, e sembra esistere solo perché dà attenzione a cose diverse da sé stesso. Quindi il solo mezzo con cui possiamo annientare questo ego e quindi terminare tutti i pensieri per sempre è cercare di attendere solo a noi stessi, chi ora sembra essere questo ego.

10. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 25: questo ego cesserà di esistere solo quando attenderemo soltanto ad esso

Questo è il grande segreto rivelatoci da Bhagavan, poiché è la chiave essenziale per liberare noi stessi dalla tirannia di questo ego e tutti i suoi pensieri: Questo ego sembra esistere ogni volta che esso dà attenzione a qualsiasi cosa diversa da sé stesso, ma cessa di esistere se esso attende solo a sé stesso. Questo segreto è da lui espresso sinteticamente nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
உருப்பற்றி யுண்டா முருப்பற்றி நிற்கு
முருப்பற்றி யுண்டுமிக வோங்கு — முருவிட்
டுருப்பற்றுந் தேடினா லோட்டம் பிடிக்கு
முருவற்ற பேயகந்தை யோர்.

uruppaṯṟi yuṇḍā muruppaṯṟi niṟku
muruppaṯṟi yuṇḍumiha vōṅgu — muruviṭ
ṭuruppaṯṟun tēḍiṉā lōṭṭam piḍikku
muruvaṯṟa pēyahandai yōr
.

பதச்சேதம்: உரு பற்றி உண்டாம்; உரு பற்றி நிற்கும்; உரு பற்றி உண்டு மிக ஓங்கும்; உரு விட்டு, உரு பற்றும்; தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும், உரு அற்ற பேய் அகந்தை. ஓர்.

Padacchēdam (separazione delle parole): uru paṯṟi uṇḍām; uru paṯṟi niṟkum; uru paṯṟi uṇḍu miha ōṅgum; uru viṭṭu, uru paṯṟum; tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum, uru aṯṟa pēy ahandai. ōr.

அன்வயம்: உரு அற்ற பேய் அகந்தை உரு பற்றி உண்டாம்; உரு பற்றி நிற்கும்; உரு பற்றி உண்டு மிக ஓங்கும்; உரு விட்டு, உரு பற்றும்; தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும். ஓர்.

Anvayam (parole ridispose in ordine naturale di prosa): uru aṯṟa pēy ahandai uru paṯṟi uṇḍām; uru paṯṟi niṟkum; uru paṯṟi uṇḍu miha ōṅgum; uru viṭṭu, uru paṯṟum; tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum. ōr.

Traduzione: Afferrando la forma, l’ego-fantasma senza forma sorge in essere; afferrando la forma esso si regge; afferrando e nutrendosi di forma esso cresce [si diffonde, si espande, aumenta, si innalza o prospera] abbondantemente; lasciando [una] forma, esso afferra [un’altra] forma. Se cercato [esaminato o investigato], esso prenderà il volo. Investiga [o conosci di conseguenza].
Poiché questo ego è un fantasma senza forma, qualunque forma esso afferra è qualcosa diversa da sé stesso, e il solo mezzo con cui può afferrare queste cose è dando attenzione ad esse e quindi essendone consapevole. Quindi la frase ‘உருப்பற்றி’ (uru-p-paṯṟi), che significa letteralmente ‘afferrando la forma’, indica dare attenzione a qualsiasi cosa diversa da sé stesso, così ciò che Bhagavan spiega nelle prime tre frasi di questo verso è che questo ego ha origine, resiste ed è nutrito e prospera dando attenzione a cose diverse da sé stesso.

Poiché questo ego è solo un fantasma senza forma, esso sembra essere una persona (una forma costituita di un corpo vivente e una mente pensante) solo afferrando la forma di quella persona come sé stesso. Cioè, poiché è senza forma, non esiste realmente come un’entità separata, ma lo sembra afferrando la forma di una persona come se quella persona fosse sé stesso. Quindi se esso cessa di afferrare una persona come ‘io’, afferrerà un’altra persona come ‘io’, come Bhagavan intende dicendo, ‘உரு விட்டு, உரு பற்றும்’ (uru viṭṭu, uru paṯṟum), che significa ‘lasciando [una] forma, esso afferra [un’altra] forma’.

Poiché esso non esiste realmente ma solo sembra esistere, e poiché sembra esistere solo finché afferra cose diverse da sé stesso, se cerca di afferrare solo sé stesso perderà la sua presa su altre cose e quindi inizierà a sprofondare e a scomparire. Questo è ciò che Bhagavan intende quando dice, ‘தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும்’ (tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum), che significa ‘Se cercato [esaminato o investigato], esso prenderà il volo’.

