Venerdì 1 Agosto 2014
Il mese scorso un amico chiamato Venkat mi ha posto diverse domande in una
serie di tre commenti che ha scritto ad uno dei miei recenti articoli, ‘Is consciousness a product of the mind?’, pertanto
questo articolo è scritto in risposta alle sue domande.
Nel suo primo commento ha scritto:
Nel suo primo commento ha scritto:
Molte grazie
per la tua risposta. Concordo che non è possibile conoscere se il mondo esterno
(e il corpo-mente) esiste indipendentemente dalla sua percezione. In egual
misura, non penso che sia possibile provare che il mondo è solo un’illusione,
una percezione nella consapevolezza.
Così concordo
che uno deve esaminare/domandare cos'è l’ ‘io’. Tu vuoi dire che il risultato
di questo è la certezza che solo la consapevolezza è reale e tutto il resto
(includendo il ‘mio’ corpo-mente) è un’illusione.
Tu hai commentato
in questo blog, che l’ ‘io sono’ di Bhagavan può essere comparato alla
consapevolezza che è consapevole della consapevolezza di una percezione, e che
dovremmo rivolgere la nostra attenzione a questa consapevolezza. Ma è possibile
essere ‘consapevoli della consapevolezza che è consapevole?’ poiché secondo il neti
neti del Vedanta, uno non può essere consapevole di questa consapevolezza, ma
può solo ESSERE questa consapevolezza, come io penso che Bhagavan dica.
Di conseguenza,
due domande. Prima di tutto, il punto di
questa attenzione sulla consapevolezza è il riconoscere che la sensazione di
‘io’ è solo un’altra percezione che sorge, equivalente a tutte le altre
percezioni ed è neti neti [non questo, non questo]?
E secondo, cosa significa ESSERE consapevolezza?
E secondo, cosa significa ESSERE consapevolezza?
Sì, concordo che proprio come non possiamo conoscere che il nostro corpo e
questo mondo esistono indipendentemente dalla nostra esperienza di essi,
egualmente non possiamo conoscere che non esistono indipendentemente dalla
nostra esperienza di essi. In altre parole, non possiamo conoscere se la loro
apparente esistenza è un’illusione creata dalla mente o no, sebbene non ci sia
dubbio che la nostra mente gioca almeno un ruolo primario nel creare l’immagine
mentale di questo corpo e del mondo che sperimentiamo. Cioè, ciò che realmente
sperimentiamo non è qualche corpo o mondo come tale, ma solo un’immagine
mentale di essi consistente di visioni, suoni, gusti, odori e sensazioni tattili
sempre mutevoli, e sembriamo non in grado di accertarci se questa immagine
mentale è creata interamente dalla nostra mente, come nel sogno, o è almeno
parzialmente causata da qualcosa (qualche vero corpo e mondo) che è esterno o
indipendente dalla nostra mente.
Il solo possibile strumento che abbiamo per accertarci se tutte queste cose che sperimentiamo sono un’illusione o no è investigare noi stessi, l’ ‘io’ che li sperimenta, e perciò sperimentare ciò che questo ‘io’ è realmente. Una volta che conosciamo ciò che questo ‘io’ è realmente, possiamo essere in grado di conoscere se tutto ciò che esso sperimenta è creato unicamente da esso o è in qualsiasi modo o a qualsiasi misura causato da qualcosa che esiste indipendentemente da esso.
Quando Venkat ha scritto, ‘Tu hai commentato in questo blog, che l’ ‘io sono’ di Bhagavan può essere comparato alla consapevolezza che è consapevole della consapevolezza di una percezione’, si stava riferendo al seguente paragrafo che ho scritto in un altro recente articolo, ‘Since we always experience ‘I’, we do not need to find ‘I’, but only need to experience it as it actually is’:
Il solo possibile strumento che abbiamo per accertarci se tutte queste cose che sperimentiamo sono un’illusione o no è investigare noi stessi, l’ ‘io’ che li sperimenta, e perciò sperimentare ciò che questo ‘io’ è realmente. Una volta che conosciamo ciò che questo ‘io’ è realmente, possiamo essere in grado di conoscere se tutto ciò che esso sperimenta è creato unicamente da esso o è in qualsiasi modo o a qualsiasi misura causato da qualcosa che esiste indipendentemente da esso.
