Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

martedì 4 ottobre 2016

‘Io sono’ è la realtà, ‘io sono questo’ o ‘io sono quello’ è l’ego

Michael James

2 Ottobre 2016
‘I am’ is the reality, ‘I am this’ or ‘I am that’ is the ego

In un commento al mio articolo precedente, Cos’è il ‘sé’ che investighiamo quando cerchiamo di essere attentivamente auto-consapevoli?, un amico di nome Viveka Vairagya ha citato un estratto dal capitolo 99 di ‘Io sono Quello’, in cui è riportato che Nisargadatta Maharaj disse, ‘Rilassati e osserva l’’io sono’. La realtà è proprio dietro di esso’, che ha spinto un altro amico, con lo pseudonimo ‘Estremamente Semplice’, ha chiedere, ‘Ma perché la realtà dovrebbe essere “proprio dietro l’’io sono”?’

Diversi amici hanno tentato di rispondere a questa domanda. La risposta più chiara e più precisa è stata data da Sanjay, che ha scritto: ‘Secondo l’insegnamento di Bhagavan, non c’è niente dietro o di fronte l’’io sono’, e quindi questo ‘io sono’ esiste assolutamente solo. Qualsiasi cosa che sperimentiamo diversa dalla nostra consapevolezza essenziale, ‘io sono’, è solamente l’immaginazione del nostro ego, e poiché il nostro ego è un fantasma senza forma che esiste solo nella propria visione, niente altro che ‘io sono’ esiste realmente’.

Viveka Vairagya allora ha scritto due commenti in cui ha cercato di spiegare cosa Nisargadatta intende con il termine ‘io sono’. Nel primo di questi due commenti ha scritto, ‘Maharaj usa il termine ‘io sono’ per riferirsi alla coscienza riflessa (chidabhasa), cioè, il riflesso del Sé o Pura Coscienza nella mente. Quindi, proprio come un oggetto può essere detto stare dietro il suo riflesso, la realtà, cioè il Sé o Pura Coscienza, è detto stare dietro il suo riflesso, l’’io sono’. Bhagavan usa ‘io sono’ per riferirsi a qualcos’altro come Sanjay ha indicato’. Nel secondo commento ha scritto, ‘Dopo ulteriore riflessione ho l’impressione che ciò che Sri Nisargadatta Maharaj intende con ‘io sono’, Sri Ramana Maharshi lo intende con ‘pensiero-io’. Cioè, sia ‘io sono’ che ‘pensiero-io’ si riferiscono alla stessa entità, vale a dire, la luce riflessa o la coscienza riflessa (chidabhasa), cioè, il riflesso del Sé o Pura Coscienza nella mente. Quindi, proprio come il Sé o Realtà può essere detto stare dietro il ‘pensiero-io’, il Sé o Realtà può essere detto stare dietro l’’io-sono’’.
  1. Chi sono io? Sono questo ego irreale o la realtà che ne sta alla base?
  2. La verità non è ‘io sono questo’ o ‘io sono quello’ ma solo ‘io sono io’
  3. Upadēśa Undiyār verso 18: la mente è essenzialmente ‘io’, la mente o consapevolezza mischiata è ‘io sono questo corpo’
  4. Upadēśa Undiyār verso 19: se investighiamo noi stessi, la sorgente da cui siamo sorti come questo ego, esso morirà
  5. Upadēśa Undiyār verso 20: dove si fonde ‘io sono questo’, ciò che rimane a risplendere è ‘io sono io’
  6. Upadēśa Undiyār verso 28: la pura auto-consapevolezza ‘io sono io’ è senza inizio, senza fine e indivisibile
  7. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 30: anche se ‘io sono io’ appare, non è l’ego
  8. Āṉma-Viddai verso 2: ciò che risplende come ‘io sono io’ è lo spazio unico, silente e beato di pura auto-consapevolezza
  9. Upadēśa Undiyār verso 21: ciò che risplende come ‘io sono io’ è il significato reale della parola ‘io’
  10. Upadēśa Undiyār verso 22: il corpo e le altre aggiunte non sono reali e non sono consapevoli, così essi non sono ‘io’
  11. Upadēśa Undiyār verso 23: noi siamo l’unica esistenza-consapevolezza che sempre risplende come ‘io sono’
  12. Upadēśa Undiyār verso 24: ciò che apparentemente ci separa dalla realtà che siamo realmente è solo la nostra consapevolezza di aggiunte
  13. Upadēśa Undiyār verso 25: essere consapevoli di ‘io sono’ senza aggiunte è essere consapevoli della realtà
  14. Uḷḷadu Nāṟpadu Anubandham verso 29: la chiarezza dell’intelletto risplenderà automaticamente nella forma esteriore di un ātma-jñāni

1. Chi sono io? Sono questo ego irreale o la realtà che ne sta alla base?

Viveka Vairagya è probabilmente nel giusto quando dice che Nisargadatta usa il termine ‘io sono’ (almeno in questo contesto, e forse anche da qualche altra parte) per riferirsi al pensiero-io (il pensiero chiamato ‘io’ o ego), che è cidābhāsa (un riflesso, una parvenza o falsa apparenza della consapevolezza reale, che è il nostro vero sé), perché questo è il modo più ragionevole di spiegare perché egli dice che la realtà è proprio dietro ‘io sono’ invece di dire che essa realmente è ‘io sono’. Tuttavia, se egli si riferisce all’ego come ‘io sono’, questo mostra una fondamentale confusione nel suo pensiero e nella sua comprensione, perché sebbene l’ego sembra essere noi stessi, non è ciò che siamo realmente.

Sia che usiamo il termine ‘io sono’ per riferirci al nostro sé reale (come fa Bhagavan) o al nostro ego (come sembra fare Nisargadatta) non è solo una scelta arbitraria riguardo l’uso della terminologia, come molte persone sembrano ritenere, ma riflette la nostra comprensione di ciò che siamo realmente. Cosa siamo realmente? In altre parole, di fatto chi sono io? Siamo questo ego limitato che sembriamo essere, o siamo l’auto-consapevolezza infinita, oltre alla quale niente altro esiste realmente?

Se usiamo ‘io sono’ per riferirci al nostro ego, questo implica che accettiamo che questo ego sia ciò che siamo realmente, che è precisamente l’errore che Bhagavan ci ha chiesto di mettere in discussione e di investigare. Se questo ego è ‘io sono’ e la realtà è qualcosa dietro o oltre di esso, questo significherebbe che la realtà è qualcosa diversa da noi stessi, nel qual caso non potremmo mai ottenerla o essere uno con essa, perché non possiamo divenire qualcosa diversa da ciò che sempre siamo realmente.

Poiché la realtà è ciò che è chiamato brahman, affermare o intendere che è qualcosa diversa da ‘io sono’ (noi stessi) è contrario ai principi fondamentali dell’advaita vēdānta come espresso nei quattro mahāvākyas: ‘prajñānaṁ brahma’, ‘pura consapevolezza è brahman’ (Ṛg Vēda, Aitarēya Upaniṣad 3.3); ‘ahaṁ brahmāsmi’, ‘io sono brahman’ (Yajur Vēda, Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad 1.4.10); ‘tat tvam asi’, ‘quello [brahman] tu sei’ (Sāma Vēda, Chāndōgya Upaniṣad 6.8.7); e ‘ayaṁ ātmā brahma’, ‘questo sé è brahman’ (Atharva Vēda, Māṇḍūkya Upaniṣad 2).

Sebbene ora confondiamo noi stessi (che siamo ciò a cui ci riferiamo come ‘io’) come questo ego limitato, ciò che siamo realmente è solo brahman, che è infinita auto-consapevolezza, così per aiutarci ad evitare confusione, Bhagavan ha spesso spiegato che ‘io sono’ senza alcuna aggiunta è ciò che siamo realmente, mentre ‘io sono questo’ o ‘io sono quello’ (che è ‘io sono’ mischiato ad aggiunte) è l’ego o pensiero chiamato ‘io’. Distinguere ‘io sono’ da ‘io sono questo’ o ‘io sono quello’ in questo modo non è usare questo termine in modo arbitrario, perché questo ci permette di comprendere chiaramente la differenza tra ciò che ora sembriamo essere e ciò che siamo realmente.

La natura non-arbitraria di questi termini usati da Bhagavan può essere compresa analizzandoli attentamente. In ‘io sono’, il verso ‘sono’ esprime l’esistenza di ‘io’, così poiché l’esistenza di ‘io’ non è qualcosa diversa dallo stesso ‘io’, possiamo ridurre analiticamente ‘io sono’ a ‘io’. Quindi cosa indica questa parola ‘io’? È il pronome di prima persona singolare, così si riferisce sempre solo a noi stessi, e dunque ciò che prendiamo come significato del termine ‘io sono’ dipende da ciò che noi stessi crediamo essere.

Se realmente crediamo essere questo ego, o questa persona che attualmente il nostro ego sperimenta come sé stesso, prenderemo ‘io sono’ come un’affermazione che esprime l’esistenza di questo ego. Ma questo ego può essere ciò che siamo realmente? Sembriamo essere questo ego solo nella veglia e nel sogno, ma continuiamo ad essere consapevoli della nostra esistenza nel sonno, anche se il nostro ego in quel momento è scomparso. Quindi questo ego non può essere ciò che siamo realmente, e dunque non è ciò che è effettivamente indicato dal termine ‘io’ o ‘io sono’.

Nella veglia e nel sogno, che sono i soli due stati in cui questo ego sembra esistere, esso sperimenta sempre sé stesso come un certo corpo (anche se non sempre lo stesso) e come altri fenomeni strettamente associati con quel corpo, così Bhagavan ci indica che come questo ego non sperimentiamo semplicemente noi stessi come ‘io sono’ ma come ‘io sono questo’, in cui il termine ‘questo’ si riferisce a qualunque corpo e ad altre aggiunte associate che attualmente sperimentiamo come se fossero noi stessi.