Poiché tutti i pensieri sono forme – cose diverse da noi stessi – finché diamo ad esse attenzione o le afferriamo nella nostra consapevolezza, stiamo nutrendo e sostenendo il nostro ego, e questo ego a sua volta nutre e sostiene i suoi pensieri e le sue tendenze a continuare a pensare. Quindi contrariamente a ciò che J Krishnamurti e qualche altro afferma, non possiamo mai liberare noi stessi dai pensieri osservandoli, guardandoli, testimoniandoli o dando ad essi attenzione. Il solo modo per liberare noi stessi da tutti i pensieri, inclusa la loro radice, questo ego, è di cercare di guardare, osservare, testimoniare o attendere solo a noi stessi, che siamo ciò che ora sembra essere questo ego.

Poiché ogni cosa che non è ‘io’, incluse tutte le aggiunte come il corpo e la mente che costituiscono qualunque persona ora sembriamo essere, è solo un pensiero, meditando o pensando che tali cose non sono ‘io’ non può essere un mezzo per separare noi stessi da esse, perché ciò che pensa questo è solo il nostro ego, e pensando a qualsiasi cosa esso nutre e sostiene sé stesso. Cioè, poiché questo ego sembra esistere solo afferrando la forma di una persona come sé stesso, e poiché nutre e sostiene sé stesso pensando o afferrando altri pensieri, se esso pensa ‘io non sono questa persona o qualcuno dei costituenti di questa persona’ starà semplicemente sostenendo sé stesso e i suoi attaccamenti a questa persona, così esso non può mai separare sé stesso da tutte queste cose che non sono ‘io’.

Ciò che ha attaccato sé stesso a queste aggiunte è il nostro ego, e se esso lascia andare una di queste aggiunte ne afferrerà un’altra, così il solo modo per separare permanentemente noi stessi da tutte le aggiunte è distruggere questo ego, cosa che possiamo fare solo cercando di attendere soltanto a noi stessi.

11. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 36: pensare ‘io non sono questo corpo ma solo brahman’ è soltanto un aiuto preliminare

Ora siamo consapevoli di noi stessi come se fossimo questo corpo fisico e altre aggiunte associate, e ogni volta che sorgiamo come questo ego siamo consapevoli di noi stessi come una simile serie di aggiunte, come siamo, per esempio, ogni volta che sogniamo. Quindi la vera natura di noi stessi come questo ego è di essere consapevole di noi stessi come se fossimo una serie di aggiunte costituite da un corpo e qualunque altra aggiunta che costituisce la persona associata con esso.

Tuttavia, sembriamo essere una persona solo nella veglia e nel sogno, ma in ciascuno di questi stati siamo consapevoli di noi stessi come un corpo differente, e nel sonno siamo consapevoli di noi stessi senza essere consapevoli di noi stessi come un corpo o una persona, e di conseguenza senza essere consapevoli di qualsiasi altra cosa. Quindi poiché siamo sempre consapevoli di noi stessi sia che siamo consapevoli di noi stessi come un corpo o una persona o meno, non possiamo essere alcuna delle aggiunte che sembriamo essere nella veglia o nel sogno ma che non sembriamo essere nel sonno, così per essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente abbiamo bisogno di separarci da tutte le aggiunte cercando di essere consapevoli soltanto di noi stessi.

Affinché possiamo comprendere questo e quindi cercare di attendere soltanto a noi stessi, è necessario essere fermamente convinti che non possiamo essere alcuna delle aggiunte che ora sembriamo essere, così riflettere su tali questioni per stabilire e rafforzare la nostra convinzione che non siamo qualunque cosa sembriamo essere nella veglia o nel sogno è un aiuto necessario per poter intraprendere il sentiero di auto-investigazione (ātma-vicāra). Tuttavia, pensare che siamo solo pura auto-consapevolezza e non questo corpo e qualche altra aggiunta transitoria che possiamo sembrare essere non può in sé stesso metterci in grado di sperimentare ciò che siamo realmente, perché finché pensiamo a qualsiasi cosa, stiamo con questo nutrendo e sostenendo il nostro ego e quindi ci stiamo impedendo di essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente. Quindi nel verso 36 di Uḷḷadu Nāṟpadu Bhagavan dice che sebbene pensare che non siamo questo corpo ma solo quella pura auto-consapevolezza è un aiuto, non dovremmo continuare a pensare sempre a questo:
நாமுடலென் றெண்ணினல நாமதுவென் றெண்ணுமது
நாமதுவா நிற்பதற்கு நற்றுணையே — யாமென்று
நாமதுவென் றெண்ணுவதே னான்மனித னென்றெணுமோ
நாமதுவா நிற்குமத னால்.

