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mercoledì 8 febbraio 2017

Uḷḷadu Nāṟpadu verso 12: tranne che la reale consapevolezza che siamo realmente, non c’è niente da conoscere o da rendere conosciuto

Michael James

28 Gennaio 2017
Uḷḷadu Nāṟpadu verse 12: other than the real awareness that we actually are, there is nothing to know or make known

Nella sezione 16 di uno dei miei articoli recenti, Ciò che è consapevole di qualsiasi cosa diversa da noi stessi è solo l’ego e non noi stessi come siamo realmente, ho citato e discusso il verso 12 di Uḷḷadu Nāṟpadu, e dopo averlo letto, un amico che ha tradotto in Italiano molti dei miei articoli e li ha pubblicati sul suo blog, La Caverna del Cuore, ha scritto chiedendomi di spiegare l’esatto significato e l’implicazione di una parola della terza frase che avevo tradotto come ‘da fare conoscere’. Poiché questa è una parola molto significativa che in questo contesto ha un significato ampio e profondo, in questo articolo spiegherò il suo significato.
  1. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 12 e suo significato
  2. La prima frase: la reale consapevolezza è priva di conoscenza e ignoranza di qualsiasi altra cosa
  3. Upadēśa Undiyār verso 27: ciò che è reale è solo consapevolezza priva di conoscenza ed ignoranza, perché per essa non esiste niente da conoscere
  4. La seconda frase: ciò che conosce qualsiasi cosa diversa da sé stesso non è reale consapevolezza
  5. La terza frase: la reale consapevolezza è noi stessi, oltre al quale niente esiste da conoscere o da rendere conosciuto
  6. L’ego è la falsa consapevolezza che conosce altre cose, mentre ciò che siamo realmente è la reale consapevolezza oltre alla quale niente esiste da conoscere
  7. La quarta frase: la reale consapevolezza non è śūnya, vuota o non esistente
  8. La quinta frase: conoscere o essere consapevoli


1. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 12 e suo significato

Nel verso 12 di Uḷḷadu Nāṟpadu Bhagavan dice:
அறிவறி யாமையு மற்றதறி வாமே
யறியும துண்மையறி வாகா — தறிதற்
கறிவித்தற் கன்னியமின் றாயவிர்வ தாற்றா
னறிவாகும் பாழன் றறி.

aṟivaṟi yāmaiyu maṯṟadaṟi vāmē
yaṟiyuma duṇmaiyaṟi vāhā — daṟitaṟ
kaṟivittaṟ kaṉṉiyamiṉ ḏṟāyavirva dāṯṟā
ṉaṟivāhum pāṙaṉ ṟaṟi
.

பதச்சேதம்: அறிவு அறியாமையும் அற்றது அறிவு ஆமே. அறியும் அது உண்மை அறிவு ஆகாது. அறிதற்கு அறிவித்தற்கு அன்னியம் இன்றாய் அவிர்வதால், தான் அறிவு ஆகும். பாழ் அன்று. அறி.

Padacchēdam (separazione delle parole): aṟivu aṟiyāmaiyum aṯṟadu aṟivu āmē. aṟiyum adu uṇmai aṟivu āhādu. aṟidaṟku aṟivittaṟku aṉṉiyam iṉḏṟāy avirvadāl, tāṉ aṟivu āhum. pāṙ aṉḏṟu. aṟi.

Traduzione: Ciò che privo di conoscenza ed ignoranza è realmente conoscenza [o consapevolezza]. Quello che conosce non è reale conoscenza [o consapevolezza]. Poiché esso risplende senza un altro da conoscere o da fare conoscere [o rendere conosciuto], sé stesso è [reale] conoscenza [o consapevolezza]. Esso non è un vuoto. Sappi [o sii consapevole].
2. La prima frase: la reale consapevolezza è priva di conoscenza e ignoranza di qualsiasi altra cosa

அறிவு (aṟivu) e அறியாமை (aṟiyāmai) sono entrambi derivati dal verbo அறி (aṟi), che significa conoscenza o consapevolezza, e அறியாமை (aṟiyāmai) significa ignoranza o non-consapevolezza. La conoscenza e l’ignoranza a cui Bhagavan si riferisce nella prima frase di questo verso quando dice அறிவு அறியாமையும் அற்றது’ (aṟivu aṟiyāmai-y-um aṯṟadu), ‘ciò che è privo di conoscenza o ignoranza’, è conoscenza e ignoranza o consapevolezza e non-consapevolezza di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, perché non possiamo mai non conoscere o non essere consapevoli di noi stessi, poiché l’auto-consapevolezza è la nostra reale natura, e quindi non c’è consapevolezza priva di auto-consapevolezza. Tuttavia, come egli intende in questa prima frase, ‘அறிவு அறியாமையும் அற்றது அறிவு ஆமே’ (aṟivu aṟiyāmaiyum aṯṟadu aṟivu āmē), ‘Ciò che è privo di conoscenza ed ignoranza è realmente consapevolezza’, la nostra reale consapevolezza (la reale consapevolezza che siamo realmente) è priva sia di consapevolezza che di non-consapevolezza di altre cose, perché nella sua chiara visione non ci sono altre cose di cui potrebbe essere consapevole o non consapevole (come egli indica nella terza frase).