2. La verità non è ‘io sono questo’ o ‘io sono quello’ ma solo ‘io sono io’

In ‘io sono questo’, ciò che il verso ‘sono’ esprime non è l’esistenza di ‘io’ (anche se ovviamente implica questo) ma l’identità di ‘io’ con ‘questo’. Cioè, mentre il ‘sono’ in ‘io sono’ ha una funzione puramente esistenziale in cui indica semplicemente l’esistenza di ‘io’, il ‘sono’ in ‘io sono questo’ funge da copula (verbo di collegamento) che indica l’identità di ‘io’ con ‘questo’.

Tuttavia, mentre l’affermazione ‘io sono’ è ovviamente vera, perché non potremmo essere consapevoli di noi stessi come ‘io’ se non esistessimo, può l’affermazione ‘io sono questo’ essere vera? Può ‘io’ essere realmente qualcosa diversa da sé stesso? Ovviamente non può, così l’affermazione ‘io sono questo’ o ‘io sono quello’ è necessariamente falsa se ‘questo’ o ‘quello’ si riferiscono soltanto a qualsiasi cosa diversa da ‘io’.

Ciò a cui si riferisce essenzialmente il pronome di prima persona ‘io’ è solo la nostra auto-consapevolezza fondamentale, che è la sola cosa che sperimentiamo costantemente (come Bhagavan indica nel verso 21 di Upadēśa Undiyār). Poiché ogni cosa diversa da questa auto-consapevolezza fondamentale, ‘io’, compare e scompare nella nostra consapevolezza, nessuna di esse può essere ciò che siamo realmente, perché dato che siamo sempre consapevoli di noi stessi, che ci succeda anche di essere temporaneamente consapevoli di qualsiasi altra cosa o meno, non possiamo essere qualsiasi cosa di cui non siamo costantemente consapevoli. Quindi, poiché nel sonno non siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, non possiamo realmente essere qualsiasi cosa diversa dall’auto-consapevolezza fondamentale che sperimentiamo da sola nel sonno e insieme con altre cose nella veglia e nel sogno. Quindi solo ‘io sono io’ esprime precisamente ciò che realmente siamo.

3. Upadēśa Undiyār verso 18: la mente è essenzialmente ‘io’, l’ego o consapevolezza mischiata è ‘io sono questo corpo’

Questo è spiegato chiaramente da Bhagavan dal verso 18 al 22 di Upadēśa Undiyār. Attualmente sembriamo essere questa mente, così nel verso 18 egli analizza cosa è questa mente:
எண்ணங்க ளேமனம் யாவினு நானெனு
மெண்ணமே மூலமா முந்தீபற
      யானா மனமென லுந்தீபற.

eṇṇaṅga ḷēmaṉam yāviṉu nāṉeṉu
meṇṇamē mūlamā mundīpaṟa
      yāṉā maṉameṉa lundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: எண்ணங்களே மனம். யாவினும் நான் எனும் எண்ணமே மூலம் ஆம். யான் ஆம் மனம் எனல்.

Padacchēdam (separazione delle parole): eṇṇaṅgaḷ-ē maṉam. yāviṉ-um nāṉ eṉum eṇṇam-ē mūlam ām. yāṉ ām maṉam eṉal.

அன்வயம்: எண்ணங்களே மனம். யாவினும் நான் எனும் எண்ணமே மூலம் ஆம். மனம் எனல் யான் ஆம்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): eṇṇaṅgaḷ-ē maṉam. yāviṉ-um nāṉ eṉum eṇṇam-ē mūlam ām. maṉam eṉal yāṉ ām.

Traduzione: I pensieri soltanto sono la mente. Di tutti, solo il pensiero chiamato ‘io’ è la radice. Ciò che è chiamato mente è ‘io’.

Traduzione Elaborata: I pensieri soltanto solo la mente [o la mente è solo pensieri] Di tutti [i pensieri], solo il pensiero chiamato ‘io’ è il mūla [la radice, la base, il fondamento, l’origine, la sorgente o la causa]. [Quindi] ciò che è chiamata mente è [essenzialmente solo] ‘io’ [l’ego o pensiero-radice chiamato ‘io’].
Generalmente prendiamo il termine ‘mente’ con un nome collettivo per tutti i fenomeni mentali (percezioni, concetti, ricordi, credi, desideri, speranze, paure, simpatie, antipatie, sensazioni, emozioni e così via), che sono ciò a cui Bhagavan si riferisce qui come எண்ணங்கள் (eṇṇaṅgaḷ), che letteralmente significa ‘pensieri’ o ‘idee’. Tuttavia, di tutti i pensieri o fenomeni mentali, la radice è solo il nostro ego, che è ciò a cui egli si riferisce qui come ‘நான் எனும் எண்ணம்’ (nāṉ eṉum eṇṇam), che letteralmente significa ‘il pensiero chiamato io’, ma che nei libri Inglesi è spesso tradotto come ‘il pensiero-io’.

La ragione per cui questo pensiero chiamato ‘io’ è la radice di tutti gli altri pensieri è che è ciò che li pensa e li sperimenta, così senza di esso nessun altro pensiero potrebbe sorgere o essere conosciuto. Tuttavia, altri pensieri vengono e vanno e sono costantemente in mutamento, così questo pensiero primario chiamato ‘io’ non è dipendente da qualcuno particolare di essi, ma finché ogni altro pensiero sembra esistere, noi sembriamo essere questo pensiero chiamato ‘io’, che è ciò che è consapevole sia di sé stesso che di tutti gli altri pensieri, così tutti gli altri pensieri dipendono da esso.

Quindi ciò che questa mente è essenzialmente è solo questo pensiero radice chiamato ‘io’, che è ciò che è generalmente chiamato ego. Cioè, poiché nessun pensiero diverso da questo ego è una caratteristica permanente della nostra mente, da analisi la mente è in essenza solo questo ego, come intende Bhagavan nella frase finale di questo verso, ‘யான் ஆம் மனம் எனல்’ (yāṉ ām maṉam eṉal), che significa ‘Ciò che è chiamato mente è io’.

In questo modo da analisi la mente che ora sperimentiamo come noi stessi si riduce ad essere solo ‘io’, ma questo ‘io’ è ciò che siamo realmente? L’’io’ che come questa mente sperimentiamo come noi stessi è il nostro ego, che sembra esistere nella veglia e nel sogno ma scompare nel sonno, così non può essere ciò che siamo realmente, che è ciò che è indicato dalla frase ‘io sono’. Tuttavia, poiché è ciò che attualmente sperimentiamo come noi stessi, non può essere completamente distinto da noi stessi, così un elemento di esso deve essere ciò che siamo realmente. In altre parole, esso deve essere una mescolanza di ciò che siamo realmente (‘io sono’) e di altre cose che sembriamo essere (‘questo’ o ‘quello’).

Quindi Bhagavan ci ha indicato che questo ‘io’ (il nostro ego o pensiero chiamato ‘io’) non è la pura auto-consapevolezza che siamo realmente, perché è mischiato e confuso con la nostra consapevolezza di altre cose, particolarmente qualunque corpo che attualmente sperimentiamo come se fosse noi stessi. Poiché ogni volta che sorgiamo come questo ego o mente sperimentiamo noi stessi come un corpo particolare (ma non sempre lo stesso corpo, perché qualunque corpo attualmente sperimentiamo come noi stessi non è uguale ad ognuno dei corpi che sperimentiamo come noi stessi in altri sogni), egli ha spiegato che questo ego o pensiero chiamato ‘io’ è ciò che sperimentiamo come ‘io sono questo corpo’. Quindi nel verso 2 di Āṉma-Viddai egli dice:
ஊனா ருடலிதுவே நானா மெனுநினைவே
நானா நினைவுகள்சே ரோர்நார் [...]

ūṉā ruḍaliduvē nāṉā meṉuniṉaivē
nāṉā niṉaivugaḷsē rōrnār
[...]

பதச்சேதம்: ‘ஊன் ஆர் உடல் இதுவே நான் ஆம்’ எனும் நினைவே நானா நினைவுகள் சேர் ஓர் நார் [...]

Padacchēdam (separazione delle parole): ‘ūṉ ār uḍal idu-v-ē nāṉ ām’ eṉum niṉaivē nāṉā niṉaivugaḷ sēr ōr nār [...]

Traduzione: Solo il pensiero ‘questo corpo composto di carne è io’ è l’unica stringa su cui [tutti] i vari pensieri sono infilati […]
In questa consapevolezza composita, ‘io sono questo corpo’, ‘io sono’ si riferisce alla nostra auto-consapevolezza permanente e fondamentale, che è l’elemento essenziale cosciente (cit) del nostro ego, così poiché l’ego è il nodo (granthi) che lega insieme questi due elementi opposti come se fossero uno, è chiamato cit-jaḍa-granthi. Questo nodo non è reale, perché sebbene esso e il suo elemento jaḍa sembrano esistere nella veglia e nel sogno, non esistono nel sonno, così quando sembrano esistere sono solo una falsa apparenza, un’illusione. Tuttavia, sebbene il nodo come un insieme e uno dei suoi due elementi sono irreali, il suo altro elemento, vale a dire la pura auto-consapevolezza (cit), è reale. Effettivamente è la sola cosa reale, perché niente altro che essa è permanente, immutabile o auto-risplendente, che secondo Bhagavan sono i tre segni caratteristici di ciò che è reale.

4. Upadēśa Undiyār verso 19: se investighiamo noi stessi, la sorgente da cui siamo sorti come questo ego, esso morirà

Questo ego o pensiero chiamato ‘io’, che è il cit-jaḍa-granthi, ‘io sono questo corpo’, è impermanente, perché sembra esistere solo nella veglia e nel sogno ma non nel sonno. Poiché esso sorge ogni volta che ci svegliamo dal sonno o ogni volta che il nostro sonno è disturbato da un sogno, esso deve sorgere da qualcosa che è permanente e quindi reale, e quella cosa reale deve essere ciò che siamo realmente. Quindi nel verso 19 di Upadēśa Undiyār Bhagavan ci insegna che dovremmo investigare ciò da cui questo ego sorge:
நானென் றெழுமிட மேதென நாடவுண்
ணான்றலை சாய்ந்திடு முந்தீபற
      ஞான விசாரமி துந்தீபற.

nāṉeṉ ḏṟeṙumiḍa mēdeṉa nāḍavuṇ
ṇāṉḏṟalai sāyndiḍu mundīpaṟa
      ñāṉa vicārami dundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: நான் என்று எழும் இடம் ஏது என நாட உள், நான் தலைசாய்ந்திடும். ஞான விசாரம் இது.