nāmuḍaleṉ ḏṟeṇṇiṉala nāmaduveṉ ḏṟeṇṇumadu
nāmaduvā niṟpadaṟku naṯṟuṇaiyē — yāmeṉḏṟu
nāmaduveṉ ḏṟeṇṇuvadē ṉāṉmaṉida ṉeṉḏṟeṇumō
nāmaduvā niṟkumada ṉāl
.

பதச்சேதம்: நாம் உடல் என்று எண்ணின், ‘அலம், நாம் அது’ என்று எண்ணும் அது நாம் அதுவா நிற்பதற்கு நல் துணையே ஆம். என்றும் ‘நாம் அது’ என்று எண்ணுவது ஏன்? ‘நான் மனிதன்’ என்று எணுமோ? நாம் அதுவா நிற்கும் அதனால்.

Padacchēdam (separazione delle parole): nām uḍal eṉḏṟu eṇṇiṉ, ‘alam, nām adu’ eṉḏṟu eṇṇum adu nām adu-v-ā niṟpadaṟku nal tuṇai-y-ē ām. eṉḏṟum ‘nām adu’ eṉḏṟu eṇṇuvadu ēṉ? ‘nāṉ maṉidaṉ’ eṉḏṟu eṇumō? nām adu-v-ā niṟkum adaṉāl.

அன்வயம்: நாம் உடல் என்று எண்ணின், ‘அலம், நாம் அது’ என்று எண்ணும் அது நாம் அதுவா நிற்பதற்கு நல் துணையே ஆம். நாம் அதுவா நிற்கும் அதனால், என்றும் ‘நாம் அது’ என்று எண்ணுவது ஏன்? ‘நான் மனிதன்’ என்று எணுமோ?

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): nām uḍal eṉḏṟu eṇṇiṉ, ‘alam, nām adu’ eṉḏṟu eṇṇum adu nām adu-v-ā niṟpadaṟku nal tuṇai-y-ē ām. nām adu-v-ā niṟkum adaṉāl, eṉḏṟum ‘nām adu’ eṉḏṟu eṇṇuvadu ēṉ? ‘nāṉ maṉidaṉ’ eṉḏṟu eṇumō?

Traduzione: Se pensiamo che siamo un corpo, pensare ‘No, noi siamo quello’, sarà per noi solo un buon aiuto per dimorare come quello. [Tuttavia] poiché dimoriamo [o esistiamo costantemente] come quello, perché [dovremmo] pensare sempre ‘noi siamo quello’? Forse uno pensa ‘io sono un uomo’ [cioè, uno ha bisogno sempre di pensare ‘io sono un uomo’ per sperimentare sé stesso come un uomo]?
In questo verso அலம் (alam), che significa ‘no’, implica ‘no, noi non siamo questo corpo’, e அது (adu), che significa ‘quello’, si riferisce a brahman, la realtà fondamentale o ciò che realmente è, che è il nostro sé reale, la cui natura è solo prajñāna o pura auto-consapevolezza. ‘நாம் அதுவா நிற்பதற்கு நல் துணையே’ (nām aduvā niṟpadaṟku nal tuṇaiyē) significa ‘solo un buon aiuto per noi per dimorare come quello’ e implica ‘solo un buon aiuto per ricordarci e incoraggiarci a dimorare come quello’.

Tuttavia meditare ‘No, io non sono questo corpo, io sono brahman’ è solo un aiuto preliminare e non dovrebbe essere continuato per sempre, perché una volta che siamo fermamente convinti che non siamo questo corpo ma solo pura auto-consapevolezza, dovremmo solo cercare di rimanere fermamente come siamo senza sorgere a pensare o a meditare qualcosa. Poiché ciò che siamo realmente è solo pura auto-consapevolezza – cioè, consapevolezza intransitiva, consapevolezza che non è consapevole di qualsiasi altra cosa tranne sé stessa – possiamo dimorare o rimanere come siamo realmente solo attendendo a noi stessi e a niente altro.

12. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 29: pensare ‘io non sono questo, io sono quello’ è un aiuto ma non è vicāra

Come Bhagavan spiega nel verso 29 di Uḷḷadu Nāṟpadu, il sentiero di jñāna (il mezzo per sperimentare ātma-jñāna o vera auto-conoscenza) è solo ātma-vicāra, che comporta investigare sé stessi, la sorgente da cui questo ego sorge come ‘io’:
நானென்று வாயா னவிலாதுள் ளாழ்மனத்தா
னானென்றெங் குந்துமென நாடுதலே — ஞானநெறி
யாமன்றி யன்றிதுநா னாமதுவென் றுன்னறுணை
யாமதுவி சாரமா மா.

nāṉeṉḏṟu vāyā ṉavilāduḷ ḷāṙmaṉattā
ṉāṉeṉḏṟeṅ gundumeṉa nāḍudalē — ñāṉaneṟi
yāmaṉḏṟi yaṉḏṟidunā ṉāmaduveṉ ḏṟuṉṉaṟuṇai
yāmaduvi cāramā mā
.

பதச்சேதம்: ‘நான்’ என்று வாயால் நவிலாது, உள் ஆழ் மனத்தால் ‘நான்’ என்று எங்கு உந்தும் என நாடுதலே ஞான நெறி ஆம். அன்றி, ‘அன்று இது, நான் ஆம் அது’ என்று உன்னல் துணை ஆம்; அது விசாரம் ஆமா?

Padacchēdam (separazione delle parole): ‘nāṉ’ eṉḏṟu vāyāl navilādu, uḷ āṙ maṉattāl ‘nāṉ’ eṉḏṟu eṅgu undum eṉa nāḍudal-ē ñāṉa-neṟi ām. aṉḏṟi, ‘aṉḏṟu idu, nāṉ ām adu’ eṉḏṟu uṉṉal tuṇai ām; adu vicāram āmā?

அன்வயம்: .‘நான்’ என்று வாயால் நவிலாது, உள் ஆழ் மனத்தால் ‘நான்’ என்று எங்கு உந்தும் என நாடுதலே ஞான நெறி ஆம்; அன்றி, ‘நான் இது அன்று, [நான்] அது ஆம்’ என்று உன்னல் துணை ஆம்; அது விசாரம் ஆமா?

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): ‘nāṉ’ eṉḏṟu vāyāl navilādu, uḷ āṙ maṉattāl ‘nāṉ’ eṉḏṟu eṅgu undum eṉa nāḍudal-ē ñāṉa neṟi ām; aṉḏṟi, ‘nāṉ idu aṉḏṟu, [nāṉ] adu ām’ eṉḏṟu uṉṉal tuṇai ām; adu vicāram āmā?

Traduzione: Senza dire ‘io’ con la bocca, solo investigare con una mente che affonda interiormente dove uno sorge come ‘io’ è il sentiero di jñāna. Invece, pensare ‘[io sono] non questo, io sono quello’ è un aiuto, [ma] è esso vicāra [auto-investigazione]?
La frase ‘நான் என்று எங்கு உந்தும்’ (nāṉ eṉḏṟu eṅgu undum) significa ‘dove uno sorge come io’ o ‘dove esso [questo ego] sorge come io’ e quindi si riferisce al nostro sé reale, che è la sorgente da cui siamo sorti come questo ego. மனத்தால் (maṉattāl) è una forma strumentale di மனம் (maṉam), che significa ‘mente’, così ‘உள் ஆழ் மனத்தால்’ (uḷ āṙ maṉattāl) significa ‘con una mente che affonda [si immerge, si tuffa o che penetra] interiormente’ e descrive lo strumento con cui dobbiamo investigare noi stessi. Cioè, per investigare ciò che siamo realmente la nostra mente o attenzione deve penetrare e affondare profondamente dentro noi stessi. Così finché le permettiamo di uscire fuori anche minimamente verso qualsiasi cosa diversa da noi stessi non possiamo sperimentare ciò che siamo realmente, così per investigare e quindi sperimentare noi stessi come siamo realmente dobbiamo rivolgere la nostra intera mente all’interno per penetrare profondamente in noi stessi. Investigare noi stessi in questo modo, dice Bhagavan, è soltanto ‘ஞான நெறி’ (ñāṉa neṟi), il ‘sentiero di jñāna’ o mezzo con cui possiamo sperimentare ātma-jñāna (chiara conoscenza o consapevolezza di noi stessi come siamo realmente).