Quindi, poiché la conoscenza e l’ignoranza di cui la vera conoscenza o reale consapevolezza è priva, è conoscenza ed ignoranza di cose diverse da noi stessi, ciò che Bhagavan intende in questa prima frase è che la vera conoscenza o reale consapevolezza è pura consapevolezza intransitiva – cioè, consapevolezza intransitiva che è completamente priva anche della minima traccia di சுட்டறிவு (suṭṭaṟivu) o consapevolezza transitiva (consapevolezza di qualsiasi cosa diversa da sé stessa).

In modo che non avessimo alcun dubbio persistente se egli forse intendeva che la reale consapevolezza è solo parzialmente, temporaneamente, o solo in un certo senso priva sia di consapevolezza che di non-consapevolezza di altre cose, nella versione kaliveṇbā di questo verso egli ha esteso questa prima frase aggiungendo all’inizio di essa l’avverbio intensificato அறவே (aṟavē), che significa completamente, totalmente o interamente, e che qualifica அற்றது (aṯṟadu), ‘ciò che è privo di’ o ‘quello che è privo di’. Così la forma estesa di questa frase è ‘அறவே அறிவு அறியாமையும் அற்றது அறிவு ஆமே’ (aṟavē aṟivu aṟiyāmaiyum aṯṟadu aṟivu āmē), che significa ‘Ciò che è completamente privo di conoscenza e ignoranza è realmente conoscenza [o consapevolezza]’, e che quindi implica che la reale consapevolezza o conoscenza è completamente priva di qualsiasi conoscenza o ignoranza (consapevolezza o non-consapevolezza) di qualsiasi cosa diversa da sé stessa, perché niente altro che sé stessa esiste realmente di cui possa essere consapevole o non-consapevole.

3. Upadēśa Undiyār verso 27: ciò che è reale è solo consapevolezza priva di conoscenza ed ignoranza, perché per essa non esiste niente da conoscere

Ciò che Bhagavan dice sinteticamente in questa prima frase l’ha precedentemente spiegato nel verso 27 di Upadēśa Undiyār:
அறிவறி யாமையு மற்ற வறிவே
யறிவாகு முண்மையீ துந்தீபற
வறிவதற் கொன்றிலை யுந்தீபற.

aṟivaṟi yāmaiyu maṯṟa vaṟivē
yaṟivāhu muṇmaiyī dundīpaṟa
vaṟivadaṟ koṉḏṟilai yundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: அறிவு அறியாமையும் அற்ற அறிவே அறிவு ஆகும். உண்மை ஈது. அறிவதற்கு ஒன்று இலை.

Padacchēdam (separazione delle parole): aṟivu aṟiyāmai-y-um aṯṟa aṟivē aṟivu āhum. uṇmai īdu. aṟivadaṟku oṉḏṟu ilai.

அன்வயம்: அறிவு அறியாமையும் அற்ற அறிவே அறிவு ஆகும். ஈது உண்மை. அறிவதற்கு ஒன்று இலை.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): aṟivu aṟiyāmai-y-um aṯṟa aṟivē aṟivu āhum. īdu uṇmai. aṟivadaṟku oṉḏṟu ilai.

Traduzione: Solo la conoscenza che è priva di conoscenza e ignoranza è [reale] conoscenza [o consapevolezza]. Questo è reale, [perché] non c’è qualcosa da conoscere.
‘அறிவு அறியாமையும் அற்ற அறிவு’ (aṟivu aṟiyāmai-y-um aṯṟa aṟivu) significa ‘conoscenza che è priva di conoscenza e ignoranza’ o ‘consapevolezza che è priva di consapevolezza e non-consapevolezza’, e di conseguenza implica consapevolezza che è priva sia di consapevolezza che di non-consapevolezza di qualsiasi altra cosa, così ciò a cui Bhagavan si sta riferendo con questa frase è pura consapevolezza intransitiva (consapevolezza che non è consapevole di niente altro che sé stessa). Concludendo la prima frase di questo verso con la proposizione ‘அறிவே அறிவு ஆகும்’ (aṟivē aṟivu āhum), ‘solo [questa] consapevolezza è consapevolezza’, egli intende che solo la pura consapevolezza intransitiva è reale consapevolezza.

Nella seconda frase di questo verso egli dice semplicemente, ‘உண்மை ஈது’ (uṇmai īdu), che significa ‘questo è reale’ o ‘questa è verità’, e che implica che solo la pura consapevolezza intransitiva (consapevolezza che è priva sia di consapevolezza che di non-consapevolezza di qualsiasi altra cosa) è ciò che è reale. La ragione per questo è spiegato da lui nella frase finale, ‘அறிவதற்கு ஒன்று இலை’ (aṟivadaṟku oṉḏṟu ilai), che significa letteralmente ‘non c’è niente da conoscere’, e che quindi implica che per la reale consapevolezza niente altro esiste da conoscere, che è un punto su cui egli elabora nella terza frase del verso 12 di Uḷḷadu Nāṟpadu, come vedremo in seguito nella quinta sezione.