Padacchēdam (separazione delle parole): nāṉ eṉḏṟu eṙum iḍam ēdu eṉa nāḍa uḷ, nāṉ talai-sāyndiḍum. ñāṉa-vicāram idu.

அன்வயம்: நான் என்று எழும் இடம் ஏது என உள் நாட, நான் தலைசாய்ந்திடும். இது ஞான விசாரம்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): nāṉ eṉḏṟu eṙum iḍam ēdu eṉa uḷ nāḍa, nāṉ talai-sāyndiḍum. idu ñāṉa-vicāram.

Traduzione: Quando si investiga all’interno [o si investiga interiormente] qual è il luogo da cui esso sorge come ‘io’, l''io’ morirà. Questo è jñāna-vicāra [consapevolezza-investigazione].
Questo ego, il falso ’io’ che sorge come ‘io sono questo corpo, una persona chiamata tal dei tali’, non esiste realmente, ma sembra esistere ‘afferrando la forma’ (cioè, proiettando fenomeni nella sua consapevolezza), come Bhagavan dice nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu, così se esso rivolge la sua intera attenzione verso sé stesso, cessando quindi di essere consapevole di qualsiasi altra cosa, si dissolverà nella sua sorgente. Questo è ciò che Bhagavan spiega nella prima frase di questo verso, ‘நான் என்று எழும் இடம் ஏது என நாட உள், நான் தலைசாய்ந்திடும்’ (nāṉ eṉḏṟu eṙum iḍam ēdu eṉa nāḍa uḷ, nāṉ talai-sāyndiḍum), che significa, ‘Quando si investiga all’interno [o si investiga interiormente] qual è il luogo da cui esso sorge come ‘io’, l'io’ morirà’ (anche se il significato letterale di ‘நான் தலைசாய்ந்திடும்’ (nāṉ talai-sāyndiḍum) è ‘l'io curverà la sua testa’, che è un modo di dire colloquiale che significa che esso morirà).

Per annientare il nostro ego, ciò che abbiamo bisogno di investigare è ‘நான் என்று எழும் இடம்’ (nāṉ eṉḏṟu eṙum iḍam), ‘il luogo da cui esso sorge come io’. In altre parole, abbiamo bisogno di investigare la sorgente di questo ego. Anche se Bhagavan descrive la sua sorgente come ‘எழும் இடம்’ (eṙum iḍam), che significa letteralmente ‘il luogo da cui esso sorge’, ciò che in questo contesto egli intende con ‘இடம்’ (iḍam) o ‘luogo’ non è qualche luogo nel tempo o nello spazio ma solo il nostro sé reale, che è la sorgente da cui sorgiamo come questo ego, perché in questo contesto egli non sta usando questo termine nel senso letterale ma solo in un senso metaforico, come spesso ha fatto.

Da dove altro il nostro ego potrebbe sorgere se non dal nostro sé reale? Quando nel sonno esso sprofonda niente esiste o anche sembra esistere tranne noi stessi, così quando sorgiamo dal sonno come questo ego nella veglia o nel sogno, ciò da cui stiamo sorgendo è solo noi stessi, così noi solo siamo ‘நான் என்று எழும் இடம்’ (nāṉ eṉḏṟu eṙum iḍam), ‘il luogo [o sorgente] da cui esso [il nostro ego] sorge come io’. Quindi ciò che egli intende in questo verso è che abbiamo bisogno di investigare noi stessi, l’auto-consapevolezza fondamentale da cui siamo sorti come questo ego.

5. Upadēśa Undiyār verso 20: dove si fonde ‘io sono questo’, ciò che rimane a risplendere è ‘io sono io’

Dopo aver detto che l’ego morirà se investighiamo la sua sorgente, che è il nostro sé reale, nel verso 20 Bhagavan spiega ciò che rimarrà quando esso muore:
நானொன்று தானத்து நானானென் றொன்றது
தானாகத் தோன்றுமே யுந்தீபற
      தானது பூன்றமா முந்தீபற.

nāṉoṉḏṟu thāṉattu nāṉāṉeṉ ḏṟoṉḏṟadu
tāṉāhat tōṉḏṟumē yundīpaṟa
      āṉadu pūṉḏṟamā mundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: ‘நான்’ ஒன்று தானத்து ‘நான் நான்’ என்று ஒன்று அது தானாக தோன்றுமே. தான் அது பூன்றம் ஆம்.

Padacchēdam (separazione delle parole): ‘nāṉ’ oṉḏṟu thāṉattu ‘nāṉ nāṉ’ eṉḏṟu oṉḏṟu adu tāṉāha tōṉḏṟumē. tāṉ adu pūṉḏṟam ām.

அன்வயம்: ‘நான்’ ஒன்று தானத்து ‘நான் நான்’ என்று ஒன்று அது தானாக தோன்றுமே. அது தான் பூன்றம் ஆம்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): ‘nāṉ’ oṉḏṟu thāṉattu ‘nāṉ nāṉ’ eṉḏṟu oṉḏṟu adu tāṉāha tōṉḏṟumē. adu tāṉ pūṉḏṟam ām.

Traduzione: Nel luogo dove ‘io’ si fonde, quello, l’uno, appare spontaneamente [o come sé stesso] come ‘io sono io’. Quello stesso è pūṉḏṟam [il tutto infinito o pūrṇa].
Quando l’ego, che è l’’io’ che è sorto come ‘io sono questo’, si fonde nella sorgente da cui è sorto, ciò che rimane è solo il nostro sé reale, che sempre risplende come ‘io sono io’. Sebbene Bhagavan dice che esso ‘appare’, non intende che non è sempre risplendente, perché esso appare nello stesso modo di una corda che appare quando guardiamo attentamente a ciò che sembra essere un serpente. Proprio come la corda era sempre chiaramente visibile, anche quando la confondevamo come un serpente, la nostra auto-consapevolezza fondamentale, che è il nostro sé reale, è sempre chiaramente visibile anche quando confondiamo noi stessi come ‘questo’ o ‘quello’.

Tuttavia, quando guardiamo il ‘serpente’ abbastanza attentamente per riconoscere che è realmente solo una corda, nel momento del riconoscimento la corda sembra apparire di nuovo o brillare. Nello stesso modo, quando guardiamo noi stessi abbastanza attentamente per riconoscere che non siamo l’ego transitivamente consapevole che sembravamo essere ma solo la pura auto-consapevolezza intransitiva, al momento del riconoscimento la nostra pura ed infinita auto-consapevolezza sembra apparire di nuovo o brillare.

Tuttavia, poiché il nostro sé reale è sempre consapevole di sé stesso come pura auto-consapevolezza, nella sua visione non avviene mai nessun cambiamento, così la nuova apparenza della pura auto-consapevolezza può avvenire solo nella visione dell’ego, ma appena essa appare inghiotte l’ego, così la sua comparsa e la scomparsa dell’ego sono simultanei e istantanei. La sua comparsa è il definitivo e finale sphuraṇa (nuova chiarezza di auto-consapevolezza), e diversamente da forme meno chiare di sphuraṇa, che Bhagavan paragona a una fiamma che brucia la canfora finché entrambe sono consumate e scompaiono, essa è come l’accensione della polvere da sparo, che esplode e distrugge l’ego in un istante.

Il verbo che egli usa nella proposizione principale di questo verso è தோன்றுமே (tōṉḏṟumē), che è una forma intensificata di தோன்றும் (tōṉḏṟum), che in questo contesto significa esso compare, appare alla vista, è visibile o è chiaro, e nella sua versione Sanscrita di questo verso, vale a dire il verso 20 di Upadēśa Sāram, ha tradotto questo verbo come स्फुरति (sphurati), che significa che esso risplende, è chiaro, lampeggia o brilla, e che è una forma del verbo स्फुर् (sphur), da cui deriva il sostantivo स्फुरण (sphuraṇa) :
अहमि नाशभा ज्यहम हंतया ।
स्फुरति हृत्स्वयं परम पूर्णसत् ॥

ahami nāśabhā jyahama haṁtayā
sphurati hṛtsvayaṁ parama pūrṇasat

पदच्छेद: अहमि नाशभाजि अहम् अहंतया स्फुरति हृत् स्वयं. परम पूर्ण सत्.

Padacchēda (separazione delle parole): ahami nāśabhāji aham ahaṁtayā sphurati hṛt svayaṁ. parama pūrṇa sat.

Quando ‘io’ [l’ego] è annientato, il cuore [il nostro sé reale] brilla spontaneamente come ‘io sono io’ (aham aham). [Questo è] parama pūrṇa sat [la suprema realtà totale].
Nella prima frase dell’originale Tamil di questo verso Bhagavan usa due volte la parola ஒன்று (oṉḏṟu), ma nel primo caso come un verbo che significa si fonde, si combina, si salda, si unisce o diviene uno, e nel secondo caso come un sostantivo che significa fondamentalmente uno, o in questo caso ‘l’uno’, ma può anche significare ciò che è unico, ineguagliato o incomparabile. Ciò in cui si fonde l’ego e con cui diviene uno è il nostro sé reale, che è quello che appare spontaneamente come ‘io sono io’, così usando due volte ஒன்று (oṉḏṟu) in questo modo e descrivendo l’esperienza finale che poi rimane come ‘நான் நான்’ (nāṉ nāṉ) o ‘अहम् अहम्’ (aham aham), che significa ‘io sono io’, egli enfatizza l’unicità di ciò che rimane quando l’ego è annientato.

Nella seconda frase del verso Tamil egli dice che questo uno che appare come ‘io sono io’ è பூன்றம் (pūṉḏṟam), che è un termine Tamil derivato dalla parola Sanscrita पूर्ण (pūrṇa), che significa pieno, totale, intero, completo o perfetto, e che in questo contesto implica l’unico e infinito tutto o interezza, oltre al quale niente può esistere. Nello stesso modo in Sanscrito egli dice che esso è ‘परम पूर्ण सत्’ (parama pūrṇa sat), in cui parama è il superlativo di para e significa supremo, altissimo, migliore o più esaltato, pūrṇa significa il tutto infinito, e sat significa ciò che esiste realmente, ciò che è reale, esistenza o essere, così parama pūrṇa sat significa la suprema realtà totale.