Invece di investigare noi stessi in questo modo con la nostra intera mente o attenzione focalizzata solamente su noi stessi, se galleggiamo solo in superficie pensando ‘io non sono questo, io sono quello’, questa non è auto-investigazione (ātma-vicāra), ma è solo un aiuto preliminare a questa investigazione. Nella doppia proposizione ‘அன்று இது, நான் ஆம் அது’ (aṉḏṟu idu, nāṉ ām adu), che significa letteralmente ‘non questo, io sono quello’ e che quindi implica ‘io non sono questo, io sono quello’, இது (idu) o ‘questo’ si riferisce a questa persona costituita da un corpo e una mente che ora sembriamo essere, mentre அது (adu) o ‘quello’ si riferisce a ciò che siamo realmente, che è solo pura auto-consapevolezza, che è ciò che è chiamato brahman, quello che solo è reale.

La frase finale di questo verso, ‘அது விசாரம் ஆமா?’ (adu vicāram āmā?), è una domanda retorica che significa ‘è esso vicāra?’, che implica che pensare ‘io non sono questo, io sono quello’ non è ātma-vicāra o auto-investigazione e non è quindi ஞான நெறி (ñāṉa neṟi), il sentiero di jñāna o mezzo con cui possiamo sperimentare la chiara consapevolezza di noi stessi come siamo realmente.

13. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 32: aggrapparsi a tali aiuti è dovuto a ‘difetto di forza’

Sebbene pensare ‘io non sono questo, io sono quello’ è un aiuto, se continuiamo ripetutamente a pensare in questo modo anche dopo aver compreso perché non possiamo essere qualsiasi cosa diversa dalla pura auto-consapevolezza, questo è dovuto a un’insufficiente forza di chiara convinzione che siamo solo quello e non queste aggiunte, e alla conseguente mancanza di sufficiente forza di amore e determinazione per investigare noi stessi e quindi sperimentare noi stessi come siamo realmente, come Bhagavan spiega nel verso 32 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
அதுநீயென் றம்மறைக ளார்த்திடவுந் தன்னை
யெதுவென்று தான்றேர்ந் திராஅ — ததுநா
னிதுவன்றென் றெண்ணலுர னின்மையினா லென்று
மதுவேதா னாயமர்வ தால்.

adunīyeṉ ḏṟammaṟaiga ḷārttiḍavun taṉṉai
yeduveṉḏṟu tāṉḏṟērn dirāa — dadunā
ṉiduvaṉḏṟeṉ ḏṟeṇṇalura ṉiṉmaiyiṉā leṉḏṟu
maduvētā ṉāyamarva dāl
.

பதச்சேதம்: ‘அது நீ’ என்று அம் மறைகள் ஆர்த்திடவும், தன்னை எது என்று தான் தேர்ந்து இராது, ‘அது நான், இது அன்று’ என்று எண்ணல் உரன் இன்மையினால், என்றும் அதுவே தான் ஆய் அமர்வதால்.

Padacchēdam (separazione delle parole): ‘adu nī’ eṉḏṟu a-m-maṟaigaḷ ārttiḍavum, taṉṉai edu eṉḏṟu tāṉ tērndu irādu, ‘adu nāṉ, idu aṉḏṟu’ eṉḏṟu eṇṇal uraṉ iṉmaiyiṉāl, eṉḏṟum aduvē tāṉ-āy amarvadāl.

அன்வயம்: ‘அது நீ’ என்று அம் மறைகள் ஆர்த்திடவும், அதுவே தான் ஆய் என்றும் அமர்வதால், தன்னை எது என்று தான் தேர்ந்து இராது, ‘அது நான், இது அன்று’ என்று எண்ணல் உரன் இன்மையினால்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): ‘adu nī’ eṉḏṟu a-m-maṟaigaḷ ārttiḍavum, adu-v-ē tāṉ-āy eṉḏṟum amarvadāl, taṉṉai edu eṉḏṟu tāṉ tērndu irādu, ‘adu nāṉ, idu aṉḏṟu’ eṉḏṟu eṇṇal uraṉ iṉmaiyiṉāl.

Traduzione: Quando i Vēda dichiarano ‘quello sei tu’, invece di conoscere ed essere sé stessi [investigando] cosa [sono io], pensare ‘io sono quello, non questo’ è dovuto a difetto di forza, perché quello stesso esiste sempre come sé stessi.
Come nei due versi precedenti che abbiamo considerato, in questo verso அது (adu) o ‘quello’ si riferisce a brahman, l’unica realtà fondamentale, che è solo pura auto-consapevolezza e che è ciò che siamo realmente, mentre இது (idu) o ‘questo’ si riferisce a qualunque corpo, mente e altre aggiunte associate che ora sembriamo essere. Quando i Vēda ci dicono ‘tat tvam asi’, che significa ‘quello sei tu’ e che implica che noi siamo brahman, la nostra reazione immediata dovrebbe essere investigare ‘cosa sono io?’

