Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

domenica 17 luglio 2016

Asparśa yōga è la pratica di non ‘toccare’ o non dare attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi

Michael James

13 Luglio 2016
Asparśa yōga is the practice of not ‘touching’ or attending to anything other than oneself

In un commento al mio articolo precedente, Nomi e forme sono solo pensieri, così possiamo liberarci da essi solo investigando la loro radice, il nostro ego, un amico di nome Roger ha citato estratti da due versi di Māṇḍūkya Kārikā, vale a dire il 3.44 e il 3.46, dicendo che la pratica che Gaudapada descrive in essi è simile a ciò che egli sta praticando, e dopo aver scritto alcune riflessioni su questa pratica egli ha invitato me o qualcun altro a commentare ciò che egli aveva scritto, così questo articolo è la mia risposta al suo invito ed è quindi indirizzata a lui.
  1. Attendere solo a noi stessi e quindi isolare sé stessi da ogni altra cosa è ciò che Gaudapada chiama asparśa yōga
  2. Asparśa yōga comporta il non toccare i pensieri o manōlaya
  3. Dovremmo cercare di essere auto-attentivi sia che i nostri occhi sono aperti sia che sono chiusi
  4. Tutti i mondi cessano di comparire solo quando il nostro ego sprofonda completamente
  5. Ogni cosa che sorge o compare nella nostra consapevolezza è una proiezione del nostro ego, che è il primo a sorgere
  6. Il nostro fine non è sperimentare immobilità ma solo essere attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi
  7. L’intensa curiosità di essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente focalizzerà la nostra attenzione su noi stessi, trattenendola da toccare qualsiasi altra cosa
  8. Ātma-vicāra non è chiedere qualche domanda o pensare qualche pensiero ma solo mantenere la propria mente fissata fermamente su noi stessi
  9. Ātma-jñāna è il solo stato reale ed è immutabile e indivisibile, così non ci sono stadi di esso o stati diversi da esso
  10. Siamo già reali, così non abbiamo bisogno di ‘realizzare’ noi stessi
  11. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 40: la liberazione è la distruzione del nostro ego, la sola causa di tutte le differenze


1. Attendere solo a noi stessi e quindi isolare sé stessi da ogni altra cosa è ciò che Gaudapada chiama asparśa yōga

I versi 3.44 e 3.46 di Māṇḍūkya Kārikā sono parte di una serie di versi in cui Gaudapada spiega ciò che egli chiama asparśa yōga nel verso 3.39 (che è un termine che ripete nel verso 4.2, nel commentario in cui Sankara dice che è lo yōga insegnato nella filosofia advaita e che è della stessa natura di brahman). Il termine asparśa yōga significa letteralmente ‘unione che non tocca’ o ‘unirsi senza contatto’, così è una critica sottile al termine yōga, perché yōga significa unire o unione, che è l’unione di due o più cose e quindi comporta il contatto tra essi, mentre asparśa significa non-toccare o non-contatto e quindi esclude la possibilità di qualsiasi unione in senso letterale.

Spesso ci si riferisce alla pratica spirituale come ‘yōga’ perché il fine di ogni pratica spirituale è considerata generalmente l’unione con Dio o con qualunque cosa è in definitiva reale, ma secondo la filosofia advaita siamo già quello, così non abbiamo bisogno di unirci con esso. Tuttavia, poiché al tempo di Gaudapada ‘yōga’ era un termine popolare usato per riferirsi ad ogni tipo di pratica spirituale, egli si è adattato alla consuetudine del tempo di descrivere la pratica spirituale dell’advaita come uno yōga, ma lo ha distinto da tutti gli altri generi di yōga chiamandolo asparśa yōga, lo yōga di non toccare o contattare qualsiasi cosa. Sebbene sparśa significa letteralmente tocco o contatto, e quindi asparśa significa non toccare o contattare, in questo contesto asparśa non significa solamente non toccare o contattare fisicamente qualcosa, ma non toccare o contattare mentalmente qualcosa. In altre parole asparśa yōga è la pratica spirituale di ritirare la nostra mente o attenzione dal contatto con qualsiasi cosa diversa da noi stessi.

Perché è necessario per noi evitare di toccare qualsiasi cosa con la nostra mente? Dando attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi ci stiamo attaccando sottilmente ad essa, così per distruggere tutti gli attaccamenti a qualsiasi cosa diversa da noi stessi dobbiamo astenerci anche dal minimo contatto mentale con qualunque cosa. Ogni cosa diversa da noi stessi è un’apparenza illusoria e quindi irreale, così dando attenzione a queste cose stiamo attaccando noi stessi a ciò che è irreale. Poiché ciò che è reale è solo noi stessi, se evitiamo di toccare mentalmente e quindi attaccare noi stessi all’apparenza irreale di qualunque altra cosa, rimarremo in ciò che è reale, perché siamo sempre quello e quindi non possiamo mai separarci da esso.

Rimanere come siamo realmente non toccando mentalmente o non dando attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi è metaforicamente ‘unirsi’ con ciò che siamo sempre realmente, così in un senso metaforico questa pratica spirituale dell’advaita è yōga, ma poiché è uno ‘yōga’ che realmente non comporta l’unirsi con qualsiasi diversa da noi stessi e neppure toccarla, Gaudapada lo chiama lo yōga di non-toccare (asparśa). Poiché c’è solo una cosa che esiste realmente, vale a dire noi stessi (ātman or brahman), non c’è niente altro che noi stessi da cui potremmo essere separati o con cui dovremmo unirci, così per dimorare come brahman, che è ciò che sempre siamo realmente, non abbiamo bisogno di toccare o contattare qualsiasi cosa diversa da noi stessi.