6. Upadēśa Undiyār verso 28: la pura auto-consapevolezza ‘io sono io’ è senza inizio, senza fine e indivisibile

Questa unica realtà infinita che risplende come ‘io sono io’ quando l’ego è annientato è ciò che Bhagavan descrive anche nel verso 28 di Upadēśa Undiyār:
தனாதியல் யாதெனத் தான்றெரி கிற்பின்
னனாதி யனந்தசத் துந்தீபற
      வகண்ட சிதானந்த முந்தீபற.

taṉādiyal yādeṉat tāṉḏṟeri hiṯpiṉ
ṉaṉādi yaṉantasat tundīpaṟa
      vakhaṇḍa cidāṉanda mundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: தனாது இயல் யாது என தான் தெரிகில், பின் அனாதி அனந்த சத்து அகண்ட சித் ஆனந்தம்.

Padacchēdam (separazione delle parole): taṉādu iyal yādu eṉa tāṉ terihil, piṉ aṉādi aṉanta sattu akhaṇḍa cit āṉandam.

அன்வயம்: தான் தனாது இயல் யாது என தெரிகில், பின் அனாதி அனந்த அகண்ட சத்து சித் ஆனந்தம்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): tāṉ taṉādu iyal yādu eṉa terihil, piṉ aṉādi aṉanta akhaṇḍa sattu cit āṉandam.

Traduzione: Se si conosce cos’è la natura di sé stessi, allora [ciò che rimarrà e risplenderà sarà solo] sat-cit-ānanda [essere-consapevolezza-beatitudine] senza inizio, senza fine [o infinita] e indivisa.
Ciò che esiste realmente (sat) è consapevolezza (cit) e felicità (ānanda), e poiché è ciò che rimane quando conosciamo cosa è la nostra vera natura, essa e la nostra vera natura – ciò che siamo realmente. Quindi l’unico tutto infinito (pūrṇa) che risplende come ‘io sono io’ è sat-cit-ānanda: ciò che esiste (sat), ciò che è consapevole (cit) e ciò che è felice (ānanda).

Sebbene appaia come nuovo nel momento in cui l’ego si dissolve in esso, esiste realmente e risplende eternamente, perché è senza inizio (anādi) e senza fine (ananta), così è ciò che risplende come ‘io sono’ anche quando sembra essere questo ego finito ed effimero, poiché sembra essere questo ego solo nella visione di questo ego e non nella propria visione chiara ed infinita. Poiché ananta significa non solo senza fine ma anche senza limiti o infinito, dicendo che esso è ananta Bhagavan intende che niente esiste oltre o diverso da esso, così esso solo è ciò che esiste realmente.

Non solo è senza altro, è anche senza parti, perché come Bhagavan dice è akhaṇḍa, che significa ininterrotto, indiviso o non frammentato. Quindi non c’è niente che sia esterno o diverso da esso, e anche non ci sono parti o divisioni all’interno di esso, così è assoluta interezza e unità. Poiché è indiviso, è anche senza cambiamento e immutabile, perché qualsiasi cambiamento significherebbe che ciò che era prima del cambiamento è distinto e quindi diviso da ciò che è dopo di esso, così non è solo indiviso ma anche indivisibile.

Sebbene in questo contesto mi sono riferito ad esso come ‘esso’, non è realmente ‘esso’ (una terza persona) ma solo ‘io’ (la prima persona, o più precisamente la realtà della prima persona), poiché è il nostro sé reale, così sarebbe più appropriato chiamarlo ‘noi’. Quindi ciò che siamo realmente è l’unico tutto infinito, che è senza inizio, senza fine e indivisibile sat-cit-ānanda, e che risplende eternamente come ‘io sono’.

Nel nostro stato reale di pura auto-consapevolezza la sola cosa che esiste è ‘io’, e dato che non c’è niente diverso da noi stessi e nessuna parte separata all’interno di noi, non c’è ‘questo’ o ‘quello’ che potremmo mai sperimentare come ‘io sono questo’ o ‘io sono quello’. Quindi la nostra esperienza di noi stessi in quello stato può solo essere ‘io sono io’.

Quindi né il sorgere né il fondersi definitivo dell’ego sono reali. Essi sembrano reali solo finché questo ego sembra esistere, ma se guardiamo abbastanza attentamente questo ego, che sembra essere sorto come ‘io sono questo corpo’, vedremo che esso non esiste realmente, e che tutto ciò che esiste e che è sempre esistito è solo auto-consapevolezza senza inizio, senza fine, infinita, indivisibile ed immutabile, che non è mai consapevole di qualcosa diversa da sé stessa.

7. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 30: anche se ‘io sono io’ appare, non è l’ego

La pratica e il risultato dell’auto-investigazione che Bhagavan ci insegna nei versi 19 e 20 di Upadēśa Undiyār sono stati anche descritti da lui in termini simili nel verso 30 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
நானா ரெனமனமுண் ணாடியுள நண்ணவே
நானா மவன்றலை நாணமுற — நானானாத்

தோன்றுமொன்று தானாகத் தோன்றினுநா னன்றுபொருள்
பூன்றமது தானாம் பொருள்.

nāṉā reṉamaṉamuṇ ṇāḍiyuḷa naṇṇavē
nāṉā mavaṉḏṟalai nāṇamuṟa — nāṉāṉāt
tōṉḏṟumoṉḏṟu tāṉāhat tōṉḏṟiṉunā ṉaṉḏṟuporuḷ
pūṉḏṟamadu tāṉām poruḷ
.

பதச்சேதம்: நான் ஆர் என மனம் உள் நாடி உளம் நண்ணவே, ‘நான்’ ஆம் அவன் தலை நாணம் உற, ‘நான் நான்’ ஆ தோன்றும் ஒன்று தானாக. தோன்றினும், ‘நான்’ அன்று. பொருள் பூன்றம் அது, தான் ஆம் பொருள்.

Padacchēdam (separazione delle parole): nāṉ ār eṉa maṉam uḷ nāḍi uḷam naṇṇavē, ‘nāṉ’ ām avaṉ talai nāṇam uṟa, ‘nāṉ nāṉ’ ā tōṉḏṟum oṉḏṟu tāṉāha. tōṉḏṟiṉum, ‘nāṉ’ aṉḏṟu. poruḷ-pūṉḏṟam adu, tāṉ ām poruḷ.

அன்வயம்: நான் ஆர் என மனம் உள் நாடி உளம் நண்ணவே, ‘நான்’ ஆம் அவன் தலை நாணம் உற, ‘நான் நான்’ ஆ ஒன்று தானாக தோன்றும். தோன்றினும், ‘நான்’ அன்று. அது பூன்றப் பொருள், தான் ஆம் பொருள்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): nāṉ ār eṉa maṉam uḷ nāḍi uḷam naṇṇavē, ‘nāṉ’ ām avaṉ talai nāṇam uṟa, ‘nāṉ nāṉ’ ā oṉḏṟu tāṉāha tōṉḏṟum. tōṉḏṟiṉum, ‘nāṉ’ aṉḏṟu. adu pūṉḏṟa-p-poruḷ, tāṉ ām poruḷ.

Traduzione: Quando la mente raggiunge il cuore investigando interiormente chi sono io, [e] quando egli che è ‘io’ [a causa di ciò] muore, una cosa [o l’unica] appare spontaneamente [o come sé stessa] come ‘io sono io’. Sebbene essa appaia, non è ‘io’ [l’ego]. È poruḷ-pūṉḏṟam [l’intera sostanza, la realtà totale o pūrṇa-vastu], la sostanza che è sé stessa.
La natura del nostro ego è quella di comparire nella veglia e nel sogno e di scomparire in altri stati come il sonno, mentre la natura del nostro sé reale è di risplendere eternamente senza mai comparire o scomparire (come Bhagavan dice esplicitamente nel verso 7 di Uḷḷadu Nāṟpadu), perché è il tutto infinito e l’unica sostanza reale. Di conseguenza dopo aver detto nella prima frase di questo verso che quando l’’io’ (l’ego) muore, l’uno appare spontaneamente come ‘io sono io’, nella seconda frase dice, ‘தோன்றினும், ‘நான்’ அன்று’ (tōṉḏṟiṉum, ‘nāṉ’ aṉḏṟu), che significa ‘Sebbene esso appaia, non è ‘io’ [l’ego]’. Esso non appare nella propria visione – perché è pura auto-consapevolezza, incontaminata anche dalla minima consapevolezza di qualsiasi altra cosa, così è sempre chiaramente consapevole di sé stesso come ‘io sono io’ – ma solo nella visione dell’ego (come ho spiegato sopra nella sezione 5).

Tuttavia, esso appare solo quando l’ego sta sprofondando e si sta fondendo nella sua sorgente, il nostro sé reale, che è ciò a cui Bhagavan si riferisce qui come உளம் (uḷam), il cuore, e appena appare, inghiotte e consuma interamente l’ego in sé stesso, perché è l’infinita chiarezza di pura auto-consapevolezza, così è come una luce che è così brillante che niente altro può essere visto in essa, come Bhagavan indica nel verso 27 di Śrī Aruṇācala Akṣaramaṇamālai e nel verso 1 di Śrī Aruṇācala Pañcaratnam:
சகலமும் விழுங்குங் கதிரொளி யினமன
      சலச மலர்த்தியி டருணாசலா.

sakalamum viṙuṅguṅ kadiroḷi yiṉamaṉa
      jalaja malarttiyi ḍaruṇācalā
.

பதச்சேதம்: சகலமும் விழுங்கும் கதிர் ஒளி இன மன சலசம் அலர்த்தியிடு அருணாசலா

Padacchēdam (separazione delle parole): sakalamum viṙuṅgum kadir oḷi iṉa, maṉa-jalajam alartti-y-iḍu aruṇācalā.

Traduzione : Arunachala, sole dai raggi brillanti che inghiottono ogni cosa, fai fiorire la [mia] mente di loto.