4. La seconda frase: ciò che conosce qualsiasi cosa diversa da sé stesso non è reale consapevolezza

Nela seconda frase del verso 12 Bhagavan dice, ‘அறியும் அது உண்மை அறிவு ஆகாது’ (aṟiyum adu uṇmai aṟivu āhādu), che significa ‘Quello che conosce non è reale conoscenza [o consapevolezza]’, ma cosa intende esattamente con questo? Perché egli dice che ciò che conosce non è reale consapevolezza? Perché il conoscere a cui qui egli si riferisce è conoscere con un’azione piuttosto che conoscere come il nostro stato naturale di solo essere, e mentre nel nostro stato naturale di solo essere non conosciamo niente diverso da noi stessi, come illustrato dalla nostra esperienza nel sonno, conoscere come un atto di conoscere comporta l’esistenza o esistenza apparente di qualcosa diversa da noi stessi che possiamo conoscere. Quindi se esistesse qualcosa di diverso da noi stessi che possiamo conoscere, l’atto di conoscere sarebbe reale conoscenza, e quello che conosce sarebbe reale consapevolezza, ma come egli dice nella frase successiva di questo verso e nella frase finale del verso 27 di Upadēśa Undiyār, nessuna altra cosa esiste realmente perché la possiamo conoscere, così qualunque cosa conosce qualsiasi cosa diversa da sé stessa non è reale consapevolezza ma è solo una copia auto-illusa di consapevolezza (cidābhāsa).

Cioè, poiché nella frase successiva egli dice che per la reale consapevolezza che siamo realmente niente altro esiste da conoscere, la consapevolezza irreale a cui egli si riferisce qui come ‘அறியும் அது’ (aṟiyum adu), che significa ‘quello che conosce’ o ‘quello che è consapevole’, deve essere qualunque cosa è consapevole dell’apparenza illusoria di qualsiasi altra cosa. Il termine அன்னியம் (aṉṉiyam), che egli usa nella frase successiva quando dice che niente altro esiste da conoscere o da rendere conosciuto, è una forma Tamil del termine Sanscrito अन्य (anya), che significa ciò che è diverso o differente, e in un contesto come questo significa qualsiasi cosa diversa da sé stessi. Quindi, poiché niente esiste diverso dalla consapevolezza reale che siamo realmente, per noi come quella consapevolezza non c’è niente da conoscere o da rendere conosciuto, così ciò che egli intende quando dice in questa frase ‘அறியும் அது உண்மை அறிவு ஆகாது’ (aṟiyum adu uṇmai aṟivu āhādu), ‘Quello che conosce non è reale conoscenza [o consapevolezza]’, è che qualunque cosa conosce qualsiasi cosa diversa da sé stessa non è vera conoscenza o reale consapevolezza. In altre parole, la reale consapevolezza è solo pura auto-consapevolezza (consapevolezza intransitiva) e non consapevolezza di qualsiasi altra cosa (consapevolezza transitiva).

Quindi ciò che il termine ‘அறியும் அது’ (aṟiyum adu), ‘quello che è consapevole’ o ‘quello che conosce’, implica in questo contesto è ‘சுட்டறியும் அது’ (suṭṭaṟiyum adu), che significa ‘quello che è transitivamente consapevole’ o ‘quello che conosce qualsiasi cosa diversa da sé stesso’, così poiché ciò che è transitivamente consapevole (cioè, consapevole di qualsiasi cosa diversa da sé stesso) è solo l’ego, ciò che egli intende qui è che questo ego transitivamente consapevole non è reale consapevolezza.

5. La terza frase: la reale consapevolezza è noi stessi, oltre al quale niente esiste da conoscere o da rendere conosciuto

Il fatto che la reale consapevolezza è solo consapevolezza intransitiva, e che ciò che è solo intransitivamente consapevole è soltanto la reale consapevolezza che siamo realmente, è indicato esplicitamente da Bhagavan nella terza frase di questo verso: ‘அறிதற்கு அறிவித்தற்கு அன்னியம் இன்றாய் அவிர்வதால், தான் அறிவு ஆகும்’ (aṟidaṟku aṟivittaṟku aṉṉiyam iṉḏṟāy avirvadāl, tāṉ aṟivu āhum), che significa ‘Poiché esso risplende senza un altro da conoscere o da fare conoscere [o rendere conosciuto], sé stesso è [reale] conoscenza [o consapevolezza]’. In questo contesto ‘தான்’ (tāṉ), ‘sé stesso’, significa noi stessi come siamo realmente (che è ciò a cui Bhagavan si è riferito spesso come ātma-svarūpa, la ‘propria forma’ o reale natura di sé stessi), così in questa frase egli ci insegna esplicitamente che per noi stessi come siamo realmente non c’è altro (anya), e quindi non c’è niente altro che noi stessi che possiamo conoscere o rendere conosciuto.