Tuttavia, benché niente altro che noi stessi esiste realmente, sorgendo come questo ego abbiamo proiettato l’apparenza di altre cose e quindi ci siamo uniti ad esse, così quello che ora abbiamo bisogno di fare non è di unirci con qualcosa ma separare noi stessi da ogni cosa, incluso l’ego che ora sembriamo essere. Questa separazione è un modo alternativo di descrivere ciò che Bhagavan chiama ātma-vicāra, vale a dire la pratica di attendere solo a noi stessi, escludendo quindi ogni altra cosa dalla nostra consapevolezza.

2. Asparśa yōga comporta il non toccare i pensieri o manōlaya

Tuttavia, sebbene abbiamo bisogno di separare noi stessi da ogni altra cosa per essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente, separare soltanto noi stessi da ogni altra cosa non è sufficiente, perché facciamo questo ogni volta che cadiamo nel sonno, ma il nostro ego non è con questo distrutto. Questo è il motivo per cui in questa serie di versi Gaudapada enfatizza ripetutamente che praticando asparśa yōga dovremmo evitare laya, che è ogni stato temporaneo in cui la mente è sprofondata completamente ma senza essere acutamente auto-attentiva, e che quindi include non solo il sonno ma anche ogni tipo di nirvikalpa samādhi tranne che il sahaja samādhi, che è lo stato eterno di ātma-jñāna (pura auto-consapevolezza) e che è rivelato come la sola realtà da manōnāśa (annientamento della mente). Per realizzare manōnāśa la nostra mente non dovrebbe solo sprofondare completamente ma dovrebbe farlo auto-attentivamente – cioè, con la sua intera attenzione focalizzata acutamente soltanto su sé stessa.

Nella traduzione del 3.44 e 3.46 che hai citato (che sembrano essere tratti da Il Māndūkyopanishad con il Kārikā di Gaudapada e il Commentario di Śankara tradotto da Swami Nikhilananda, che ha anche scritto un’altra traduzione, Mandukya Upanishad con il Karika di Gaudapada) laya è tradotto come ‘oblio’, così ciò che Gaudapada ci insegna in questi due versi è che dovremmo rimanere tranquillamente bilanciati in uno stato di perfetto equilibrio tra il pensiero e laya, che risultano entrambi da pramāda (auto-negligenza o disattenzione). Pensare comporta il dare attenzione a cose diverse da noi stessi, e laya è uno stato in cui non diamo attenzione a niente perché l’ego che da attenzione è completamente sprofondato, così per evitare sia il pensiero che laya dobbiamo non solo evitare di dare attenzione ad altre cose ma anche di dare attenzione a niente, che significa che dobbiamo cercare di attendere vigilantemente solo a noi stessi.

3. Dovremmo cercare di essere auto-attentivi sia che i nostri occhi sono aperti sia che sono chiusi

Riguardo ciò che scrivi sulla meditazione con occhi aperti o chiusi, se la nostra intera attenzione è fissata acutamente e stabilmente su noi stessi, non noteremo neppure se i nostri occhi sono aperti o chiusi, così l’apertura o la chiusura di essi non farà per noi differenza, mentre se non attendiamo a noi stessi con sufficiente acutezza saremo soggetti ad essere distratti dal pensiero se i nostri occhi sono aperti o chiusi. Forse tenere i nostri occhi aperti può ridurre la probabilità di cadere nel sonno, ma può farlo solo se notiamo qualunque cosa che appare davanti ai ostri occhi, nel qual caso la nostra attenzione sarebbe stata distratta lontano da noi stessi. Tuttavia il problema reale non sono i pensieri o il sonno ma solo pramāda, che è ciò che permette ai pensieri di sorgere o al sonno di sopraffarci, e il solo antidoto per pramāda è il suo opposto, vale a dire l’auto-attentività.

Poiché siamo sempre auto-consapevoli sia che i nostri occhi sono aperti o chiusi, possiamo cercare di essere attentivamente auto-consapevoli in ogni momento e in ogni circostanza, così l’apertura o la chiusura dei nostri occhi non dovrebbe fare differenza rispetto alla nostra capacità di essere auto-attentivi. È tutta una questione di attenzione. Se la nostra attenzione è fermamente fissata su noi stessi, non saremo distratti da altre cose, né cadremo nel sonno o sprofonderemo in qualche altro stato di laya, così la sola cosa di cui abbiamo bisogno di interessarci è cercare di essere più possibile auto-attentivi in ogni momento e in tutte le circostanze.

Cercare di essere auto-attentivi è una pratica che non dovremmo fare solo quando sediamo in meditazione ma durante il giorno, anche nel pieno delle altre attività. Possiamo focalizzarci sull’essere auto-attentivi più acutamente e fermamente quando non siamo impegnati in qualche altra attività, ma il nostro sforzo di essere auto-attentivi non dovrebbe fermarsi solo perché il nostro corpo o mente è impegnato in attività, perché appena ci fermiamo dal cercare di essere attentivamente auto-consapevoli pramāda fa presa su di noi, che è ciò che abbiamo bisogno di evitare più possibile.

4. Tutti i mondi cessano di comparire solo quando il nostro ego sprofonda completamente

Riguardo ciò che scrivi sul vedere il mondo, quando sorgiamo come un ego lo facciamo proiettando fenomeni, e il fenomeno più basilare che proiettiamo è qualunque corpo attualmente sperimentiamo come noi stessi, ma non proiettiamo questo corpo in isolamento ma come parte di un mondo, così un mondo sarà sempre visto esistere finché sembriamo essere un ego, che è il soggetto che è consapevole di esso. Solo quando il nostro ego sprofonda completamente (in manōlaya o in manōnāśa) tutti i mondi scompaiono. Quindi non dovremmo interessarci alla comparsa di qualche mondo (nel nostro stato attuale o in qualche altro sogno) ma dovremmo focalizzare tutto il nostro interesse e l’attenzione solo nell’investigare il nostro ego, che è la radice della comparsa illusoria di qualsiasi fenomeno.