அருணிறை வான வமுதக் கடலே
விரிகதிரால் யாவும் விழுங்கு — மருண
கிரிபரமான் மாவே கிளருளப்பூ நன்றாய்
விரிபரிதி யாக விளங்கு.

aruṇiṟai vāṉa vamudak kaḍalē
virikadirāl yāvum viṙuṅgu — maruṇa
giriparamāṉ māvē kiḷaruḷappū naṉḏṟāy
viriparidhi yāha viḷaṅgu
.

பதச்சேதம்: அருள் நிறைவு ஆன அமுத கடலே விரி கதிரால் யாவும் விழுங்கும் அருணகிரி பரமான்மாவே கிளர் உள பூ நன்றாய் விரி பரிதி ஆக விளங்கு.

Padacchēdam (separazione delle parole): aruḷ niṟaivu āṉa amuda-k-kaḍalē, viri kadirāl yāvum viṙuṅgum aruṇagiri paramāṉmāvē, kiḷar uḷa-p-pū naṉḏṟāy viri paridhi āha viḷaṅgu.

Traduzione: O Oceano di amṛta [l’ambrosia dell’immortalità], che è la pienezza della grazia, O Supremo Sé, Arunagiri, che inghiotti ogni cosa con i [tuoi] raggi diffusi [di pura auto-consapevolezza], risplendi come il sole che fa fiorire pienamente il [mio] germogliante cuore di loto.
Il nostro vero sé, che risplende eternamente senza interruzione come ‘io sono io’, è l’unica vera luce, così in esso l’ego, che è la falsa luce riflessa che risplende con intermittenza come ‘io sono questo’, non può stare, e in assenza di qualche ego niente altro può sembrare esistere (poiché ogni altra cosa sembra esistere solo nella visione illusa di questo ego illusorio), così quando ci rivolgiamo all’interno per vedere noi stessi, la chiarezza assoluta di pura auto-consapevolezza che a causa di ciò risplenderà da dentro di noi inghiottirà per sempre il nostro ego e ogni altra cosa, e solo lo spazio silente ed infinito di pura auto-consapevolezza rimarrà risplendente in tutta la sua gloria assoluta.

8. Āṉma-Viddai verso 2: ciò che risplende come ‘io sono io’ è lo spazio unico, silente e beato di pura auto-consapevolezza

Un altro verso in cui Bhagavan esprime insegnamenti simili a quelli che ci dà nei versi 18, 19 e 20 di Upadēśa Undiyār e nel verso 30 di Uḷḷadu Nāṟpadu è il verso 2 di Āṉma-Viddai:
ஊனா ருடலிதுவே நானா மெனுநினைவே
நானா நினைவுகள்சே ரோர்நா ரெனுமதனா
னானா ரிடமெதென்றுட் போனா னினைவுகள்போய்
நானா னெனக்குகையுட் டானாய்த் திகழுமான்ம —
    ஞானமே; இதுவே மோனமே; ஏக வானமே;
      இன்பத் தானமே. (ஐயே)

ūṉā ruḍaliduvē nāṉā meṉuniṉaivē
nāṉā niṉaivugaḷsē rōrnā reṉumadaṉā
ṉāṉā riḍamedeṉḏṟuṭ pōṉā ṉiṉaivugaḷpōy
nāṉā ṉeṉakkuhaiyuṭ ṭāṉāyt tikaṙumāṉma —
     jñāṉamē; iduvē mōṉamē; ēka vāṉamē;
      iṉbat tāṉamē
. (aiyē)

பதச்சேதம்: ‘ஊன் ஆர் உடல் இதுவே நான் ஆம்’ எனும் நினைவே நானா நினைவுகள் சேர் ஓர் நார் எனும் அதனால், ‘நான் ஆர் இடம் எது?’ [அல்லது, ‘நான் ஆர்? இடம் எது?’] என்று உள் போனால், நினைவுகள் போய், ‘நான் நான்’ என குகை உள் தானாய் திகழும் ஆன்ம ஞானமே. இதுவே மோனமே; ஏக வானமே; இன்ப தானமே. (ஐயே, அதி சுலபம், ...)

Padacchēdam (separazione delle parole): ‘ūṉ ār uḍal iduvē nāṉ ām’ eṉum niṉaivē nāṉā niṉaivugaḷ sēr ōr nār eṉum adaṉāl, nāṉ ār iḍam edu eṉḏṟu uḷ pōṉāl, niṉaivugaḷ pōy, ‘nāṉ nāṉ’ eṉa guhai uḷ tāṉāy tikaṙum āṉma-jñāṉamē. iduvē mōṉamē; ēka vāṉamē; iṉba-tāṉamē. (aiye, ati sulabham, ...)

அன்வயம்: ‘ஊன் ஆர் உடல் இதுவே நான் ஆம்’ எனும் நினைவே நானா நினைவுகள் சேர் ஓர் நார் எனும் அதனால், ‘நான் ஆர் இடம் எது?’ (அல்லது, ‘நான் ஆர்? இடம் எது?’) என்று உள் போனால், நினைவுகள் போய், குகை உள் ‘நான் நான்’ என ஆன்ம ஞானமே தானாய் திகழும். இதுவே மோனமே; ஏக வானமே; இன்ப தானமே. (ஐயே, அதி சுலபம், ...)

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): ‘ūṉ ār uḍal iduvē nāṉ ām’ eṉum niṉaivē nāṉā niṉaivugaḷ sēr ōr nār eṉum adaṉāl, nāṉ ār iḍam edu eṉḏṟu uḷ pōṉāl, niṉaivugaḷ pōy, guhai uḷ ‘nāṉ nāṉ’ eṉa āṉma-jñāṉamē tāṉāy tihaṙum. iduvē mōṉamē; ēka vāṉamē; iṉba-tāṉamē. (aiye, ati sulabham, ...)

Traduzione: Poiché solo il pensiero ‘questo corpo composto di carne è ‘io’' è l’unica stringa su cui [tutti] i vari pensieri sono infilati, se [uno] va all’interno [investigando] qual è il luogo da cui ‘io’ si espande, i pensieri cesseranno, e nella caverna [del proprio cuore] ātma-jñāna [auto-conoscenza] risplenderà spontaneamente come ‘io sono io’. Questo è silenzio, l’unico spazio [di pura consapevolezza], la dimora della beatitudine. ([Dunque] ah, la scienza del sé è estremamente facile, ah, estremamente facile!).
Nel verso 20 di Upadēśa Undiyār egli descrive ciò che appare spontaneamente come ‘io sono io’ come ஒன்று (oṉḏṟu), unico, e பூன்றம் (pūṉḏṟam), il tutto infinito o pūrṇa; nel verso 20 di Upadēśa Sāram lo descrive come हृत् (hṛt), il cuore, e ‘परम पूर्ण सत्’ (parama pūrṇa sat), la realtà totale suprema; nel verso 30 di Uḷḷadu Nāṟpadu lo descrive come ஒன்று (oṉḏṟu), uno, ‘பொருள் பூன்றம்’ (poruḷ-pūṉḏṟam), l’intera sostanza, realtà totale o pūrṇa-vastu, e ‘தான் ஆம் பொருள்’ (tāṉ ām poruḷ), la sostanza che è sé stessa; e in questo verso lo descrive come ஆன்ம ஞானம் (āṉma-jñāṉam), auto-conoscenza (nel senso di pura auto-consapevolezza), மோனம் (mōṉam), silenzio, ஏக வானம் (ēka vāṉam), l’unico spazio, e இன்ப தானம் (iṉba-tāṉam), la dimora della beatitudine. Cioè, è la sola cosa unica, il tutto infinito, l’unica sostanza reale, il cuore, il nostro sé reale, e lo spazio singolo, silente, e beato di pura auto-consapevolezza.

E come indicato in questo verso, nel verso 19 di Upadēśa Undiyār e nel verso 30 di Uḷḷadu Nāṟpadu, il mezzo per sperimentare noi stessi in questo modo è rivolgersi all’interno (lontano da tutte le cose esterne ed estranee) per investigare noi stessi, il ‘luogo’ o sorgente da cui siamo sorti come questo ego. Quando ritiriamo la nostra attenzione da ogni altra cosa focalizzandola accuratamente soltanto su noi stessi, vedremo chiaramente che ciò che ‘io’ è realmente è solo ‘io’ e niente altro che ‘io’, e in questo modo rimarremo soli nel silente e vuoto spazio della nostra semplice e beata auto-consapevolezza, oltre alla quale niente esiste realmente.

9. Upadēśa Undiyār verso 21: ciò che risplende come ‘io sono io’ è il significato reale della parola ‘io’

Nei versi 18, 19 e 20 di Upadēśa Undiyār Bhagavan si riferisce all’ego come ‘io’, ma egli intende chiaramente che non è ciò che ‘io’ è realmente, perché non è permanente, e se investighiamo da dove sorge, esso morirà. Dove esso muore e si fonde, l’unico tutto infinito risplenderà come ‘io sono io’, così questo è ciò che ‘io’ è realmente, come egli afferma inequivocabilmente nel verso 21:
நானெனுஞ் சொற்பொரு ளாமது நாளுமே
நானற்ற தூக்கத்து முந்தீபற
      நமதின்மை நீக்கத்தா லுந்தீபற.

nāṉeṉuñ coṯporu ḷāmadu nāḷumē
nāṉaṯṟa tūkkattu mundīpaṟa
      namadiṉmai nīkkattā lundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: நான் எனும் சொல் பொருள் ஆம் அது நாளுமே, நான் அற்ற தூக்கத்தும் நமது இன்மை நீக்கத்தால்.

Padacchēdam (separazione delle parole): nāṉ eṉum sol poruḷ ām adu nāḷumē, nāṉ aṯṟa tūkkattum namadu iṉmai nīkkattāl.

அன்வயம்: நான் அற்ற தூக்கத்தும் நமது இன்மை நீக்கத்தால், நான் எனும் சொல் பொருள் நாளுமே அது ஆம்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): nāṉ aṯṟa tūkkattum namadu iṉmai nīkkattāl, nāṉ eṉum sol poruḷ nāḷumē adu ām.