Quando Venkat ha scritto, ‘Tu hai commentato in questo blog, che l’ ‘io sono’ di Bhagavan può essere comparato alla consapevolezza che è consapevole della consapevolezza di una percezione’, si stava riferendo al seguente paragrafo che ho scritto in un altro recente articolo, ‘Since we always experience ‘I’, we do not need to find ‘I’, but only need to experience it as it actually is’:
Per esempio, se
sono consapevole della presenza o assenza di rumore di traffico all’esterno,
quella consapevolezza di rumore o di non rumore non è ‘io’, perché io sono ciò
che sperimenta quella consapevolezza. In modo simile, la consapevolezza che i
pensieri sono presenti o che essi sembrano essere assenti non è ‘io’, perché io
sono ciò che sperimenta quella consapevolezza, così dare attenzione a quella
consapevolezza non è dare attenzione a ‘io’.
Comunque, se diciamo che io sono la consapevolezza che è consapevole
della consapevolezza della relativa assenza di pensiero, nel primo di questo
due sensi la parola ‘consapevolezza’ si riferisce a ‘io’. Quindi
‘consapevolezza’ è un termine ambiguo, così in questo contesto può condurre a
confusione e malinteso (che è per inciso perché la descrizione popolare della
pratica di ātma-vicāra come ‘consapevolezza
che osserva la consapevolezza’ può essere facilmente malintesa ed è quindi
potenzialmente ingannevole).
Quindi, quando ho scritto ‘ se diciamo che io sono la consapevolezza che è
consapevole di quella consapevolezza della relativa assenza di pensiero’, non intendevo suggerire che c’è più di una
consapevolezza che è consapevole, ma intendevo solo sottolineare l’ambiguità
della parola ‘consapevolezza’. Per esempio, se dico che io sono ora consapevole
che è caldo, la mia consapevolezza che è caldo non è ‘io’, perché quella
consapevolezza è un’esperienza temporanea. Comunque io posso essere descritto
come la consapevolezza che è ora consapevole che è caldo, così in questo senso
io sono la consapevolezza che è consapevole di quella consapevolezza che è
caldo. Quando parlo della mia consapevolezza che è caldo, ‘consapevolezza’ qui
significa ciò di cui io sono
consapevole, mentre quando dico che io sono la consapevolezza che è consapevole
che è caldo, ‘consapevolezza’ qui significa ciò che è consapevole. In altre
parole, il primo uso di ‘consapevolezza’ si riferisce a un’esperienza (ciò che
è sperimentato) mentre il secondo uso si riferisce allo sperimentatore (ciò che
sperimenta).
L’ambiguità della parola ‘consapevolezza’ può essere ulteriormente illustrata da un altro esempio.
L’ambiguità della parola ‘consapevolezza’ può essere ulteriormente illustrata da un altro esempio.
Anche se non sperimento realmente qualcosa, posso ancora dire di essere
consapevole di esso. Per esempio, posso dire che io sono consapevole che Mosca
è la capitale della Russia, anche se non sono mai stato a Mosca e nemmeno in
Russia. La mia consapevolezza che Mosca è la capitale della Russia non è
un’esperienza ma solo una parte d’informazione o conoscenza generale che ho
acquisito da varie sorgenti, così essa certamente non è ‘io, ma è solo
un’informazione che possiedo.
Quindi sebbene ‘consapevolezza’ e ‘coscienza’ siano termini che a volte sono usati per riferirsi a quello che è consapevole o conscio, vale a dire ‘io’, non necessariamente e non in tutte le circostanze esse di riferiscono a questo. Più spesso si riferiscono soltanto a qualunque cosa di cui accada, a me (‘io’) o a chiunque altro di essere consapevole o conscio.