Tuttavia, sebbene il mondo non scomparirà interamente se il nostro ego non sprofonda completamente, nella misura in cui riusciamo ad attendere solo a noi stessi il mondo si ritirerà, per così dire, nello sfondo della nostra consapevolezza. Quindi se questo o qualche altro mondo compare o scompare, il nostro solo interesse dovrebbe essere attendere solo a noi stessi e quindi dimorare in uno stato di perfetta immobilità o equilibrio tra l’essere distratti dalla comparsa di ogni pensiero o fenomeno ed essere sopraffatti dal sonno o qualche altro stato di laya.

5. Ogni cosa che sorge o compare nella nostra consapevolezza è una proiezione del nostro ego, che è il primo a sorgere

Riguardo ciò che scrivi sull’’essere nell’immobilità interna con poca o nessuna sorgenza’ e sull’essere interiormente immobili o senza azioni anche se un mondo è proiettato, la comparsa del mondo nella nostra consapevolezza è una sorgenza, e come ogni altra sorgenza è una proiezione del nostro ego, che è la prima sorgenza e la radice di tutte le altre sorgenze. Inoltre proiettare un mondo è un’attività mentale, così finché siamo consapevoli di qualsiasi mondo o qualsiasi altro fenomeno, non importa quanto sottili possono essere, non siamo completamente immobili.

La radice della comparsa, del sorgere o della proiezione di qualsiasi cosa è il nostro ego, nella cui visione solamente compaiono tutte le altre cose, così per terminare tutto il sorgere e l’attività abbiamo bisogno di terminare il sorgere di noi stessi come questo ego. Poiché questo ego sorge e si regge solo proiettando e quindi essendo consapevole di fenomeni (cose diverse da sé stesso), esso sprofonderà per sempre e si fonderà nella sua sorgente solo attendendo soltanto a sé stesso, evitando quindi di proiettare la comparsa di qualsiasi altra cosa.

6. Il nostro fine non è sperimentare immobilità ma solo essere attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi

Riguardo ciò che scrivi sull’immobilità interna che è ancora un’altra proiezione dell’ego, ogni cosa sperimentata da questo ego tranne la sua auto-consapevolezza fondamentale è un pensiero che ha proiettato, così ogni immobilità sperimentata da esso è uno dei suoi pensieri, sebbene estremamente sottile. La sola immobilità che non è un pensiero o proiezione dell’ego è l’immobilità assoluta di manōlaya o manōnāśa, perché in questi stati non c’è ego per proiettare o sperimentare qualcosa.

La nostra mente è attiva nella misura in cui diamo attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi, così nella misura in cui riusciamo ad essere attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi la nostra mente sprofonderà e sarà immobile. Tuttavia finché la nostra mente sprofonda completamente qualunque immobilità sperimentiamo non è l’immobilità assoluta di manōlaya o manōnāśa ma è solo un’immobilità relativa, che sperimentiamo solo con questo ego o mente. Solo quando riusciamo ad attendere a noi stessi così acutamente che ogni altra cosa è esclusa completamente dalla nostra consapevolezza il nostro ego sprofonderà completamente in manōnāśa, e poi esso non esisterà più per sperimentare l’immobilità assoluta che soltanto rimarrà. Poiché quell’immobilità assoluta è il nostro sé reale (ātma-svarūpa), ciò che la sperimenta è solo il nostro sé reale e non qualsiasi altra cosa.

Poiché ogni immobilità sperimentata da noi come questo ego è qualcosa diversa da noi stessi, non dovremmo prendere come nostro fine lo sperimentare l’immobilità. Ciò a cui dovremmo ambire è solo essere attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi. Essere attentivamente auto-consapevoli è uno stato di immobilità, ma questa immobilità è solo una conseguenza della nostra auto-attentività finché essa non diviene così acuta e stabile da escludere ogni altra cosa (inclusa ogni immobilità relativa) dalla nostra consapevolezza, causando il nostro sprofondamento nell’assoluta immobilità di manōnāśa.

Se rendiamo lo sperimentare l’immobilità il nostro fine, cercando di sperimentare immobilità siamo soggetti a sprofondare in manōlaya, che è ciò che Gaudapada e Bhagavan dicono che dovremmo evitare. Il solo modo per evitare di sprofondare in laya o di essere distratti dai pensieri è di cercare di focalizzare la nostra attenzione su noi stessi così acutamente e vigilantemente che ogni altra cosa è esclusa dalla nostra consapevolezza.

7. L’intensa curiosità di essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente focalizzerà la nostra attenzione su noi stessi, trattenendola da toccare qualsiasi altra cosa

Riguardo ciò che scrivi su ‘un’appassionata innata curiosità interna’, che, dici, è ‘senza parola e senza pensiero’, se ciò che intendi con ‘curiosità interna’ è curiosità di essere consapevole di te stesso come sei realmente, allora questa è una descrizione appropriata della pratica di auto-investigazione (ātma-vicāra), perché se siamo intensamente curiosi di essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente, la nostra intera attenzione sarà diretta verso noi stessi, colui che sta dando attenzione. In questo stato di intensa auto-curiosità non ci sarà spazio di sorgere per qualche altro pensiero in modo visibile, perché appena qualche pensiero inizia a sorgere morirà, poiché nessun pensiero può sopravvivere se non diamo ad esso attenzione.