Traduzione: Quello è in ogni momento il significato della parola chiamata ‘io’, per l’esclusione della nostra non-esistenza anche nel sonno, che è privo di ‘io’ [l’ego].
Ciò a cui egli si riferisce qui come ‘அது’ (adu) o ‘quello’ è l’unico tutto infinito (pūṉḏṟam) a cui si è riferito nel verso precedente, che ha detto apparirà spontaneamente come ‘நான் நான்’ (nāṉ nāṉ) o ‘io sono io’ dove il nostro ego si fonde, così ciò che egli intende chiaramente in questo verso è che il nostro sé reale è sempre il vero significato del termine ‘நான்’ (nāṉ) o ‘io’. Cioè, anche se il nostro ego è ora sperimentato da noi come ‘io’, ciò che sembra essere questo ego è solo la nostra auto-consapevolezza fondamentale, che sola è il nostro sé reale, così ciò a cui il termine ‘io’ si riferisce realmente è solo l’auto-consapevolezza fondamentale che siamo realmente.

La ragione che Bhagavan fornisce in questo verso per dire, ‘நான் எனும் சொல் பொருள் ஆம் அது நாளுமே’ (nāṉ eṉum sol poruḷ ām adu nāḷumē), che significa ‘Quello è in ogni momento il significato della parola chiamata ‘io’, è ‘நான் அற்ற தூக்கத்தும் நமது இன்மை நீக்கத்தால்’ (nāṉ aṯṟa tūkkattum namadu iṉmai nīkkattāl), che significa letteralmente ‘per l’esclusione della nostra non-esistenza anche nel sonno, che è privo di io [o in cui io cessa di esistere]’ e che implica ‘perché non cessiamo di esistere anche nel sonno, che è privo dell’ego’. Cioè, poiché nel sonno continuiamo ad esistere (e ad essere consapevoli della nostra esistenza) anche se il nostro ego ha cessato di esistere, il reale significato del termine ‘io’ non è l’ego effimero ma solo il nostro sé permanente, che sempre risplende chiaramente come ‘io sono io’.

10. Upadēśa Undiyār verso 22: il corpo e le altre aggiunte non sono reali e non sono consapevoli, così essi non sono ‘io’

Quando l’ego è annientato dal chiaro risplendere di noi stessi come ‘io sono io’, niente altro ci rimarrà da confondere come ‘io’, ma se questo ego non è annientato continuerà a sorgere e a sperimentare simultaneamente sé stesso come un corpo ed altre aggiunte associate. Nella filosofia vēdānta le aggiunte che il nostro ego confonde come ‘io’ sono generalmente classificate in cinque ‘guaine’ o coperture, e nel verso 5 di Uḷḷadu Nāṟpadu Bhagavan dice che tutte cinque sono incluse nel termine ‘corpo’, da cui possiamo dedurre che quando egli descrive l’ego come la consapevolezza ‘io sono questo corpo’, ciò che intende con ‘corpo’ non è solo il corpo fisico ma anche le altre quattro guaine.

Queste cinque guaine sono il corpo fisico, il prāṇa (il respiro, la vita o la forza vitale all’interno di esso), la mente, l’intelletto e l’apparente oscurità dell’ignoranza nonché la felicità che rimane nel sonno quando le altre quattro guaine sono scomparse. Sebbene ciò che sperimentiamo nel sonno è considerata una guaina, è solo nella visione del nostro ego nella veglia e nel sogno che il sonno sembra essere uno stato di oscurità o ignoranza, così ciascuna di queste cinque guaine sembrano esistere solo quando l’ego sembra esistere, ed esse cessano di esistere in sua assenza, perché sono tutte una proiezione dell’ego e sono sperimentare solo da esso.

Poiché esse esistono solo nella visione dell’ego, e poiché cessano di esistere nel sonno quando l’ego è annientato, nessuna di esse esiste realmente o è realmente cosciente. Quindi nel verso 22 di Upadēśa Undiyār Bhagavan dice che esse non sono ‘io’, perché ‘io’ è ciò che esiste realmente (sat) e ciò che solo è effettivamente reale (cit):
உடல்பொறி யுள்ள முயிரிரு ளெல்லாஞ்
சடமசத் தானதா லுந்தீபற
      சத்தான நானல்ல வுந்தீபற.

uḍalpoṟi yuḷḷa muyiriru ḷellāñ
jaḍamasat tāṉadā lundīpaṟa
      sattāṉa nāṉalla vundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: உடல் பொறி உள்ளம் உயிர் இருள் எல்லாம் சடம் அசத்து ஆனதால், சத்து ஆன நான் அல்ல.

Padacchēdam (separazione delle parole): uḍal poṟi uḷḷam uyir iruḷ ellām jaḍam asattu āṉadāl, sattu āṉa nāṉ alla.

Traduzione: Poiché il corpo, la mente, l’intelletto, la vita e l’oscurità [l’apparente ignoranza che risulta nel sonno dall’assenza di ogni consapevolezza transitiva] sono tutti jaḍa [non-coscienti] e asat [irreali o non-esistenti], [essi] non sono ‘io’, che è [cit o consapevolezza] e sat [ciò che esiste realmente].
Ponendo questo verso dopo i versi 19, 20 e 21, in cui egli ci ha insegnato che l’ego morirà se lo investighiamo in modo sufficientemente accurato, che il nostro sé infinito allora risplenderà come ‘io sono io’, e che solo quello è quindi ciò a cui si riferisce realmente la parola ‘io’, Bhagavan intende che possiamo eliminare l’illusione che queste cinque guaine sono ‘io’ solo investigando noi stessi e quindi annientando l’ego che le proietta e le sperimenta come sé stesso. Cioè, è solo sperimentando ciò che ‘io’ è realmente che possiamo distruggere l’illusione che qualsiasi altra cosa sia ‘io’.

Nella visione dell’ego tutte queste cinque guaine sembrano esistere e collettivamente sembrano essere consapevoli, ma in questo verso Bhagavan dice che esse sono jaḍa (insenzienti o non-coscienti) e asat (non-esistenti). Poiché le sperimentiamo come ‘io’, esse ci sembrano reali e consapevoli, ma quando siamo realmente addormentati nessuna di esse sembra esistere e quindi nessuna di esse esiste realmente, e dato che non esistono realmente non possono realmente essere consapevoli. L’esistenza e la consapevolezza che esse sembrano avere sono solo un riflesso illusorio della nostra esistenza e consapevolezza.

Poiché esse sono jaḍa e asat, Bhagavan dice che non sono ‘io’, che è sat, e sebbene non lo dice esplicitamente, intende che ‘io’ non è solo sat (ciò che esiste realmente) ma anche cit (ciò che è realmente consapevole), come conferma nel verso successivo (verso 23), in cui dice che poiché non ci può essere consapevolezza diversa da ciò che esiste per essere consapevole di ciò che esiste, ciò che esiste è consapevolezza, e la consapevolezza sola è ciò che siamo realmente. In altre parole, ciò che ‘io’ è realmente è solo consapevolezza, ma non è consapevolezza transitiva (consapevolezza di qualsiasi cosa diversa da sé stessa), perché la consapevolezza transitiva è un fenomeno transitorio che compare nella veglia e nel sogno e scompare nel sonno, così è solo consapevolezza intransitiva (consapevolezza che è solo consapevole senza essere consapevole di qualcosa tranne sé stessa).

11. Upadēśa Undiyār verso 23: noi siamo l’unica esistenza-consapevolezza che sempre risplende come ‘io sono’

Ho iniziato questo articolo discutendo se Nisargadatta può essere nel giusto intendendo che ciò che è reale non è solo ‘io sono’ ma qualcosa dietro ‘io sono’, e come ho spiegato nella sezione 2 c’è una differenza fondamentale tra la funzione di ‘sono’ nell’affermazione ‘io sono’ e la sua funzione in un’affermazione come ‘io sono questo’, perché nell’‘io sono’ esso indica semplicemente l’esistenza di ‘io’, che è indiscutibilmente vera, mentre nell’’io sono questo’ indica l’identità di ‘io’ con qualcosa diversa da ‘io’, che è necessariamente falso.

Come possiamo vedere in molti dei versi che ho discusso nelle varie sezioni, Bhagavan ha spesso usato il pronome ‘io’ per riferirsi all’ego, ma ha reso chiaro che l’ego non è il vero significato di questo pronome, perché nel sonno siamo consapevoli di noi stessi come ‘io’ anche in assenza dell’ego. ‘Io’ è un pronome che si riferisce sempre solo a noi stessi, ma poiché noi sembriamo essere questo ego, generalmente lo usiamo per riferirci a questo ego come noi stessi, di conseguenza ha spesso usato ‘io’ per riferirsi all’ego, anche se ci ha spinto a domandarci e a investigare se questo ego è ciò che siamo realmente.

In Tamil la parola abituale per ‘io’ è நான் (nāṉ) e la parola abituale per sé stessi è தான் (tāṉ), e Bhagavan usava entrambi questi termini per riferirsi al nostro sé reale, qualche volta al nostro ego e spesso a noi stessi in generale, così sta a noi comprendere da ciascun contesto se egli si sta riferendo in modo specifico al nostro sé reale, al nostro ego, o a noi stessi in generale (come nella domanda ‘chi sono io?’, in cui ‘io’ non si riferisce specificatamente al nostro sé reale o al nostro ego ma a noi stessi in generale, perché quando investighiamo chi siamo inizialmente sembriamo essere questo ego, ma se investighiamo noi stessi abbastanza accuratamente scopriremo che l’’io’ che stavamo investigando non è realmente questo ego ma solo il nostro sé reale). Tuttavia, anche se Bhagavan usava ‘io’ per riferirsi sia al nostro sé reale che al nostro ego, ogni volta che ha usato il termine ‘io sono’ si stava riferendo al nostro sé reale, perché il ‘sono’ in ‘io sono’ si riferisce in modo specifico alla nostra esistenza o essere, che è ciò che siamo realmente. Il nostro ego non è ciò che siamo realmente ma solo ciò che sembriamo essere, così non è la nostra vera esistenza ma solo la nostra esistenza apparente.