Cioè, quando all’inizio sentiamo di Dio o brahman, presumiamo naturalmente che questi termini si riferiscono a qualcosa diversa da noi stessi, così se vogliamo conoscere di più riguardo qualunque cosa a cui essi si riferiscono, cerchiamo conoscenza riguardo a questo all’esterno di noi. Comunque ciò a cui questi termini di riferiscono realmente è solo noi stessi come siamo realmente, così non possiamo trovarlo al di fuori di noi ma solo investigando soltanto noi stessi per essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente. Quindi la ragione per cui i Vēda ci dicono ‘quello sei tu’ è per rivolgere la nostra attenzione verso noi stessi, lontano da tutte le altre cose, così quando sentiamo che noi siamo quello, dovremmo riflettere all’interno di noi: ‘Se io sono quello, allora posso conoscere ciò che quello è realmente solo investigando cosa io stesso sono realmente’. In altre parole, dovremmo comprendere che possiamo conoscere quello solo investigando noi stessi e quindi essendo consapevoli di noi stessi come siamo realmente.

Poiché noi siamo quello, perché sembriamo non essere consapevoli di noi stessi come quello? Ora sembriamo essere questa persona costituita di un corpo e una mente, così come è sorta questa falsa consapevolezza di noi stessi? Nel sonno non eravamo consapevoli di noi stessi come un corpo o una mente, ma nella veglia e nel sogno siamo consapevoli di noi stessi come tali. Una delle differenze fondamentali tra la veglia e il sogno da una parte e il sonno dall’altra è che nella veglia e nel sogno siamo consapevoli di cose diverse da noi stessi, mentre nel sonno siamo consapevoli di nient’altro che noi stessi, così siamo consapevoli di noi stessi come un corpo e una mente ogni volta che siamo consapevoli di qualcosa diversa da noi stessi. Quindi possiamo dedurre che finché siamo consapevoli di cose diverse da noi stessi non possiamo essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente, così per essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente dobbiamo cercare di attendere solo a noi stessi e quindi cessare di essere consapevoli di qualsiasi altra cosa.

Se discriminiamo in questo modo, saremo in grado di comprendere che sebbene è necessario essere fermamente convinti che siamo solo pura auto-consapevolezza e non qualche fenomeno (perché tutti i fenomeni, inclusi qualunque corpo e mente possiamo temporaneamente sembrare, sono solo apparenze transitorie, mentre noi duriamo sia che essi appaiano o meno), non possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente finché continuiamo a pensare ‘io non sono questo, io sono quello’, perché pensando a ciò che non siamo, o anche pensando a ciò che siamo, stiamo permettendo alla nostra attenzione di allontanarsi da noi stessi verso qualcos’altro. Cioè, ogni pensiero o idea è solo un’altra apparenza transitoria, così pensare a qualsiasi cosa è distogliere la nostra attenzione lontano da noi stessi, e finché la nostra attenzione è distolta anche minimamente da noi stessi non possiamo sperimentarci come la pura auto-consapevolezza che siamo realmente.

Quando i Vēda ci dicono ‘quello sei tu’, il loro fine non è incoraggiarci a pensare a ‘quello’ ma è rivolgere la nostra attenzione verso noi stessi soltanto. Cioè, ogni pensiero o idea riguardo a ‘quello’ o brahman non è ciò che siamo realmente, perché i pensieri compaiono o scompaiono, mentre noi siamo l’auto-consapevolezza fondamentale e sempre-durevole da cui essi compaiono e in cui scompaiono. Quindi pensare a qualunque pensiero, anche un pensiero riguardo a Dio o a brahman o ciò che siamo realmente, non può essere un mezzo con cui possiamo essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente.

Quindi in questo verso Bhagavan dice che poiché quello (brahman o Dio) sempre esiste come sé stessi, invece di investigare cosa sono io e quindi conoscere ed essere ciò che si è realmente, pensare ‘io sono quello, non questo’ è dovuto a ‘உரன் இன்மை’ (uraṉ iṉmai), che significa ‘non-esistenza di forza’ o ‘difetto di forza’. La forza a cui egli si riferisce qui è la forza della chiara comprensione e ferma convinzione che noi siamo quello e non questo, e la conseguente forza di determinazione e amore per cercare di essere attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi.