Questo è ciò che Bhagavan intendeva nelle seguenti frasi del decimo e undicesimo paragrafo di Nāṉ Yār?:
தொன்றுதொட்டு வருகின்ற விஷயவாசனைகள் அளவற்றனவாய்க் கடலலைகள் போற் றோன்றினும் அவையாவும் சொரூபத்யானம் கிளம்பக் கிளம்ப அழிந்துவிடும். அத்தனை வாசனைகளு மொடுங்கி, சொரூபமாத்திரமா யிருக்க முடியுமா வென்னும் சந்தேக நினைவுக்கு மிடங்கொடாமல், சொரூபத்யானத்தை விடாப்பிடியாய்ப் பிடிக்க வேண்டும்.

toṉḏṟutoṭṭu varugiṉḏṟa viṣaya-vāsaṉaigaḷ aḷavaṯṟaṉavāy-k kaḍal-alaigaḷ pōl tōṉḏṟiṉum avai-yāvum sorūpa-dhyāṉam kiḷamba-k kiḷamba aṙindu-viḍum. attaṉai vāsaṉaigaḷum oḍuṅgi, sorūpa-māttiram-āy irukka muḍiyumā v-eṉṉum sandēha niṉaivukkum iḍam koḍāmal, sorūpa-dhyāṉattai viḍā-p-piḍiyāy-p piḍikka vēṇḍum.

Anche se viṣaya-vāsanā [inclinazioni o desideri ad essere consapevoli di cose diverse da sé stessi], che vengono da tempo immemorabile, sorgono [come pensieri] innumerevoli come onde dell’oceano, essi saranno tutti distrutti quando svarūpa-dhyāna [auto-attentività] aumenta ed aumenta. Senza dare spazio anche al pensiero di dubbio ‘È possibile dissolvere così tante vāsanā e rimanere solo come svarūpa [il mio sé reale]?’ è necessario aggrapparsi tenacemente a svarūpa-dhyāna.

மனத்தின்கண் எதுவரையில் விஷயவாசனைக ளிருக்கின்றனவோ, அதுவரையில் நானா ரென்னும் விசாரணையும் வேண்டும். நினைவுகள் தோன்றத் தோன்ற அப்போதைக்கப்போதே அவைகளையெல்லாம் உற்பத்திஸ்தானத்திலேயே விசாரணையால் நசிப்பிக்க வேண்டும். அன்னியத்தை நாடாதிருத்தல் வைராக்கியம் அல்லது நிராசை; தன்னை விடாதிருத்தல் ஞானம். உண்மையி லிரண்டு மொன்றே.

maṉattiṉgaṇ edu-varaiyil viṣaya-vāsaṉaigaḷ irukkiṉḏṟaṉavō, adu-varaiyil nāṉ-ār eṉṉum vicāraṇai-y-um vēṇḍum. niṉaivugaḷ tōṉḏṟa-t tōṉḏṟa appōdaikkappōdē avaigaḷai-y-ellām uṯpatti-sthāṉattilēyē vicāraṇaiyāl naśippikka vēṇḍum. aṉṉiyattai nāḍādiruttal vairāggiyam alladu nirāśai; taṉṉai viḍādiruttal ñāṉam. uṇmaiyil iraṇḍum oṉḏṟē.

Finché viṣaya-vāsanā esistono nella mente fino ad allora l’investigazione chi sono io è necessaria. Come e quando i pensieri compaiono, allora e lì è necessario annientarli tutti per mezzo di vicāraṇā [investigazione o vigilante auto-attentività] proprio nel luogo in cui sorgono. Non dare attenzione a qualsiasi cosa diversa [da noi stessi] è vairāgya [distacco] o nirāśā [assenza di desideri]; non dimenticare [o distaccarsi da] sé stessi è jñāna [vera conoscenza o reale consapevolezza]. In verità [queste] due [vairāgya e jñāna] sono solo uno.
Le viṣaya-vāsanā sono le propensioni, le inclinazioni o i desideri dell’ego ad essere consapevole di cose diverse da sé stesso, così essi sono i semi che fanno sorgere i pensieri (e quindi tutti i fenomeni, poiché i fenomeni sono solo pensieri). Quindi quando Bhagavan dice ‘விஷயவாசனைகள் அளவற்றனவாய்க் கடலலைகள் போற் றோன்றினும்’ (viṣaya-vāsaṉaigaḷ aḷavaṯṟaṉavāy-k kaḍal-alaigaḷ pōl tōṉḏṟiṉum), che significa ‘anche se viṣaya-vāsanā sorgono [o compaiono] innumerevoli come onde dell’oceano’, ciò che egli intende è che essi germogliano nella forma di pensieri o fenomeni, come semi che germogliano come piante, perché tutti i pensieri e fenomeni sono solo il sorgere, la comparsa o la manifestazione delle nostre viṣaya-vāsanā.

Un’altra analogia che Bhagavan ha dato per illustrare come le viṣaya-vāsanā sorgono nella forma di pensieri o fenomeni è la proiezione di un film in un cinema. Tutti i pensieri e i fenomeni sono come le immagini cinematografiche che compaiono sullo schermo, e le viṣaya-vāsanā sono come le immagini sulla pellicola che scorre nel proiettore. In ogni momento solo un’immagine della pellicola è proiettata sullo schermo, ma lo scorrimento della pellicola fa sì che queste immagini siano proiettate in rapida successione, creando quindi l’illusione di un’immagine in movimento sullo schermo. Nello stesso modo in ogni momento solo un piccolo campione delle nostre numerose viṣaya-vāsanā appaiono come pensiero, ma esse fanno questo in rapida successione, causando con ciò l’illusione di un vasto mondo pieno di innumerevoli fenomeni.

Ciò che proietta all’esterno le immagini della pellicola dal proiettore sullo schermo è un raggio di luce, che ha origine da un punto all’interno del proiettore più profondo rispetto alla pellicola cinematografica che scorre. Nello stesso modo ciò che proietta tutti i pensieri da dentro di noi è il potere di attenzione del nostro ego, che ha origine dentro noi stessi più in profondità rispetto alle nostre viṣaya-vāsanā. Quindi ogni volta che dirigiamo la nostra attenzione all’esterno, i pensieri e i fenomeni compaiono nella nostra consapevolezza, mente se rivolgiamo la nostra intera attenzione verso noi stessi, nessun pensiero o fenomeno comparirà nella nostra consapevolezza.