La forma completa del termine Tamil per ‘io sono io’ è ‘நான் இருக்கிறேன்’ (nāṉ irukkiṟēṉ) o ‘நான் இருக்கின்றேன்’ (nāṉ irukkiṉḏṟēṉ), ma poiché tutti i verbi Tamil sono coniugati, la terminazione di ciascuna delle loro forme finite indica precisamente il loro tempo, la persona e il numero, e anche il genere nel caso delle forme di terza persona, così è abitudine omettere ogni pronome che serve come il soggetto di un verbo finito, poiché il pronome rilevante è chiaramente indicato dalla terminazione del verbo. Quindi il modo abituale di esprimere ‘io sono’ in Tamil è semplicemente இருக்கிறேன் (irukkiṟēṉ) o இருக்கின்றேன் (irukkiṉḏṟēṉ), e ogni volta che Bhagavan ha usato l’una o l’altra di queste forme del verbo ‘sono’ nel senso di ‘io sono’, ciò a cui si stava riferendo era noi stessi come siamo realmente.

Anche in Inglese, quando diciamo ‘io sono’, o in qualche altro linguaggio quando diciamo l’equivalente di ‘io sono’, ciò a cui ci stiamo riferendo è l’esistenza di noi stessi. Poiché ora sembriamo essere una certa persona, quando diciamo ‘io sono’ può superficialmente sembrare che stiamo specificando l’esistenza di noi stessi come questa persona, ma se osserviamo attentamente la nostra consapevolezza ‘io sono’, dovrebbe esserci chiaro che ciò a cui il termine ‘io sono’ si riferisce effettivamente è qualcosa di più profondo della sola persona che ora sembriamo essere, e più profondo anche di ciò che è consapevole della sua apparente esistenza come questa persona, perché quando cerchiamo di mettere da parte la nostra consapevolezza di ogni altra cosa per osservare da sola la nostra consapevolezza ‘io sono’, essa risplende soltanto come quello che è semplicemente consapevole della propria esistenza.

Quindi quando osserviamo attentamente la nostra consapevolezza ‘io sono’, dovremmo naturalmente sentirci spinti a chiederci cosa siamo realmente, e poiché nessuna quantità di analisi intellettuale può metterci in grado di sperimentare ciò che siamo realmente, possiamo scoprire la risposta corretta a questa domanda solo investigando accuratamente noi stessi – cioè, osservando accuratamente noi stessi per vedere cosa è realmente questo ‘io’. Ciò che stiamo cercando non è qualcosa dietro questo ‘io sono' ma ciò che questo ‘io sono’ è realmente. In altre parole, stiamo cercando di conoscere chi o cosa sono io.

Ciò che è dietro o ciò che sottende la consapevolezza mischiata ad aggiunte ‘io sono questa persona’ è la nostra consapevolezza fondamentale della nostra esistenza, ‘io sono’, ma non dovremmo aspettarci di trovare qualcos’altro dietro o alla base di questa consapevolezza fondamentale, perché qualsiasi cosa dietro o alla base di essa sarebbe qualcosa diversa da noi stessi, e qualunque cosa diversa da noi stessi è impermanente e quindi irreale, perché compare e scompare nella nostra consapevolezza, e non sembra esistere nel sonno. La sola cosa di cui siamo permanentemente consapevoli è noi stessi, così noi soli (questo puro ‘io sono’) siamo ciò che è reale.

Poiché siamo la consapevolezza che è consapevole della nostra esistenza come ‘io sono’, siamo sia ciò che esiste (uḷḷadu) sia ciò che è consapevole (uṇarvu), come Bhagavan ci insegna nel verso 23 di Upadēśa Undiyār:
உள்ள துணர வுணர்வுவே றின்மையி
னுள்ள துணர்வாகு முந்தீபற
      வுணர்வேநா மாயுள முந்தீபற.

uḷḷa duṇara vuṇarvuvē ṟiṉmaiyi
ṉuḷḷa duṇarvāhu mundīpaṟa
      vuṇarvēnā māyuḷa mundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: உள்ளது உணர உணர்வு வேறு இன்மையின், உள்ளது உணர்வு ஆகும். உணர்வே நாமாய் உளம்.

Padacchēdam (separazione delle parole): uḷḷadu uṇara uṇarvu vēṟu iṉmaiyiṉ, uḷḷadu uṇarvu āhum. uṇarv[u]-ē nām-āy uḷam.

அன்வயம்: உள்ளது உணர வேறு உணர்வு இன்மையின், உள்ளது உணர்வு ஆகும். உணர்வே நாமாய் உளம்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): uḷḷadu uṇara vēṟu uṇarvu iṉmaiyiṉ, uḷḷadu uṇarvu āhum. uṇarvē nām-āy uḷam.

Traduzione: A causa della non-esistenza di [qualsiasi] consapevolezza diversa [da ciò che esiste] che sia consapevole di ciò che esiste, ciò che esiste (uḷḷadu) è consapevolezza (uṇarvu). Solo la consapevolezza esiste come noi.
Poiché noi siamo ciò che esiste come ‘io sono’ e ciò che è consapevole della nostra esistenza come ‘io sono’, ciò che dovremmo cercare non è nient’altro che noi stessi, questa unica esistenza-consapevolezza (sat-cit) che sempre risplende come ‘io sono’. Immaginare che c’è qualche realtà che abbiamo bisogno di cercare oltre o dietro questo ‘io sono’ sarebbe illudere e distrarre noi stessi dal focalizzare tutto il nostro interesse e l’attenzione nel cercare di conoscere solo chi sono io.

12. Upadēśa Undiyār verso 24: ciò che apparentemente ci separa dalla realtà che siamo realmente è solo la nostra consapevolezza di aggiunte

Solo ‘io sono’ senza alcuna aggiunta è ciò che esiste realmente (uḷḷadu o sat), così è la sola realtà. Solo quando esso sembra essere mischiato e confuso con aggiunte sembra essere qualcosa diversa dall’unica realtà infinita che è realmente, come Bhagavan intende nel verso 24 di Upadēśa Undiyār:
இருக்கு மியற்கையா லீசசீ வர்க
ளொருபொரு ளேயாவ ருந்தீபற
      வுபாதி யுணர்வேவே றுந்தீபற.

irukku miyaṟkaiyā līśajī varga
ḷoruporu ḷēyāva rundīpaṟa
      vupādhi yuṇarvēvē ṟundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: இருக்கும் இயற்கையால் ஈச சீவர்கள் ஒரு பொருளே ஆவர். உபாதி உணர்வே வேறு.

Padacchēdam (separazione delle parole): irukkum iyaṟkaiyāl īśa jīvargaḷ oru poruḷē āvar. upādhi-uṇarvē vēṟu.

Traduzione: Per la [loro] natura esistente, Dio e le anime sono una sola sostanza. Solo la [loro] consapevolezza di aggiunte è differente.
‘இருக்கும் இயற்கை’ (irukkum iyaṟkai) significa ‘natura esistente’, così in questo contesto significa che la nostra natura fondamentale è ciò che esiste (uḷḷadu), che è ciò che risplende come ‘io sono’. Quindi dicendo ‘இருக்கும் இயற்கையால் ஈச சீவர்கள் ஒரு பொருளே ஆவர்’ (irukkum iyaṟkaiyāl īśa jīvargaḷ oru poruḷē āvar), che significa ‘Per la natura esistente, Dio e le anime sono una sola sostanza’, Bhagavan intende che l’unica sostanza che noi e Dio realmente siamo è la nostra esistenza, che è ciò che sperimentiamo come ‘io sono’.

Sebbene īśa generalmente significa Dio come il governante supremo dell’universo, la sostanza esistente (poruḷ o vastu) che appare come Dio è solo brahman, l’unica realtà fondamentale che siamo realmente. Quindi ciò che Bhagavan intende nella prima frase di questo verso è che ciò che noi e Dio entrambi siamo essenzialmente è solo brahman.

Tuttavia, anche se noi come un jīva (un’anima o ego) e Dio come il governante supremo dell’universo siamo uno, nella visione di noi stessi come questo jīva sembriamo essere differenti, così nella seconda frase di questo verso Bhagavan dice, ‘உபாதி உணர்வே வேறு’ (upādhi-uṇarvē vēṟu), che significa ‘Solo la consapevolezza di aggiunte è differente’, intendendo con questo che ciò che ci fa sembrare qualcosa diversa da Dio o brahman è solo la nostra consapevolezza di aggiunte, che abbiamo mischiato e confuso con la nostra consapevolezza fondamentale ‘io sono’.

Senza alcuna aggiunta (come siamo, per esempio, nel sonno) siamo consapevoli di noi stessi solo come ‘io sono’, ma quando la nostra auto-consapevolezza è mischiata e confusa con la consapevolezza di aggiunte siamo consapevoli di noi stessi non solo come ‘io sono’ ma come ‘io sono questo’ o ‘io sono quello’. Questa auto-consapevolezza mischiata ad aggiunte è ciò che è chiamato ego, e poiché questo ego ha attribuito a sé stesso delle aggiunte, nello stesso modo attribuisce delle aggiunte a Dio, così mentre esso sperimenta sé stesso come qualcosa di potere limitato, di conoscenza limitata e di amore limitato, attribuisce a Dio aggiunte come avere potere illimitato, conoscenza illimitata e amore illimitato. Tuttavia, poiché Dio è l’unica realtà infinita, la sua vera natura non può essere adeguatamente concepita o conosciuta dalla mente limitata di questo jīva che ora sembriamo essere, così qualunque cosa attribuiamo a lui sembra essere reale solo nella nostra limitata visione e non nella sua visione infinita. Nella sua visione egli non ha aggiunte, perché non è consapevole di nient’altro che sé stesso, così è consapevole di sé stesso come è.

13. Upadēśa Undiyār verso 25: essere consapevoli di ‘io sono’ senza aggiunte è essere consapevoli della realtà

Così finché siamo consapevoli di noi sessi come qualche aggiunta non possiamo essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente, e quindi non possiamo essere consapevoli di Dio come è realmente. Perciò è solo vedendo noi stessi senza alcuna aggiunta che possiamo vedere noi stessi come siamo realmente e che possiamo di conseguenza vedere Dio come è realmente, dato che egli non è niente altro che il nostro sé reale, come Bhagavan spiega nel verso 25 di Upadēśa Undiyār:
தன்னை யுபாதிவிட் டோர்வது தானீசன்
றன்னை யுணர்வதா முந்தீபற
      தானா யொளிர்வதா லுந்தீபற.

taṉṉai yupādhiviṭ ṭōrvadu tāṉīśaṉ
ḏṟaṉṉai yuṇarvadā mundīpaṟa
      tāṉā yoḷirvadā lundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: தன்னை உபாதி விட்டு ஓர்வது தான் ஈசன் தன்னை உணர்வது ஆம், தானாய் ஒளிர்வதால்.