Quindi sebbene ‘consapevolezza’ e ‘coscienza’ siano termini che a volte sono usati per riferirsi a quello che è consapevole o conscio, vale a dire ‘io’, non necessariamente e non in tutte le circostanze esse di riferiscono a questo. Più spesso si riferiscono soltanto a qualunque cosa di cui accada, a me (‘io’) o a chiunque altro di essere consapevole o conscio.
Quindi parole come ‘consapevolezza’ e ‘coscienza’ sono ambigue, perché ciò
a cui si riferiscono esattamente dipende dal contesto in cui sono usate, così
per evitare ogni ambiguità è spesso preferibile usare semplicemente la parola
‘io’, che indica chiaramente ciò che è consapevole o conscio.
Se ‘io’ è ciò che Venkat intende con ‘consapevolezza’ quando dice ‘uno non può essere consapevole di questa consapevolezza, uno può solo ESSERE questa consapevolezza’, noi ovviamente possiamo essere consapevoli di questa consapevolezza, perché l’esatta natura di ‘io’ è essere consapevole di se stesso. Oltre che ‘io’ solamente, niente di ciò che sperimentiamo è consapevole di se stesso, così l’apparente esistenza di qualsiasi altra cosa è dipendente dal nostro essere consapevoli di essa. Se non fossimo consapevoli del mondo, esso non sembrerebbe esistere. Quindi ‘io’ (noi stessi) è non solo auto-consapevole ma anche auto-esistente, mentre nient’altro è o auto-consapevole o evidentemente auto-esistente (perché anche se supponiamo che qualche altra cosa sia auto-esistente, la sua presunta esistenza non è sperimentata a meno che ‘io’ non sia consapevole di essa, così la loro presunta auto-esistenza è solo una supposizione e non può mai essere accertata dall’esperienza).
Se ‘io’ non fosse consapevole di se stesso, non sarebbe ‘io’, perché ‘io’ è una parola che essenzialmente significa ciò che è auto-consapevole. Ogni cosa che non è auto-consapevole non sperimenta se stessa come ‘io’, così i termini ‘auto-consapevolezza’ e ‘io’ si riferiscono essenzialmente alla stessa cosa – la stessa entità che sperimenta se stessa. ‘Io’ sperimenta se stesso come ‘io’ perché è auto-consapevole, e qualunque cosa è auto-consapevole è consapevole di se stessa come ‘io’, la prima persona, il soggetto di tutta l’ulteriore esperienza (semmai essa sperimenta qualcosa diversa da se stessa).
A differenza della consapevolezza che abbiamo di qualunque altra cosa, che è temporanea e quindi non ‘io’, la nostra consapevolezza di noi stessi è ‘io’, noi stessi, perché è permanente e perché l’auto-consapevolezza è perfettamente non-duale – cioè, è priva anche della minima dualità, divisione o alterità. Quindi l’ ‘io’ che è consapevole di se stesso, il se stesso di cui è consapevole, e la consapevolezza che esso ha di se stesso sono un tutt’uno indivisibile. La sua auto-consapevolezza non è solamente consapevolezza di ‘io’, ma è consapevolezza che realmente è ‘io’. La sua consapevolezza di se stesso è se stesso, perché la sua esatta natura è auto-consapevolezza.
Quindi, sebbene ‘io’ sia sempre auto-consapevole, non è consapevole di se stesso come un oggetto (come lo è di ogni altra cosa), neppure è consapevole di se stesso per mezzo di qualche atto di cognizione o di venire a conoscere (come lo è di ogni altra cosa), perché è consapevole di se stesso solo per essere se stesso, poiché l’auto-consapevolezza è la sua esatta natura.