In questa frase அறிதற்கு (aṟidaṟku) è una forma dativa di அறிதல் (aṟidal), che è un sostantivo verbale che significa ‘conoscendo’, così (come அறிவதற்கு (aṟivadaṟku) nella frase finale del verso 27 di Upadēśa Undiyār) அறிதற்கு (aṟidaṟku) significa letteralmente ‘per conoscenza’, ma in questo contesto ha lo stesso significato dell’infinito ‘conoscere’ in Inglese. Nello stesso modo அறிவித்தற்கு (aṟivittaṟku) è una forma dativa di அறிவித்தல் (aṟivittal), che è un sostantivo verbale che significa ‘facendo conoscere’, ‘causando di essere conosciuto’ o ‘rendendo conosciuto’, così அறிவித்தற்கு (aṟivittaṟku) significa letteralmente ‘per fare conoscere’, ‘per causare di essere conosciuto’ o ‘per rendere conosciuto’, ma in questo contesto ha lo stesso significato dell’infinito ‘da fare conoscere’, ‘da causare di essere conosciuto’ o ‘da rendere conosciuto’ in Inglese.

La base di questo sostantivo verbale அறிவித்தல் (aṟivittal) e la sua forma dativa அறிவித்தற்கு (aṟivittaṟku) è il verbo அறிவி (aṟivi), che è una forma causativa di அறி (aṟi), che significa ‘conoscere’, così (come தெரிவி) அறிவி (aṟivi) significa letteralmente ‘causare di conoscere’, ma è generalmente usato nel senso di causare di essere conosciuto, rendere conosciuto, pubblicare, annunciare, insegnare, spiegare, indicare o rivelare, perché in Tamil il modo naturale di dire ‘causare ad A di conoscere B’ o ‘fare ad A conoscere B’ è ‘rendere B conosciuto ad A’. Quindi, sebbene அறிவித்தற்கு (aṟivittaṟku) significhi letteralmente ‘per causare di conoscere’, è usato generalmente nel senso di ‘per causare di essere conosciuto’ o ‘per rendere conosciuto’, o in un Inglese più fraseologico, ‘da rendere conosciuto’.

Quindi se traduciamo அறிவித்தற்கு (aṟivittaṟku) come ‘da rendere conosciuto’, in combinazione con அறிவித்தற்கு (aṟivittaṟku) che significa ‘essere senza un altro’ (in cui இன்றாய் (iṉḏṟāy) è un composto di due parole, இன்று (iṉḏṟu), che è una particella o avverbio che nega completamente l’esistenza (come fa இலை (ilai) nella frase finale del verso 27 di Upadēśa Undiyār), e ஆய் (āy), che significa essere o come, quindi ‘அன்னியம் இன்றாய்’ (aṉṉiyam iṉḏṟāy) significa ‘essere senza un altro’ o semplicemente ‘senza un altro’ nel senso che nessun altro esiste), può essere interpretato in sette modi, vale a dire:
  1. Essere senza un altro [perché sé stesso] renda [qualsiasi altra cosa] conosciuta [a sé stesso]
  2. Essere senza un altro [perché sé stesso] renda [sé stesso] conosciuto [a qualsiasi altra cosa]
  3. Essere senza un altro [perché sé stesso] renda [qualsiasi altra cosa] conosciuta [a qualsiasi altra cosa]
  4. Essere senza un altro [perché qualsiasi altra cosa] renda [qualsiasi altra cosa] conosciuta [a sé stesso]
  5. Essere senza un altro [perché qualsiasi altra cosa] renda [sé stesso] conosciuto [a qualsiasi altra cosa]
  6. Essere senza un altro [perché qualsiasi altra cosa] renda [qualsiasi altra cosa] conosciuta [a qualsiasi altra cosa]
  7. Essere senza un altro [perché qualsiasi altra cosa] renda [sé stesso] conosciuto a [sé stesso]
L’implicazione condivisa dalle espressioni 1, 3, 4 e 6 è che non c’è niente altro (nessuna forma, fenomeno o oggetto) che potrebbe essere reso conosciuto a qualsiasi cosa (all’ego, che è ciò che attualmente sembriamo essere, o all’unica consapevolezza reale, che è ciò che siamo realmente), e l’implicazione condivisa dalle espressioni 2, 3, 5 e 6 è che non c’è niente altro (nessun ego o soggetto) a cui qualsiasi cosa (la nostra reale natura o qualsiasi altra cosa) potrebbe essere resa conosciuta, mentre l’implicazione condivisa dalle espressioni 4, 5, 6 e 7 è che non c’è niente altro (nessuna altra ‘luce’) che potrebbe illuminare o rendere qualsiasi cosa (la nostra reale natura o qualsiasi altra cosa) conosciuta a qualsiasi cosa (alla nostra reale natura o a qualsiasi altra cosa).