Come ho citato nella prima sezione di questo articolo, Bhagavan e certi antichi testi hanno fornito varie spiegazioni e indicazioni per aiutarci a rivolgere la nostra attenzione interiormente per fissarla soltanto su noi stessi, ma dovremmo comprendere che tutte queste spiegazioni e indicazioni sono intese solo come aiuti, e nessun aiuto può essere la reale pratica di auto-investigazione. Quindi dovremmo usare questi aiuti saggiamente per aiutarci nel nostro persistente sforzo di essere fermamente auto-attentivi, ma poiché ogni aiuto è qualcosa diversa da noi stessi, dovremmo comprendere che questi aiuti possono condurci solo alla porta del nostro cuore, per così dire, e non possono accompagnarci più avanti, così per essere realmente auto-attentivi dobbiamo lasciare alla porta tutti gli aiuti. Invece di fare questo, se ci aggrappiamo agli aiuti non saremo mai in grado di procedere oltre la porta, così Bhagavan dice che aggrapparsi a qualche aiuto è dovuto a ‘difetto di forza’ o mancanza di vero amore per essere attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi.

14. Nāṉ Yār? paragrafo 2: solo la consapevolezza che si mantiene isolata da ogni altra cosa è ‘io’

Riguardo il tuo secondo commento, in cui chiedi riguardo la parte di Nāṉ Yār? (Chi sono io?) in cui sono elencate varie aggiunte e dichiarate essere ‘non io’, ti prego di leggere la mia introduzione a questo testo, in cui spiego come questa parte fu inclusa in esso. Come ho spiegato, questa parte non fu realmente ciò che disse Bhagavan, ma fu aggiunta da Sivaprakasam Pillai, perché questo era ciò che aveva imparato quando studiava filosofia, e questo lo aiutò a comprendere la risposta molto sintetica che Bhagavan diede alla sua prima domanda ‘Chi sono io?’.

Il testo a cui ti riferisci è una traduzione Inglese della versione contenente ventotto domane e risposte, che è un adattamento successivo di una delle prime versioni, che contenevano trenta domande e risposte e undici paragrafi miscellanei, e che Bhagavan aveva riscritto come un saggio costituito da venti paragrafi. Poiché riscrivendolo egli aveva apportato cambiamenti e miglioramenti significativi al primo testo, e poiché alcuni devoti credevano che una versione a domande e risposte sarebbe stata più popolare del saggio scritto da lui, decisero di revisionare la prima versione a domande e risposte ed incorporare in essa molti dei cambiamenti fatti da lui, e in questo modo formarono la versione contenente ventotto domane e risposte, che è stata pubblicata per la prima volta nel 1932, circa cinque anni dopo che Bhagavan aveva scritto il saggio.

Nel 1922 o 23, quando gli fu mostrata per la prima volta la bozza di una compilazione di alcune domande e risposte che Sivaprakasam Pillai aveva registrato nel 1901 o poco dopo, e che aveva programmato di includere come un’appendice a un poema biografico che aveva scritto su di lui, Bhagavan sottolineò che la parte a cui ti riferisci non era ciò che egli aveva detto ma era stata aggiunta da Sivaprakasam Pillai per proprio chiarimento, ma più tardi quando scrisse la versione saggio decise di mantenere questa parte nel secondo paragrafo, ed evidenziò in neretto le risposte che realmente aveva dato alle prime due domande di Sivaprakasam Pillai. La prima domanda che egli aveva chiesto fu ‘நானார்?’ (nāṉ-ār?), che significa ‘io sono chi?’ o ‘chi sono io?’, a cui Bhagavan rispose ‘அறிவே நான்’ che significa ‘solo consapevolezza è io’, e la sua seconda domanda fu ‘அறிவின் சொரூப மென்ன?’ (aṟiviṉ sorūpam eṉṉa?), che significa ‘cos’è la natura della consapevolezza’, a cui Bhagavan rispose ‘சச்சிதானந்தம்’ (saccidāṉandam), che significa ‘essere-consapevolezza-beatitudine’ (sat-cit-ānanda).