Se ‘io’ è ciò che Venkat intende con ‘consapevolezza’ quando dice ‘uno non può essere consapevole di questa consapevolezza, uno può solo ESSERE questa consapevolezza’, noi ovviamente possiamo essere consapevoli di questa consapevolezza, perché l’esatta natura di ‘io’ è essere consapevole di se stesso. Oltre che ‘io’ solamente, niente di ciò che sperimentiamo è consapevole di se stesso, così l’apparente esistenza di qualsiasi altra cosa è dipendente dal nostro essere consapevoli di essa. Se non fossimo consapevoli del mondo, esso non sembrerebbe esistere. Quindi ‘io’ (noi stessi) è non solo auto-consapevole ma anche auto-esistente, mentre nient’altro è o auto-consapevole o evidentemente auto-esistente (perché anche se supponiamo che qualche altra cosa sia auto-esistente, la sua presunta esistenza non è sperimentata a meno che ‘io’ non sia consapevole di essa, così la loro presunta auto-esistenza è solo una supposizione e non può mai essere accertata dall’esperienza).
Se ‘io’ non fosse consapevole di se stesso, non sarebbe ‘io’, perché ‘io’ è una parola che essenzialmente significa ciò che è auto-consapevole. Ogni cosa che non è auto-consapevole non sperimenta se stessa come ‘io’, così i termini ‘auto-consapevolezza’ e ‘io’ si riferiscono essenzialmente alla stessa cosa – la stessa entità che sperimenta se stessa. ‘Io’ sperimenta se stesso come ‘io’ perché è auto-consapevole, e qualunque cosa è auto-consapevole è consapevole di se stessa come ‘io’, la prima persona, il soggetto di tutta l’ulteriore esperienza (semmai essa sperimenta qualcosa diversa da se stessa).
A differenza della consapevolezza che abbiamo di qualunque altra cosa, che è temporanea e quindi non ‘io’, la nostra consapevolezza di noi stessi è ‘io’, noi stessi, perché è permanente e perché l’auto-consapevolezza è perfettamente non-duale – cioè, è priva anche della minima dualità, divisione o alterità. Quindi l’ ‘io’ che è consapevole di se stesso, il se stesso di cui è consapevole, e la consapevolezza che esso ha di se stesso sono un tutt’uno indivisibile. La sua auto-consapevolezza non è solamente consapevolezza di ‘io’, ma è consapevolezza che realmente è ‘io’. La sua consapevolezza di se stesso è se stesso, perché la sua esatta natura è auto-consapevolezza.
Quindi, sebbene ‘io’ sia sempre auto-consapevole, non è consapevole di se stesso come un oggetto (come lo è di ogni altra cosa), neppure è consapevole di se stesso per mezzo di qualche atto di cognizione o di venire a conoscere (come lo è di ogni altra cosa), perché è consapevole di se stesso solo per essere se stesso, poiché l’auto-consapevolezza è la sua esatta natura.
Per questo Sri Ramana dice nel verso 26 del Upadēśa Undiyār:
தானா யிருத்தலே தன்னை யறிதலாந்
தானிரண் டற்றதா லுந்தீபற
தன்மய நிட்டையீ துந்தீபற.
tāṉā yiruttalē taṉṉai yaṟidalān
tāṉiraṇ ḍaṯṟadā lundīpaṟa
taṉmaya niṭṭhaiyī dundīpaṟa.
பதச்சேதம்: தானாய் இருத்தலே தன்னை அறிதல் ஆம், தான் இரண்டு அற்றதால். தன்மய நிட்டை ஈது.
Padacchēdam (separazione delle parole): tāṉ-āy iruttal-ē taṉṉai aṟidal ām, tāṉ iraṇḍu aṯṟadāl. taṉmaya niṭṭhai īdu.
Traduzione: Essere se stesso solamente è conoscere se stesso, perché se stesso è privo di due. Questo è tanmaya-niṣṭha [lo stato di essere fermamente stabilito come tat, ‘esso’ o ‘quello’, l’unica realtà assoluta chiamata brahman].