Cioè, nel nostro stato naturale (lo stato di noi stessi infinito, indivisibile, immutabile, senza forma, eterno e senza tempo come la reale consapevolezza che siamo realmente) niente altro che noi stessi esiste, ma nelle prime tre espressioni è considerata la non-esistenza di solo due fattori diversi da noi stessi, vale a dire ogni altra cosa che potrebbe essere conosciuta (in altre parole, ogni oggetto) o ogni altra cosa da cui qualsiasi cosa potrebbe essere conosciuta (in altre parole, ogni soggetto). Dunque il significato della prima e della terza espressione è che non c’è una seconda cosa (nessuna forma, fenomeno o oggetto) che potrebbe essere resa conosciuta a noi stessi o a qualsiasi altra cosa (cioè, a ogni ego), mentre il significato della seconda espressione è che non c’è altra cosa (nessun ego) a cui noi stessi potremmo essere resi conosciuti.

Tuttavia nelle ultime quattro espressioni è considerata la non-esistenza di un terzo fattore diverso da noi stessi, vale a dire ogni altra ‘luce’ (prakāśa) per illuminare o rendere conosciuta qualsiasi cosa. La quarta, quinta e sesta espressione sono ognuna rispettivamente una duplicazione della prima, della seconda e della terza espressione, ma con la non-esistenza di questo terzo fattore considerata accanto alla non-esistenza di ciascuno degli altri due. Così il significato della quarta e sesta espressione è che non c’è altra luce che potrebbe illuminare o rendere qualsiasi altra cosa (qualsiasi oggetto) conosciuto a noi stessi o a qualsiasi altra cosa (cioè, a ogni ego), mentre il significato della quinta espressione è che non c’è altra luce che potrebbe illuminare o rendere noi stessi conosciuti a qualsiasi altra cosa (cioè, a ogni ego).

Nell’espressione finale, tuttavia, la non-esistenza di questo terzo fattore è considerata da sola, così il significato di questa espressione è che non c’è altra luce che potrebbe illuminare o rendere noi stessi conosciuti a noi stessi. Poiché è proprio così, dobbiamo conoscere noi stessi per mezzo di noi stessi, e dunque dobbiamo essere l’unica luce reale di consapevolezza, che risplende eternamente da sé stessa, illuminando sé stessa ma niente altro, poiché per essa non c’è niente altro da illuminare. In altre parole, poiché non c’è un’altra ‘luce’ per rendere noi stessi conosciuti a noi stessi, noi stessi siamo la luce di consapevolezza che rende noi stessi conosciuti a noi stessi, così noi siamo auto-risplendenti o auto-luminosi (svayam-prakāśa).

La parola finale in questa prima proposizione della terza frase è அவிர்வதால் (avirvadāl), che è una forma strumentale di un sostantivo di participio del verbo அவிர் (avir), che significa risplendere, quindi அவிர்வதால் (avirvadāl) significa letteralmente ‘risplendendo’, ma implica ‘poiché esso risplende’ o ‘perché esso risplende’. Il soggetto implicato di questo sostantivo di participio e quindi di questa intera prima proposizione è il soggetto della proposizione principale, vale a dire தான் (tāṉ), che significa ‘sé stesso’, quindi dicendo che sé stesso risplende senza un altro da conoscere o da rendere conosciuto, Bhagavan intende chiaramente che nella chiara visione della reale consapevolezza che siamo realmente niente altro che noi stessi esiste, risplende o è conosciuto.

Cioè, in questo contesto ‘risplende’ è una metafora per ‘rende sé stesso conosciuto’ (sebbene in altri contesti, come nella prima frase del verso 7 di Uḷḷadu Nāṟpadu, può essere una metafora per ‘è reso conosciuto’), così poiché egli afferma in questa proposizione che niente altro che sé stesso esiste, non c’è niente altro a cui sé stesso potrebbe essere reso conosciuto, così sé stesso rende conosciuto sé stesso solo a sé stesso. Inoltre, poiché non c’è niente altro che sé stesso, non c’è niente altro per sé stesso da conoscere o che sé stesso potrebbe rendere conosciuto a sé stesso, così sé stesso è non solo conosciuto solo a sé stesso, ma anche conosce solo sé stesso.

Dunque in questa prima proposizione della terza frase, ‘அறிதற்கு அறிவித்தற்கு அன்னியம் இன்றாய் அவிர்வதால்’ (aṟidaṟku aṟivittaṟku aṉṉiyam iṉḏṟāy avirvadāl), che significa ‘poiché [sé stesso] risplende senza un altro da conoscere o da rendere conosciuto’, Bhagavan indica chiaramente e inequivocabilmente che la propria esperienza è realmente solo ajāta: la verità definitiva (pāramārthika satya) che niente è mai nato o ha avuto origine, realmente o apparentemente, perché niente altro che sé stesso esiste realmente o anche sembra esistere (poiché sembrare esistere comporta essere conosciuto da qualcosa, e secondo a questa proposizione non c’è altra cosa da conoscere o da rendere conosciuta, così non c’è niente altro che potrebbe sembrare esistere o essere conosciuto a sé stesso, e non c’è niente altro che noi stessi a cui qualsiasi altra cosa possa mai sembrare esistere o essere conosciuta).