Quindi nella misura in cui riusciamo a rivolgere la nostra attenzione a noi stessi, i pensieri e i fenomeni cesseranno di apparire nella nostra consapevolezza. Se la nostra attenzione è diretta solo parzialmente verso noi stessi, i pensieri e i fenomeni appariranno, ma occuperanno meno spazio nella nostra consapevolezza, perché il resto dello spazio sarà occupato dalla nostra auto-attentività. Quindi più riusciamo a rivolgere la nostra attenzione verso noi stessi, meno spazio daremo al sorgere di qualsiasi pensiero o fenomeno, e meno spazio diamo al loro sorgere più deboli diventeranno le nostre viṣaya-vāsanā, come semi privati dell’acqua ed esposti al calore scottante del sole.

Questo è il motivo per cui Bhagavan dice, ‘அவையாவும் சொரூபத்யானம் கிளம்பக் கிளம்ப அழிந்துவிடும்’ (avai-yāvum sorūpa-dhyāṉam kiḷamba-k kiḷamba aṙindu-viḍum), che significa ‘esse [le proprie viṣaya-vāsanā] saranno tutte distrutte quando l’auto-attentività (svarūpa-dhyāna) aumenta ed aumenta’, e ‘நினைவுகள் தோன்றத் தோன்ற அப்போதைக்கப்போதே அவைகளையெல்லாம் உற்பத்திஸ்தானத்திலேயே விசாரணையால் நசிப்பிக்க வேண்டும்’ (niṉaivugaḷ tōṉḏṟa-t tōṉḏṟa appōdaikkappōdē avaigaḷai-y-ellām uṯpatti-sthāṉattilēyē vicāraṇaiyāl naśippikka vēṇḍum), che significa ‘Come e quando i pensieri compaiono, allora e lì è necessario annientarli tutti per mezzi di vicāraṇā [investigazione o vigilante auto-attentività] proprio nel luogo da cui sorgono’.

Poiché le viṣaya-vāsanā sono i nostri desideri nella forma di seme, dando ad esse lo spazio di comparire nella nostra consapevolezza nella forma di pensieri o fenomeni, permettendo alla nostra attenzione di dimenticare noi stessi e di andare all’esterno è ciò che Gaudapada descrive nei versi 3.42 e 3.46 di Māṇḍūkya Kārikā come la mente sparpagliata qua e là o distratta da desideri e godimenti, e rivolgere la nostra attenzione a noi stessi e quindi lontano da tutte le altre cose è ciò che egli descrive nel verso 3.43 come distogliere la mente dai godimenti dei desideri. Ritirare la nostra attenzione da tutti i pensieri o fenomeni rivolgendola a noi stessi è la semplice pratica che egli chiama asparśa yōga (lo yōga di non toccare) e che Bhagavan chiama ātma-vicāra (auto-investigazione) o svarūpa-dhyāna (auto-attentività).

8. Ātma-vicāra non è chiedere qualche domanda o pensare qualche pensiero ma solo mantenere la propria mente fissata fermamente su noi stessi

Quindi il nostro fine nel praticare ātma-vicāra è di essere così acutamente e stabilmente auto-attentivi da non dare spazio al sorgere di ogni tipo di pensiero, così presumo che questo è ciò a cui ti stavi riferendo quando hai scritto che nell’immobilità che risulta dalla curiosità interna senza parole e senza pensiero, ‘non puoi inserire qualche pensiero grossolano “chi sono io?” o “indagare” ulteriormente’. Sebbene il termine ātma-vicāra è spesso tradotto come ‘auto-indagine’ o ‘auto-inchiesta’, in questo contesto vicāra significa indagine solo nel senso di investigazione e non nel senso di chiedere qualche domanda, sia vocalmente che mentalmente, così quando Bhagavan ci ha consigliato di investigare chi sono io, non intendeva che dovremmo solo chiedere a noi stessi la domanda ‘chi sono io?’ ma che dovremmo osservare acutamente noi stessi per essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente.

Se pensiamo ‘chi sono io?’, quel pensiero è qualcosa diversa da noi stessi, così pensandolo stiamo permettendo alla nostra attenzione di essere distratta lontano da noi stessi. Quindi dovremmo essere così acutamente auto-attentivi da non dare spazio anche al sorgere del pensiero formulato mentalmente ‘chi sono io?’.

Quindi sebbene in molti libri Inglesi è scritto che Bhagavan ha consigliato persone di chiedersi ‘chi sono io?’, queste espressioni sono il risultato di un fraintendimento o una traduzione imprecisa di ciò che egli ha realmente detto in Tamil. Spiegando la pratica di auto-investigazione il verbo Tamil che egli ha usato più frequentemente è நாடு (nāḍu), che significa investigare, esaminare, scrutinare, osservare o cercare di conoscere, ma ha spesso usato anche altri verbi che hanno un significato simile. Sebbene alcuni di questi verbi, come விசாரி (vicāri), in certi contesti può significare indagare nel senso di chiedere, in questo contesto egli li ha usati nel senso di ‘investigare’, ma traduttori che non avevano una chiara comprensione dei suoi insegnamenti o della vera pratica di ātma-vicāra spesso li hanno fraintesi nel significato di ‘domandare’ o ‘chiedere’.

Per chiarire che ciò che intendeva con il termine ātma-vicāra era solo la semplice auto-attentività, nel sedicesimo paragrafo di Nāṉ Yār? egli ha definito il significato di questo termine in modo chiaro ed inequivocabile:
சதாகாலமும் மனத்தை ஆத்மாவில் வைத்திருப்பதற்குத் தான் ‘ஆத்மவிசார’ மென்று பெயர்.

sadā-kālamum maṉattai ātmāvil vaittiruppadaṟku-t tāṉ ‘ātma-vicāram’ eṉḏṟu peyar.