அற்றதால் (aṯṟadāl) è la forma strumentale di un passato di participio di un sostantivo neutro di terza persona che significa letteralmente ‘essendo cessato’, ‘essendo stato separato’ o ‘essendo stato separato da’, così in effetti esso significa ‘essendo privo di’ o ‘poiché è privo di’, o semplicemente ‘poiché non è’. Quindi la proposizione finale della prima frase di questo verso, தான் இரண்டு அற்றதால் (tāṉ iraṇḍu aṯṟadāl), significa ‘poiché se stesso è privo di due’ o ‘poiché se stesso non è due’, e quindi ciò implica che se stesso non consiste di due sé separati, un sé che è conosciuto come un oggetto e un altro sé che come un soggetto lo conosce. E’ solo uno e completamente privo di ogni dualità come soggetto-oggetto.
தானா யிருத்தலே தன்னை யறிதலாந்
தானிரண் டற்றதா லுந்தீபற
தன்மய நிட்டையீ துந்தீபற.
tāṉā yiruttalē taṉṉai yaṟidalān
tāṉiraṇ ḍaṯṟadā lundīpaṟa
taṉmaya niṭṭhaiyī dundīpaṟa.
பதச்சேதம்: தானாய் இருத்தலே தன்னை அறிதல் ஆம், தான் இரண்டு அற்றதால். தன்மய நிட்டை ஈது.
Padacchēdam (separazione delle parole): tāṉ-āy iruttal-ē taṉṉai aṟidal ām, tāṉ iraṇḍu aṯṟadāl. taṉmaya niṭṭhai īdu.
Traduzione: Essere se stesso solamente è conoscere se stesso, perché se stesso è privo di due. Questo è tanmaya-niṣṭha [lo stato di essere fermamente stabilito come tat, ‘esso’ o ‘quello’, l’unica realtà assoluta chiamata brahman].
அற்றதால் (aṯṟadāl) è la forma strumentale di un passato di participio di un sostantivo neutro di terza persona che significa letteralmente ‘essendo cessato’, ‘essendo stato separato’ o ‘essendo stato separato da’, così in effetti esso significa ‘essendo privo di’ o ‘poiché è privo di’, o semplicemente ‘poiché non è’. Quindi la proposizione finale della prima frase di questo verso, தான் இரண்டு அற்றதால் (tāṉ iraṇḍu aṯṟadāl), significa ‘poiché se stesso è privo di due’ o ‘poiché se stesso non è due’, e quindi ciò implica che se stesso non consiste di due sé separati, un sé che è conosciuto come un oggetto e un altro sé che come un soggetto lo conosce. E’ solo uno e completamente privo di ogni dualità come soggetto-oggetto.
Dato che ‘io’ (noi stessi) è singolo, non-duale, indivisibile e
auto-consapevole, esso conosce se stesso semplicemente essendo se stesso.
Venkat suggerisce che ‘la percezione di ‘io’ è solo un’altra percezione che sorge, equivalente a tutte le altre percezioni’, ma non può essere questo il caso, poiché ‘io’ è ciò che sperimenta tutte le altre percezioni, e diversamente da ogni altra percezione, è cosciente. In ogni caso, ciò che ora sperimentiamo come ‘io’ è una mescolanza del nostro puro ‘io’, che è cosciente, ed il nostro corpo, che non è cosciente, così da questa mescolanza dobbiamo separare il nostro puro ‘io’ al fine di sperimentarlo come è, senza essere mischiato con qualsiasi altra cosa. Questo è il perché dobbiamo cercare di dare attenzione solamente a ‘io’.
Quando diamo attenzione solo a ‘io’, noi siamo semplicemente l’auto-consapevolezza che sempre siamo realmente, mentre quando diamo attenzione a qualsiasi altra cosa, diveniamo consapevoli di cose che sembrano essere diverse da noi stessi. Essere consapevoli di qualsiasi altra cosa diversa da noi stessi non è per noi naturale, perché è uno stato temporaneo che sorge nella veglia e nel sogno e cessa di esistere nel sonno, così mentre l’auto-consapevolezza è ‘io’, la consapevolezza di qualsiasi altra cosa non è ‘io’. Quindi essere auto-attenti è il nostro stato naturale di pura auto-consapevolezza, pertanto è uno stato di essere solamente (summā-v-iruppadu), uno stato in cui siamo semplicemente ciò che sempre siamo, mentre dare attenzione e sperimentare qualsiasi altra cosa diversa da noi stessi è uno stato di azione o di ‘fare’, poiché esso comporta un movimento della nostra attenzione lontano da noi stessi, la sua sorgente.