Cioè, quando egli dice nella prima parte di questa proposizione, ‘அறிதற்கு அறிவித்தற்கு அன்னியம் இன்று’ (aṟidaṟku aṟivittaṟku aṉṉiyam iṉḏṟu), che significa ‘non esiste un altro da conoscere o da rendere conosciuto’, e quando egli ugualmente dice nella frase finale del verso 27 di Upadēśa Undiyār, ‘அறிவதற்கு ஒன்று இலை’ (aṟivadaṟku oṉḏṟu ilai), che significa ‘non c’è qualcosa da conoscere’ o ‘qualcosa da conoscere non esiste’, ciò che egli intende con ‘அன்னியம்’ (aṉṉiyam), ‘un altro’, e ‘ஒன்று’ (oṉḏṟu), ‘qualcosa’, è qualunque cosa diversa da noi stessi, così questo include ogni apparenza, qualsiasi cosa che sembra esistere o qualsiasi cosa che potrebbe essere conosciuta in qualunque modo. Quindi, dicendo che non c’è niente diverso da noi stessi per noi da conoscere o da rendere conosciuto, egli intende chiaramente ed inequivocabilmente che nella chiara visione della reale consapevolezza che noi siamo realmente non esiste neppure un’illusione per noi da conoscere o da rendere conosciuta. Inoltre, poiché il tempo stesso è diverso da noi stessi e quindi solo un’apparenza illusoria, esso non esiste realmente, così egli intende anche che non c’è tempo in cui qualcosa (ogni apparenza illusoria o qualsiasi altra cosa diversa da noi stessi) è mai esistita, mai esisterà o potrebbe mai esistere per noi da conoscere o da rendere conosciuta.

La prima proposizione è avverbiale, e la sua funzione è di esprimere la ragione per ciò che Bhagavan afferma nella proposizione principale di questa terza frase, vale a dire ‘தான் அறிவு ஆகும்’ (tāṉ aṟivu āhum), che significa ‘sé stesso è consapevolezza’, e che in questo contesto implica che noi stessi siamo la sola consapevolezza reale, perché nella frase precedente egli ha detto ‘அறியும் அது உண்மை அறிவு ஆகாது’ (aṟiyum adu uṇmai aṟivu āhādu), che significa ‘Quello che conosce non è reale consapevolezza’, intendendo che ciò che conosce qualsiasi cosa diversa da sé stesso non è reale consapevolezza. Quindi il significato di questa prima frase, ‘அறிதற்கு அறிவித்தற்கு அன்னியம் இன்றாய் அவிர்வதால், தான் அறிவு ஆகும்’ (aṟidaṟku aṟivittaṟku aṉṉiyam iṉḏṟāy avirvadāl, tāṉ aṟivu āhum) che significa ‘Poiché esso risplende senza un altro da conoscere o da rendere conosciuto, sé stesso è [reale] consapevolezza’, è che poiché noi stessi ‘risplendiamo’ o ci rendiamo conosciuti, e poiché niente altro esiste per noi da conoscere, o per noi da rendere conosciuto, o per noi da renderci conosciuti, o rendere noi stessi conosciuti a noi stessi o a qualsiasi altra cosa, solo noi ci rendiamo conosciuti, e ci rendiamo conosciuti solo a noi stessi, quindi noi stessi siamo la sola reale conoscenza o consapevolezza.

6. L’ego è la falsa consapevolezza che conosce altre cose, mentre ciò che siamo realmente è la reale consapevolezza oltre alla quale niente esiste da conoscere

Nella seconda e terza frase di questo verso Bhagavan mette in contrasto la natura dell’ego con la natura di noi stessi come siamo realmente, indicando che l’ego è la falsa consapevolezza che conosce o è consapevole di cose diverse da sé stesso, mentre ciò che siamo realmente è la reale consapevolezza per la quale niente altro che sé stessa esiste da conoscere. Questa distinzione tra l’ego e ciò che siamo realmente è un indizio vitale per noi nella nostra pratica di auto-investigazione (ātma-vicāra), perché finché siamo consapevoli anche minimamente di qualsiasi cosa diversa dalla pura auto-consapevolezza che siamo realmente, siamo ancora consapevoli di noi stessi come se fossimo l’ego, il soggetto che è consapevole di oggetti, e quindi non siamo consapevoli di noi stessi come siamo realmente. Quindi per essere come siamo realmente, abbiamo bisogno di essere consapevoli di niente altro che noi stessi, che comporta il focalizzare la nostra intera attenzione solo sulla nostra auto-consapevolezza fondamentale, escludendo di conseguenza ogni altra cosa dalla nostra consapevolezza.