Padacchēdam (separazione delle parole): taṉṉai upādhi viṭṭu ōrvadu tāṉ īśaṉ taṉṉai uṇarvadu ām, tāṉ-āy oḷirvadāl.

அன்வயம்: தானாய் ஒளிர்வதால், தன்னை உபாதி விட்டு ஓர்வது தான் ஈசன் தன்னை உணர்வது ஆம்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): tāṉ-āy oḷirvadāl, taṉṉai upādhi viṭṭu ōrvadu tāṉ īśaṉ taṉṉai uṇarvadu ām.

Traduzione: Conoscere [o sperimentare] sé stessi lasciando da parte le aggiunte è conoscere Dio, perché [egli] risplende come sé stessi.
Quando siamo consapevoli di noi stessi senza essere consapevoli di qualche aggiunta, siamo consapevoli di noi stessi come siamo realmente, e poiché Dio non è niente altro che ciò che siamo realmente, essere consapevoli di noi stessi senza alcuna aggiunta è essere consapevoli di Dio come è realmente. Poiché ciò che siamo realmente è solo la fondamentale auto-consapevolezza senza aggiunte che sempre sperimentiamo come ‘io sono’, non c’è un’altra realtà dietro, oltre o alla base di ‘io sono’.

‘Io sono’ è la nostra இருக்கும் இயற்கை (irukkum iyaṟkai) o ‘natura esistente’, che è la ஒரு பொருள் (oru poruḷ) o ‘unica sostanza’ che realmente esiste come la sola realtà che sottende tutte le apparenze. La radice di tutte queste apparenze è noi stessi come questo ego o jīva, che è sorto come l’auto-consapevolezza legata ad aggiunte ‘io sono questo’, perché tutte le altre apparenze come il mondo e Dio esistono solo nella distorta visione di questo ego. Tuttavia anche come questo ego siamo consapevoli della nostra esistenza come ‘io sono’, così abbiamo bisogno di rivolgere la nostra intera attenzione lontano da tutte le aggiunte e di focalizzarla esclusivamente su ‘io sono’ per essere consapevoli di noi stessi senza essere consapevoli di qualche aggiunta. Questo è tutto ciò che abbiamo bisogno di fare per conoscere l’unica realtà, perché la realtà non è niente altro che noi stessi, questa pura auto-consapevolezza che sempre risplende in noi come ‘io sono’.

14. Uḷḷadu Nāṟpadu Anubandham verso 29: la chiarezza dell’intelletto risplenderà automaticamente nella forma esteriore di un ātma-jñāni

In risposta alla domanda posta da ‘Estremamente Semplice’, vale a dire ‘Ma perché la realtà dovrebbe essere “proprio dietro l’’io sono’”?’ un altro amico di nome Ken ha scritto un commento in cui attribuiva la chiarezza e la logica degli insegnamenti di Bhagavan al fatto che ‘egli era stato molto educato nel sistema educativo Vittoriano Britannico, e così aveva eccellenti abilità di lettura, scrittura e di pensiero, anche dall’età di 16 anni', ed ha confrontato questo con il fatto che ‘Nisargadatta era una persona appartenente alla classe operaia senza un’educazione formale’, che nel contesto sembrava intendere che gli insegnamenti di Nisargadatta non erano così chiari e logici perché egli mancava della stessa capacità di pensiero a causa del non essere educato formalmente.

Tuttavia, attribuire la semplice logica e chiarezza degli insegnamenti di Bhagavan alla sua educazione scolastica sembra piuttosto non plausibile, tanto meno perché il sistema educativo Britannico nel diciannovesimo secolo in India non era designato ad insegnare il pensiero critico ma a produrre fedeli e obbedienti servi dell’Impero. La sorgente reale della chiarezza di Bhagavan non fu un apprendimento esterno ma solo la sua auto-conoscenza (ātma-jñāna), come indicato da lui stesso nel verso 29 di Uḷḷadu Nāṟpadu Anubandham (che egli ha tradotto dallo Yōga Vāsiṣṭa 5.76.20):
தத்துவங் கண்டவற்குத் தாமே வளருமொளி
புத்திவலு வும்வசந்தம் போந்ததுமே — யித்தரையிற்
றாருவழ காதி சகல குணங்களுஞ்
சேர விளங்கலெனத் தேர்.

tattuvaṅ gaṇḍavaṟkut tāmē vaḷarumoḷi
buddhivalu vumvasantam pōndadumē — yittaraiyiṯ
ṟāruvaṙa hādi sakala guṇaṅgaḷuñ
cēra viḷaṅgaleṉat tēr
.

பதச்சேதம்: தத்துவம் கண்டவற்கு தாமே வளரும் ஒளி, புத்தி வலுவும், வசந்தம் போந்ததுமே இத் தரையில், தாரு அழகு ஆதி சகல குணங்களும் சேர விளங்கல் என. தேர்.

Padacchēdam (separazione delle parole): tattuvam kaṇḍavaṟku tāmē vaḷarum oḷi, buddhi valuvum, vasantam pōndadumē, i-t-taraiyil dāru aṙahu ādi sakala guṇaṅgaḷum sēra viḷaṅgal eṉa. tēr.

அன்வயம்: இத் தரையில் வசந்தம் போந்ததுமே, தாரு அழகு ஆதி சகல குணங்களும் சேர விளங்கல் என, தத்துவம் கண்டவதற்கு ஒளி, புத்தி வலுவும் தாமே வளரும். தேர்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): i-t-taraiyil vasantam pōndadumē, dāru aṙahu ādi sakala guṇaṅgaḷum sēra viḷaṅgal eṉa, tattuvam kaṇḍavaṟku oḷi, buddhi valuvum tāmē vaḷarum. tēr.

Traduzione: Sappi che la lucentezza [splendore, chiarezza o saggezza] e il potere [o abilità] dell’intelletto aumenteranno automaticamente per coloro che hanno visto la realtà, proprio come gli alberi brillano con tutte le qualità come la bellezza appena la primavera giunge su questa terra.
Poiché la pura auto-consapevolezza che siamo realmente è la sorgente originale di tutta la chiarezza e la comprensione, la chiarezza di mente e l’intelletto risplenderanno automaticamente nella forma esteriore di un ātma-jñāni, che si è fuso ed è divenuto uno con quella pura auto-consapevolezza. Quindi la profonda chiarezza che vediamo negli insegnamenti di Bhagavan derivava solo dalla sua auto-conoscenza perfettamente chiara e non da qualche abilità del pensiero che poteva aver acquisito dalla sua educazione scolastica.

Riguardo a Nisargadatta, sebbene egli sia ritenuto un ātma-jñāni, non possiamo sapere quale era realmente il suo stato interiore. Nei libri Inglesi che registrano i suoi insegnamenti sembra esserci un sacco di confusione e di mancanza di chiarezza, e in molti punti importanti i suoi insegnamenti sembrano differire da quelli di Bhagavan, ma questo può essere causato almeno parzialmente da una traduzione scadente o da una registrazione imprecisa di qualsiasi cosa egli abbia detto. Poiché non conosciamo cosa ha detto realmente in Marathi, tutto ciò che possiamo giudicare è ciò che è registrato nei libri Inglesi, che possono non riflettere con precisione la chiarezza che può esserci stata in ciò che ha detto.

Nel caso dell’espressione che ‘Estremamente Semplice’ ha messo in discussione, vale a dire ‘Rilassati e osserva l’’io sono’. La realtà è proprio dietro di esso’, queste parole Inglesi possono essere una distorsione di qualunque cosa egli ha detto in quella occasione, ma ci sono molte altre serie confusioni nei suoi insegnamenti, e alcune di esse sono ripetute così frequentemente che dobbiamo dubitare che i suoi insegnamenti siano così tanto chiari quanto utili come molte persone suppongono che sono. Molte delle più chiare ed utili idee espresse da lui sono ciò che chiunque dovrebbe essere in grado di comprendere avendo studiato un po' la filosofia advaita o gli insegnamenti di qualche insegnante in questa tradizione, e non c’è molto il segno di una qualche particolare chiarezza, profondità e originalità nei suoi insegnamenti come troviamo negli insegnamenti semplici ma estremamente profondi di Bhagavan. Inoltre sembra che molte persone che tengono in grande considerazione i suoi insegnamenti non hanno compreso chiaramente i principi basilari che Bhagavan ci ha insegnato in testi come Nāṉ Yār?, Uḷḷadu Nāṟpadu e Upadēśa Undiyār, perché se essi avessero compreso questi principi sarebbero più scettici e metterebbero in discussione più seriamente il valore di molte delle idee espresse nelle traduzioni Inglesi disponibili e nelle registrazioni di ciò che ha detto Nisargadatta.

Se siamo convinti dalla logica e dalla chiarezza degli insegnamenti di Bhagavan, non dovremmo permettere a noi stessi di essere confusi da qualunque cosa può essere stata insegnata da qualche altro insegnante spirituale, perché nei suoi relativamente pochi e brevi scritti originali Bhagavan ci ha insegnato tutti i principi fondamentali che abbiamo bisogno di comprendere per seguire fedelmente il semplice sentiero dell’auto-investigazione che egli ci ha mostrato, e in nessun altro insegnamento possiamo trovare tale semplicità, profondità e chiarezza. Anche se studiamo molti testi antichi, commentari ed espressioni più moderne della filosofia advaita non saremo in grado di ottenere da questo la stessa chiarezza di comprensione che possiamo trarre dagli scritti originali di Bhagavan, perché egli ha semplificato l’intera filosofia, abbreviando e sfrondando innumerevoli concetti e idee superflue e confondenti, ed esprimendo l’essenza di essa nei termini più semplici, più logici e più chiari, ed ha spiegato la vera pratica ed i principi fondamentali su cui questa pratica è basata più chiaramente e precisamente possibile.

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