Nel suo secondo commento Venkat ha scritto:
Venkat suggerisce che ‘la percezione di ‘io’ è solo un’altra percezione che sorge, equivalente a tutte le altre percezioni’, ma non può essere questo il caso, poiché ‘io’ è ciò che sperimenta tutte le altre percezioni, e diversamente da ogni altra percezione, è cosciente. In ogni caso, ciò che ora sperimentiamo come ‘io’ è una mescolanza del nostro puro ‘io’, che è cosciente, ed il nostro corpo, che non è cosciente, così da questa mescolanza dobbiamo separare il nostro puro ‘io’ al fine di sperimentarlo come è, senza essere mischiato con qualsiasi altra cosa. Questo è il perché dobbiamo cercare di dare attenzione solamente a ‘io’.
Quando diamo attenzione solo a ‘io’, noi siamo semplicemente l’auto-consapevolezza che sempre siamo realmente, mentre quando diamo attenzione a qualsiasi altra cosa, diveniamo consapevoli di cose che sembrano essere diverse da noi stessi. Essere consapevoli di qualsiasi altra cosa diversa da noi stessi non è per noi naturale, perché è uno stato temporaneo che sorge nella veglia e nel sogno e cessa di esistere nel sonno, così mentre l’auto-consapevolezza è ‘io’, la consapevolezza di qualsiasi altra cosa non è ‘io’. Quindi essere auto-attenti è il nostro stato naturale di pura auto-consapevolezza, pertanto è uno stato di essere solamente (summā-v-iruppadu), uno stato in cui siamo semplicemente ciò che sempre siamo, mentre dare attenzione e sperimentare qualsiasi altra cosa diversa da noi stessi è uno stato di azione o di ‘fare’, poiché esso comporta un movimento della nostra attenzione lontano da noi stessi, la sua sorgente.
Nel suo secondo commento Venkat ha scritto:
Giusto per
elaborare la mia domanda, la Brihadaranayaka Upanishad dichiara alquanto meravigliosamente:
“ Per mezzo di
cosa si dovrebbe conoscere Quello a causa del quale tutto questo è conosciuto?
Questo Sé è Quello che è stato descritto come neti, neti [‘non questo,
non questo’]. E’ impercettibile, dato
che non è mai percepito; non decadente,
dato che esso mai decade; senza impedimenti – esso mai sente dolore e mai
soffre danno. Per mezzo di cosa si dovrebbe conoscere il Conoscitore?”
Questo sembrerebbe puntare alla conclusione che qualsiasi cosa percepita, includendo la percezione/pensiero di ‘io’ non è esso – perché è percepito. Quindi si deve regredire per vedere che tutte le percezioni accadono su uno schermo di consapevolezza, e non c’è differenziazione in quelle percezioni di ‘io, tu, ecc.
Considerando questo passaggio dalla Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, non possiamo
conoscere noi stessi come un oggetto (come conosciamo tutte le altre cose), ma
conosciamo noi stessi semplicemente essendo noi stessi, poiché
l’auto-consapevolezza è la nostra esatta
natura. La questione che affrontiamo non è come conoscere noi stessi, perché sempre
conosciamo noi stessi, ma come conoscere noi stessi come siamo realmente. Ora
conosciamo noi stessi mischiati con attributi estranei (upādhis), tali
come questo corpo e questa mente, così per conoscere noi stessi come siamo realmente
dobbiamo sperimentare noi stessi solamente, in completo isolamento da tutti gli
attributi estranei. Come Sri Ramana dice nel verso 25 di Upadēśa Undiyār:
தன்னை
யுபாதிவிட் டோர்வது தானீசன்
றன்னை யுணர்வதா முந்தீபற
தானா யொளிர்வதா லுந்தீபற.
taṉṉai yupādhiviṭ ṭōrvadu tāṉīśaṉ
ḏṟaṉṉai yuṇarvadā mundīpaṟa
tāṉā yoḷirvadā lundīpaṟa.