C’è una differenza fondamentale tra conoscere o essere consapevoli di noi stessi e conoscere o essere consapevoli di ogni altra cosa, perché essere consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi è un’attività mentale, poiché comporta il movimento della nostra mente o attenzione lontano da noi stessi e verso qualcos’altro, mentre essere consapevoli di noi stessi non è un’attività mentale, poiché non comporta il movimento della nostra attenzione lontano da noi stessi. Quindi conoscere altre cose è un’azione (karma) o un fare (kriyā), mentre conoscere noi stessi è solo essere (summā iruppadu), poiché l’auto-consapevolezza è la nostra reale natura – la nostra ‘forma propria’ (svarūpa) o ‘proprio essere’ (svabhāva) – e dunque noi conosciamo noi stessi solo essendo noi stessi, come Bhagavan dice nella prima frase del verso 26 di Upadēśa Undiyār: ‘தானாய் இருத்தலே தன்னை அறிதல் ஆம், தான் இரண்டு அற்றதால்’ (tāṉ-āy iruttal-ē taṉṉai aṟidal ām, tāṉ iraṇḍu aṯṟadāl), ‘Solo essere sé stesso è conoscere sé stesso, perché sé stesso non è due’.

Poiché solo la pura auto-consapevolezza è ciò che siamo realmente, ātma-jñāna (auto-conoscenza o auto-consapevolezza) non è un atto di conoscere noi stessi ma è solo il nostro stato naturale di essere noi stessi (essere come siamo realmente), diversamente dal conoscere o essere consapevoli di qualsiasi altra cosa, che è un atto di conoscere. Quindi mentre conoscere altre cose è espresso nel modo migliore dicendo ‘அறிகிறேன்’ (aṟigiṟēṉ), ‘io conosco’, conoscere noi stessi è espresso nel modo migliore dicendo semplicemente ‘இருக்கிறேன்’ (irukkiṟēṉ), ‘io sono’, perché non potremmo conoscere noi stessi senza essere noi stessi, e non potremmo essere noi stessi senza conoscere noi stessi, poiché il nostro essere o esistenza (sat) è la nostra consapevolezza (cit), e la nostra consapevolezza è la nostra esistenza.

7. La quarta frase: la reale consapevolezza non è śūnya, vuota o non esistente

Nella quarta frase Bhagavan dice, ‘பாழ் அன்று’ (pāṙ aṉḏṟu), che significa ‘essa non è un vuoto [vacuità, nullità o non-esistenza]’, rifiutando esplicitamente l’assunto di certi filosofi Buddhisti che sostengono che ogni cosa è ‘śūnya’, che è un termine Sanscrito che significa vacuo, vuoto o non esistente, ma che nel contesto della filosofia Buddhista è generalmente interpretato come svabhāva-śūnya, che significa ‘vuoto di proprio essere’ o ‘vuoto di auto-esistenza’. Sebbene Bhagavan ha detto nella prima frase di questo verso che la reale consapevolezza è priva di conoscenza e ignoranza (intendendo conoscenza e ignoranza di qualsiasi cosa diversa da sé stessa), e sebbene nella terza frase egli dice che niente altro che la reale consapevolezza esiste, in questa frase egli nega che essa sia ‘பாழ்’ (pāṙ), che è un termine Tamil che in questo contesto significa śūnyatā, vacuità, nullità o non-esistenza.

Ciò che è non-esistente o ‘vuoto di proprio essere’ è qualsiasi cosa diversa dalla reale consapevolezza che siamo realmente, come Bhagavan ha indicato nella prima proposizione della terza frase dicendo che niente altro che noi stessi esiste da conoscere o da rendere conosciuto. Tuttavia, sebbene niente altro che noi stessi esiste realmente, nella visione illusa di noi stessi come questo ego altre cose sembrano esistere, ed esse sembrano esistere solo perché siamo consapevoli di esse. Quindi, che esse esistano realmente o siano solo apparenze illusorie, noi stessi dobbiamo esistere per essere consapevoli di esse, così anche se ogni altra cosa è realmente non-esistente, almeno noi dobbiamo esistere per essere consapevoli della loro esistenza apparente.

Tuttavia, sebbene noi stessi dobbiamo esistere, non siamo necessariamente ciò che sembriamo essere, così dobbiamo considerare la possibilità che forse non siamo realmente questo ego, il soggetto o prima persona che è consapevole di tutte le altre cose (che sono oggetti o seconde e terze persone), come ora sembriamo essere. Sebbene ora sembriamo essere questo ego e quindi sembriamo essere consapevoli di altre cose, non sempre sembriamo in questo modo, perché nel sonno esistiamo e siamo consapevoli della nostra esistenza anche se non siamo consapevoli di questo ego o di qualsiasi altra cosa. Quindi, poiché nel sonno siamo consapevoli di noi stessi senza essere consapevoli di questo ego, questo ego non può essere ciò che siamo realmente.