Il nome ‘ātma-vicāra’ [si riferisce] solo a mantenere la mente sempre in [o su] sé stessi (ātmā).
ஆத்மாவில் (ātmāvil) è una forma locativa di ஆத்மா (ātmā), così significa letteralmente ‘in sé stessi’, ma benché in Tamil ‘mantenere la propria mente in qualcosa’ è un modo idiomatico di dire dare ad essa attenzione, l’equivalente idioma in Inglese è ‘mantenere la propria mente su qualcosa’, così ciò che Bhagavan intende chiaramente con la proposizione ‘சதாகாலமும் மனத்தை ஆத்மாவில் வைத்திருப்பது’ (sadā-kālamum maṉattai ātmāvil vaittiruppadu), che significa letteralmente ‘mettere [o mantenere] la mente sempre in sé stessi’, è mantenere sempre la propria attenzione fissata fermamente su noi stessi. Dunque in questa frase egli ha reso chiaro che ātma-vicāra non comporta il chiedere mentalmente qualche domanda come ‘chi sono io?’, perché se manteniamo sempre la nostra attenzione fissata fermamente su noi stessi, non ci sarà per noi bisogno o spazio di formulare mentalmente una tale domanda.

9. Ātma-jñāna è il solo stato reale ed è immutabile e indivisibile, così non ci sono stadi di esso o stati diversi da esso

Riguardo ciò che scrivi su ‘tre distinti stadi progressivi di Auto-Realizzazione’ e ‘stati che sono simultanei con l’Auto-Realizzazione o forse possono avvenire dopo l’iniziale Auto-Realizzazione’, cosa intendi con il termine ‘Auto-Realizzazione’? Se intendi essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente, in esso non ci possono essere stadi, perché o siamo consapevoli di noi stessi come siamo realmente, che è ātma-jñāna (auto-conoscenza), o siamo consapevoli di noi stessi come qualcos’altro, che è ajñāna (auto-ignoranza). Non possiamo essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente e allo stesso tempo essere consapevoli di noi stessi come qualcos’altro, perché essere consapevoli di noi stessi come qualsiasi altra cosa è l’antitesi di essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente.

Essere consapevoli di noi stessi come qualsiasi cosa diversa da ciò che siamo realmente è ciò che è chiamato ego, ed è solo questo ego che è consapevole di altre cose. Come Bhagavan dice nel verso 26 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
அகந்தையுண் டாயி னனைத்துமுண் டாகு
மகந்தையின் றேலின் றனைத்து — மகந்தையே
யாவுமா மாதலால் யாதிதென்று நாடலே
யோவுதல் யாவுமென வோர்.

ahandaiyuṇ ḍāyi ṉaṉaittumuṇ ḍāhu
mahandaiyiṉ ḏṟēliṉ ḏṟaṉaittu — mahandaiyē
yāvumā mādalāl yādideṉḏṟu nādalē
yōvudal yāvumeṉa vōr
.

பதச்சேதம்: அகந்தை உண்டாயின், அனைத்தும் உண்டாகும்; அகந்தை இன்றேல், இன்று அனைத்தும். அகந்தையே யாவும் ஆம். ஆதலால், யாது இது என்று நாடலே ஓவுதல் யாவும் என ஓர்.

Padacchēdam (separazione delle parole): ahandai uṇḍāyiṉ, aṉaittum uṇḍāhum; ahandai iṉḏṟēl, iṉḏṟu aṉaittum. ahandai-y-ē yāvum ām. ādalāl, yādu idu eṉḏṟu nādal-ē ōvudal yāvum eṉa ōr.

அன்வயம்: அகந்தை உண்டாயின், அனைத்தும் உண்டாகும்; அகந்தை இன்றேல், அனைத்தும் இன்று. யாவும் அகந்தையே ஆம். ஆதலால், யாது இது என்று நாடலே யாவும் ஓவுதல் என ஓர்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): ahandai uṇḍāyiṉ, aṉaittum uṇḍāhum; ahandai iṉḏṟēl, aṉaittum iṉḏṟu. yāvum ahandai-y-ē ām. ādalāl, yādu idu eṉḏṟu nādal-ē yāvum ōvudal eṉa ōr.

Traduzione: Se l’ego ha origine, ogni cosa ha origine; se l’ego non esiste, ogni cosa non esiste. [Quindi] l’ego è ogni cosa. Di conseguenza, sappi che solo investigare cosa è questo ego è rinunciare a ogni cosa.
Poiché ogni cosa diversa da noi stessi sembra esistere solo quando sembriamo essere questo ego (come sembriamo essere nella veglia e nel sogno), e poiché niente altro sembra esistere quando non sembriamo essere questo ego (come nel sonno), se investighiamo il nostro ego abbastanza acutamente e quindi sperimentiamo noi stessi come siamo realmente, l’illusione che noi siamo questo ego sarà distrutta per sempre, e perciò l’apparenza illusoria di tutte le altre cose anche cesseranno di esistere. Questo è il motivo per cui Bhagavan conclude questo verso dicendo, ‘ஆதலால், யாது இது என்று நாடலே ஓவுதல் யாவும்’ (ādalāl, yādu idu eṉḏṟu nādalē ōvudal yāvum), che significa ‘Quindi solo investigare cosa è questo [ego] è rinunciare a ogni cosa’.