Dalla parte che Sivaprakasam Pillai ha aggiunto, vale a dire la serie delle affermazioni all’effetto che il corpo fisico, i cinque organi di senso, i cinque organi dell’azione, i cinque ‘venti’ o energie vitali, la mente e l’’ignoranza’ o assenza di fenomeni e azioni che è sperimentata nel sonno, non sono ‘io’, e la proposizione relativa che egli ha aggiunto alla parola அறிவே (aṟivē) o ‘consapevolezza’ nella prima risposta di Bhagavan, vale a dire ‘மேற்சொல்லிய யாவும் நானல்ல, நானல்ல வென்று நேதிசெய்து தனித்து நிற்கும்’ (mēṟ-colliya yāvum nāṉ-alla, nāṉ-alla v-eṉḏṟu nēti-seydu taṉittu niṟkum), che significa ‘che resta isolato [avendo] eliminato ogni cosa menzionata sopra come non io, non io’, tu deduci che ‘il documento loda “neti-neti”’, che dici ‘presenta una contraddizione apparente’, perché successivamente nella prima frase della sua risposta alla domanda 12, che è l’ottavo paragrafo nel suo saggio (parte del quale ho citato sopra nella sezione 6), egli dice che non c’è mezzo adeguato tranne che vicāra.

Qui non c’è realmente contraddizione, perche contrariamente a ciò che tu sembri aver dedotto, nel secondo paragrafo la parte aggiunta da Sivaprakasam Pillai e mantenuta da Bhagavan non dice realmente che ‘nēti nēti’ o pensare che questo corpo e altre aggiunte associate non sono io è un mezzo adeguato per eliminarli o separare noi stessi da essi. Tutto ciò che è detto nella penultima frase di quel paragrafo è ‘மேற்சொல்லிய யாவும் நானல்ல, நானல்ல வென்று நேதிசெய்து தனித்து நிற்கும் அறிவே நான்’ (mēṟ-colliya yāvum nāṉ-alla, nāṉ-alla v-eṉḏṟu nēti-seydu taṉittu niṟkum aṟivē nāṉ), che significa ‘Eliminando ogni cosa menzionata sopra come non io, non io, solo la consapevolezza che resta isolata è io’. Il mezzo con cui possiamo isolare noi stessi da tutte le aggiunte menzionate nelle frasi precedenti di quel paragrafo e quindi eliminarle come non ‘io’ non è qui specificato, ma altrove in questo testo (come nella prima frase dell’ottavo paragrafo, a cui ti riferisci) egli spiega ripetutamente che il solo mezzo adeguato per separare noi stessi da ogni altra cosa e quindi sperimentare noi stessi come siamo realmente è investigare soltanto noi stessi.

Ciò che siamo realmente è solo pura auto-consapevolezza, come egli dice qui, e possiamo sperimentare questa consapevolezza come realmente è solo quando resta isolata da ogni altra cosa, così poiché non possiamo isolare la nostra consapevoelzza da tutte le aggiunte che sembrano essere noi stessi finché pensiamo ad esse, pensando che esse non sono ‘io’ non è il mezzo per eliminarle come non ‘io’. Per eliminarle come non ‘io’ abbiamo bisogno di isolare completamente noi stessi da esse, e per isolare noi stessi abbiamo bisogno di attendere solo a noi stessi.

Quindi ciò che Bhagavan ci insegna in Nāṉ Yār? e in altri testi in cui esprime i principi basilari dei suoi insegnamenti in modo sistematico, come Uḷḷadu Nāṟpadu e Upadēśa Undiyār, non è affatto incoerente e non contiene alcuna contraddizione, perché se comprendiamo questi testi correttamente riconosceremo che i principi che egli insegna in essi formano un insieme singolo e logicamente coerente. Uno dei principi più fondamentali e cruciali che egli ci insegna in questi testi e altrove è che sembriamo essere questo ego o mente solo quando diamo attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi, e che dando attenzione ad altre cose nutriamo e sostieniamo questo ego, così possiamo eliminarlo e quindi essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente solo essendo attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi.

Poiché la natura di questo ego è quella di proiettare e sperimentare sé stesso come un corpo e una mente, non possiamo eliminare permanentemente queste aggiunte dalla nostra consapevolezza senza eliminare questo ego, e poiché questo ego è solo una falsa consapevolezza di noi stessi, il solo modo per eliminarlo è di essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente, che possiamo essere solo quando siamo consapevoli soltanto di noi stessi, in completo isolamento da ogni altra cosa. Quindi, poiché l’auto-investigazione (ātma-vicāra) comporta solo essere attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi, astenendoci dal dare attenzione a qualunque altra cosa, è il solo mezzo con cui possiamo isolare completamente noi stessi, eliminando o escludendo ogni altra cosa dalla nostra consapevolezza, e quindi essendo consapevoli di noi stessi come siamo realmente.

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