Solo quando sorgiamo come questo ego altre cose sembrano esistere (come Bhagavan indica, per esempio, nei versi 14, 23 e 26 di Uḷḷadu Nāṟpadu e nella prima frase del verso 7 di Śrī Aruṇācala Aṣṭakam), così la loro esistenza apparente dipende dall’esistenza apparente di noi stessi come questo ego. Quindi se questo ego non esiste realmente, niente altro esiste realmente o anche sembra esistere (poiché non potrebbe sembrare esistere se non ci fosse realmente un ego ad esserne consapevole).

Quindi questo ego esiste realmente? Se esso esistesse realmente, dovrebbe esistere sempre, e non dovrebbe apparire solo nella veglia e nel sogno e scomparire nel sonno. Inoltre, cosa è questo ego? Esso esiste in sé stesso? Poiché è solo una conoscenza errata di noi stessi (una consapevolezza erronea di noi stessi come qualcosa che non è ciò che siamo realmente), esso non è reale, ma è solo un’apparenza illusoria.

Ma a chi esso appare? Nella visione di chi esso sembra esistere? Esso non può sembrare esistere nella chiara visione di noi stessi come la reale consapevolezza che siamo realmente, perché dato che è solo una consapevolezza erronea di noi stessi, se sembrasse esistere nella visione di noi stessi come siamo realmente, questo significherebbe che ciò che siamo realmente è erroneamente consapevole di sé stesso come qualcosa che non è sé stesso, nel qual caso non sarebbe una reale consapevolezza ma solo ignoranza. Quindi l’ego può solo sembrare esistere nella propria visione e non nella visione della reale consapevolezza che siamo realmente.

Quindi la reale consapevolezza non è mai consapevole dell’ego, e dunque non è mai consapevole di qualsiasi cosa diversa da sé stesso (come Bhagavan indica nella prima proposizione della terza frase di questo verso). Poiché la reale consapevolezza è ciò che noi siamo realmente, e poiché come reale consapevolezza solo noi esistiamo, essere consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi (ogni molteplicità) non è reale consapevolezza ma solo ignoranza, come Bhagavan indica nelle prime due frasi del verso successivo (verso 13 di Uḷḷadu Nāṟpadu): ‘ஞானம் ஆம் தானே மெய். நானாவாம் ஞானம் அஞ்ஞானம் ஆம்’ (ñāṉam ām tāṉē mey. nāṉā-v-ām ñāṉam aññāṉam ām), ‘Solo sé stesso, che è jñāna [conoscenza o consapevolezza], è reale. La conoscenza [o consapevolezza] che è molti è ajñāna [ignoranza]’, in cui ‘நானாவாம் ஞானம்’ (nāṉā-v-ām ñāṉam), ‘consapevolezza che è molti’, si riferisce alla consapevolezza dell’ego, perché appena l’ego appare separa sé stesso come un soggetto che è consapevole di oggetti e quindi vede l’unica consapevolezza reale come molti fenomeni.

Come reale consapevolezza, non possiamo mai essere ignoranti, e quindi non possiamo mai essere consapevoli di alcuna molteplicità, così ciò che è consapevole della molteplicità è solo l’ego auto-ignorante, che è esso stesso non reale. Quindi, poiché la molteplicità dei fenomeni è percepita solo dall’ego, e poiché l’ego non è reale, sia l’ego che tutti i fenomeni percepiti da esso sono śūnya, non-esistenti o ‘vuoti di proprio essere’.

Tuttavia, c’è solo una cosa che non è śūnya, come Bhagavan indica in questo verso, e che è la reale consapevolezza che siamo realmente. Poiché come reale consapevolezza noi soli esistiamo, niente altro esiste per noi da conoscere o non conoscere, così siamo completamente privi sia di conoscenza che di ignoranza di qualsiasi altra cosa, ma non siamo privi di svabhāva o ‘proprio essere’, perché noi esistiamo in noi stessi, per noi stessi e come noi stessi. Ciò che noi siamo realmente non è vacuità (śūnyatā) ma assoluta pienezza (pūrṇatva), perché siamo pieni della sola cosa che è reale, vale a dire la pura ed infinita auto-consapevolezza.

8. La quinta frase: conoscere o essere consapevoli

Bhagavan conclude questo verso con una singola parola, ‘அறி’ (aṟi), che significa ‘sappi’ o ‘sii consapevole’ (poiché è la radice di questo verbo e quindi serve come un imperativo quando è usato da solo come in questo caso). In questo contesto questo imperativo può semplicemente intendere ‘sappi ciò che è affermato qui (nella frase precedente o in questo intero verso)’, ma può anche intendere ‘sii consapevole di te stesso in questo modo (come l’unica reale consapevolezza che tu sei realmente, che sola esiste e che quindi risplende senza qualsiasi altra cosa da conoscere o da rendere conosciuta)’.


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