Quindi nello stato di ātma-jñāna (vera auto-conoscenza o pura auto-consapevolezza) non c’è niente altro che noi stessi, così lì non c’è spazio per qualche differenza o stadi distinti, e se ātma-jñāna è ciò che intendi con ‘Auto-Realizzazione’, non ci sono altri ‘stati che sono simultanei all’Auto-Realizzazione o forse possono avvenire dopo l’iniziale Auto-Realizzazione’, perche ātma-jñāna è il solo stato reale. Ciò che esiste e risplende in ātma-jñāna è solo ciò che sempre esiste realmente, vale a dire noi stessi, e poiché niente altro esiste, noi siamo il tutto infinito, indivisibile ed immutabile, come Bhagavan spiega nel verso 28 di Upadēśa Undiyār:
தனாதியல் யாதெனத் தான்றெரி கிற்பின்
னனாதி யனந்தசத் துந்தீபற
      வகண்ட சிதானந்த முந்தீபற.

taṉādiyal yādeṉat tāṉḏṟeri hiṯpiṉ
ṉaṉādi yaṉantasat tundīpaṟa
      vakhaṇḍa cidāṉanda mundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: தனாது இயல் யாது என தான் தெரிகில், பின் அனாதி அனந்த சத்து அகண்ட சித் ஆனந்தம்.

Padacchēdam (separazione delle parole): taṉādu iyal yādu eṉa tāṉ terihil, piṉ aṉādi aṉanta sattu akhaṇḍa cit āṉandam.

அன்வயம்: தான் தனாது இயல் யாது என தெரிகில், பின் அனாதி அனந்த அகண்ட சத்து சித் ஆனந்தம்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): tāṉ taṉādu iyal yādu eṉa terihil, piṉ aṉādi aṉanta akhaṇḍa sattu cit āṉandam.

Traduzione: Se uno conosce cos’è la natura di sé stesso, allora [ciò che esisterà e risplenderà sarà solo] sat-cit-ānanda [essere-consapevolezza-beatitudine] senza inizio, senza fine [o infinita] e indivisa.
Poiché sat-cit-ānanda è akhaṇḍa (indivisa), sat, cit e ānanda non sono tre cose separate ma una cosa sola – la sola cosa che esiste realmente, vale a dire noi stessi. Noi siamo sat (essere o ciò che esiste realmente), noi siamo cit (pura consapevolezza) e noi siamo ānanda (perfetta felicità), così sat e cit e cit è ānanda.

Poiché noi siamo il tutto eterno, infinito, indiviso e sempre immutabile, nessuna differenza o distinzione esiste realmente, e quindi esse sembrano esistere solo quando sembriamo sorgere come questo ego. Ma nella visione di chi sorgiamo come questo ego? Non nella visione del nostro sé reale, perché solo il nostro sé reale esiste ed è immutabile, così nella sua visione niente altro che sé stesso esiste o anche sembra esistere. Quindi questo ego è un’illusione che sembra esistere solo nella propria visione, e perciò è chiamato māyā, che è un termine che significa letteralmente ‘lei () che non è ()’ o ‘cosa non è’, perché esso non esiste realmente.

10. Siamo già reali, così non abbiamo bisogno di ‘realizzare’ noi stessi

Riguardo il termine ‘auto-realizzazione’, Bhagavan ha indicato che non è un termine adatto a descrivere l’unico stato reale di ātma-jñāna, e ha scherzato a riguardo dicendo che ciò che è reale è sempre reale, così non c’è bisogno di realizzarlo, ma noi ora abbiamo realizzato o reso reale ciò che effettivamente è irreale, vale a dire il nostro ego e tutti i fenomeni sperimentati da esso, così tutto ciò che abbiamo bisogno di fare non è realizzare ciò che è già reale ma solo irrealizzare ciò che è sempre irreale. Quando irrealizziamo l’irreale, ciò che rimarrà come sempre è, è solo ciò che è reale, vale a dire noi stessi.

Il termine ‘auto-realizzazione’ venne originariamente in uso in un contesto spirituale come una traduzione del termine Sanscrito ātma-sākṣātkāra, che significa letteralmente ‘rendendo (kāra) sé stesso (ātman) sākṣāt (visibile, evidente o direttamente percepito)’, ma questo è anche un termine che Bhagavan ha indicato come non adatto, perché ha detto che solo ātman è ciò che è sempre sākṣāt, così non c’è bisogno di renderlo sākṣāt. Il problema che affrontiamo ora non è che non siamo sākṣāt, ma che sorgendo come questo ego abbiamo fatto sembrare altre cose come sākṣāt, così ciò che ora abbiamo bisogno non è di rendere noi stessi sākṣāt (ātma-sākṣātkāra) ma solo di cessare di far sembrare altre cose sākṣāt, cosa che possiamo fare solo rivolgendo la nostra intera attenzione verso noi stessi, lontano da tutte le altre cose, e quindi dissolvendo il nostro ego nella perfetta chiarezza della pura auto-consapevolezza (ātma-jñāna).

11. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 40: la liberazione è la distruzione del nostro ego, la sola causa di tutte le differenze

Riguardo l’idea che ci sono ‘stadi distinti di Auto-Realizzazione’ e ‘stati che sono simultanei all’Auto-Realizzazione o forse possono avvenire dopo l’iniziale Auto-Realizzazione’, queste idee sono molto diffuse e lo sono state sempre, perché per migliaia di anni la cultura dell’India è stata un terreno fertile in cui si sono sviluppare numerose filosofie, fedi e pratiche differenti, cresciute e vissute fianco a fianco, nutrendosi una con l’altro con idee nuove, e ciascuna modificando le idee di altre per adattarle alla propria visione, ma una cosa che principalmente queste filosofie hanno avuto in comune è l’idea che la nostra condizione attuale è imperfetta e che il fine ultimo della filosofia o della religione è quindi la liberazione di noi stesi da questa condizione imperfetta. Questo fine ultimo è generalmente chiamato mukti o mōkṣa, che significano entrambi liberazione, emancipazione o libertà, ma è anche conosciuto con altri nomi (secondo la propria concezione di esso) come nirvāṇa, manōnāśa, ātma-jñāna o ātma-sākṣātkāra.

Tuttavia, sebbene la maggior parte delle filosofie e religioni di origine Indiana concordano sul fatto che il nostro fine ultimo è il conseguimento della liberazione, ciascuna filosofia o setta religiosa ha i propri credi o concezioni riguardo la natura della liberazione, così ci sono innumerevoli idee differenti e spesso contraddittorie che le persone hanno riguardo a ciò. In linea di massima queste idee ricadono in tre categorie, vale a dire quelle che considerano la liberazione uno stato in cui si mantiene la propria forma o individualità (come quelle che lo considerano uno stato in cui si vive in qualche genere di reame o mondo divino in compagnia di Dio in qualunque forma lo si creda essere), quelle che lo considerano uno stato privo di forma, e quelle che lo considerano uno stato in cui si può alternare dall’essere una forma ad essere senza forma. Tuttavia tutte queste differenti concezioni della liberazione sono convinzioni sostenute dall’ego di qualsiasi persona le esponga, così nel verso 40 di Uḷḷadu Nāṟpadu Bhagavan ha dato il suo giudizio su tutte queste convinzioni e le dispute tra esse:
உருவ மருவ முருவருவ மூன்றா
முறுமுத்தி யென்னி லுரைப்ப — னுருவ
மருவ முருவருவ மாயு மகந்தை
யுருவழிதன் முத்தி யுணர்.

uruva maruva muruvaruva mūṉḏṟā
muṟumutti yeṉṉi luraippa — ṉuruva
maruva muruvaruva māyu mahandai
yuruvaṙitaṉ mutti yuṇar
.

பதச்சேதம்: உருவம், அருவம், உருவருவம், மூன்று ஆம் உறும் முத்தி என்னில், உரைப்பன்: உருவம், அருவம், உருவருவம் ஆயும் அகந்தை உரு அழிதல் முத்தி. உணர்.

Padacchēdam (separazione delle parole): uruvam, aruvam, uru-v-aruvam, mūṉḏṟu ām uṟum mutti eṉṉil, uraippaṉ: uruvam, aruvam, uru-v-aruvam āyum ahandai-uru aṙidal mutti. uṇar.

அன்வயம்: உறும் முத்தி உருவம், அருவம், உருவருவம், மூன்று ஆம் என்னில், உரைப்பன்: உருவம், அருவம், உருவருவம் ஆயும் அகந்தை உரு அழிதல் முத்தி. உணர்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): uṟum mutti uruvam, aruvam, uru-v-aruvam, mūṉḏṟu ām eṉṉil, uraippaṉ: uruvam, aruvam, uru-v-aruvam āyum ahandai-uru aṙidal mutti. uṇar.

Traduzione: Se è detto che la mukti che uno sperimenterà è tre, forma, senza forma, o forma o senza forma, io dirò: sappi che distruggere l’ego-forma, che distingue forma, senza forma e forma o senza forma, è mukti.

Parafrasi esplicativa: Se è detto che mukti [liberazione] che uno sperimenterà è di tre tipi, con forma, senza forma, o con forma o senza forma, io dirò: sappi che la distruzione dell’ego-forma, che distingue [questi tre tipi di liberazione], con forma, senza forma, o con forma o senza forma, è [solo vera] mukti.
Le forme, e quindi la distinzione tra forma e senza forma, esistono solo nella visione di noi stessi come questo ego, che è essenzialmente solo pura auto-consapevolezza senza forma, ma che sorge in essere come un’entità apparentemente separata proiettando forme e identificando sé stessa con alcune di esse, così tutte le idee riguardo la liberazione con forma, senza forma, o con forma o senza forma originano da questo ego e possono durare solo finché esso sopravvive. Poiché tutte le limitazioni e i problemi conseguenti sono originati solo da questo ego, e poiché la sua vera natura è di sperimentare limitazioni, possiamo liberare noi stessi da tutte le limitazioni solo liberandoci da questo ego, così Bhagavan conclude questo verso finale di Uḷḷadu Nāṟpadu dicendo, ‘அகந்தை உரு அழிதல் முத்தி’ (ahandai-uru aṙidal mutti), che significa 'distruggere l’ego-forma è liberazione (mukti)’.

Poiché tutte le differenze sono solo pensieri o idee proiettate e sperimentate solo dal nostro ego, quando il nostro ego è distrutto tutte le differenze cesseranno di esistere, e ciò che allora rimarrà sarà solo pura, singola, indivisibile e indifferenziata auto-consapevolezza, che è ciò che realmente siamo sempre. Quindi finché l’apparenza illusoria di differenze non è distrutta insieme con la loro radice, il nostro ego, dovremmo perseverare nella nostra pratica di asparśa yōga – cioè, investigare noi stessi cercando di essere così acutamente e stabilmente auto-attentivi da rimanere tranquillamente e silenziosamente in equilibrio nel nostro centro, che è il punto tra essere sopraffatti dal sonno o qualsiasi altro stato di manōlaya ed essere distratti dalla comparsa di qualche pensiero.

Benché raggiungere questo stato di equilibrio nel vero centro di noi stessi senza soccombere a laya o alla distrazione dei pensieri può ora sembrarci un’impresa quasi impossibile, è realmente il nostro stato naturale di pura auto-consapevolezza, così è certamente raggiungibile, sebbene solo per mezzo della pratica persistente. Può sembrare difficile come svuotare l’oceano goccia a goccia con l’aiuto di un filo d’erba, come Gaudapada dice nel verso 3.41 di Māṇḍūkya Kārikā, ma il semplice strumento dell’auto-attentività è di gran lunga più potente di un filo d’erba, perché se ci aggrappiamo fermamente ad essere auto-attentivi alla fine distruggeremo il nostro ego, che è la sola base per la comparsa di questo universo apparentemente vasto, così ritirando con persistenza la nostra mente da tutte le altre cose e fissandola soltanto su noi stessi prima o poi riusciremo certamente. Tutto ciò che è richiesto, quindi, è paziente e stabile perseveranza, senza la quale in questo sentiero nessuno ha mai avuto successo.

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