பதச்சேதம்: தன்னை உபாதி விட்டு ஓர்வது தான் ஈசன் தன்னை உணர்வது ஆம், தானாய் ஒளிர்வதால்.
Padacchēdam (separazione delle parole): taṉṉai upādhi viṭṭu ōrvadu tāṉ īśaṉ taṉṉai uṇarvadu ām, tāṉ-āy oḷirvadāl. [...]
Traduzione: Sperimentando se stesso, avendo rinunciato [ai propri] attributi, esso stesso sperimenta Dio lui stesso, perché [egli] risplende come se stesso.
In questo contesto la parola ஈசன் (īśaṉ) o ‘Dio’ denota brahman, l’unica infinita ed assoluta realtà, così la preposizione finale, தானாய் ஒளிர்வதால் ( tāṉ-āy oḷirvadāl), ‘perché [Dio] risplende come se stesso’, indica che quell’infinita realtà è ciò che noi sempre siamo realmente.
றன்னை யுணர்வதா முந்தீபற
தானா யொளிர்வதா லுந்தீபற.
taṉṉai yupādhiviṭ ṭōrvadu tāṉīśaṉ
ḏṟaṉṉai yuṇarvadā mundīpaṟa
tāṉā yoḷirvadā lundīpaṟa.
பதச்சேதம்: தன்னை உபாதி விட்டு ஓர்வது தான் ஈசன் தன்னை உணர்வது ஆம், தானாய் ஒளிர்வதால்.
Padacchēdam (separazione delle parole): taṉṉai upādhi viṭṭu ōrvadu tāṉ īśaṉ taṉṉai uṇarvadu ām, tāṉ-āy oḷirvadāl. [...]
Traduzione: Sperimentando se stesso, avendo rinunciato [ai propri] attributi, esso stesso sperimenta Dio lui stesso, perché [egli] risplende come se stesso.
In questo contesto la parola ஈசன் (īśaṉ) o ‘Dio’ denota brahman, l’unica infinita ed assoluta realtà, così la preposizione finale, தானாய் ஒளிர்வதால் ( tāṉ-āy oḷirvadāl), ‘perché [Dio] risplende come se stesso’, indica che quell’infinita realtà è ciò che noi sempre siamo realmente.
Quindi il significato di questo verso è che se sperimentiamo noi stessi
senza alcun attributo (upādhis), staremo sperimentando noi stessi come
realmente siamo.
Qualsiasi cosa è percepita o sperimentata come un oggetto (qualcosa diversa
dall’ ‘io’ che sperimenta) è percepita o sperimentata da un ‘io’ che sperimenta
se stesso come qualcosa di separato. Questo ‘io’ non è semplicemente il nostro
puro ‘io’ (ciò che realmente siamo), ma il nostro puro ‘io’ mischiato con
attributi, così finché percepiamo o sperimentiamo qualsiasi cosa diversa da
‘io’, non stiamo sperimentando noi stessi come siamo realmente, perciò abbiamo
bisogno di cercare di sperimentare noi stessi solamente focalizzando la nostra
intera attenzione solo su ‘io’.
Fino a che percepiamo o sperimentiamo qualsiasi cosa diversa da ‘io’, sperimenteremo differenze tra ciascuna di quelle altre cose e tra tutte quelle altre cose e ‘io’, così a meno che sperimentiamo noi stessi solamente, non possiamo sperimentare uno stato privo di differenziazione. Nel sonno sperimentiamo temporaneamente uno stato privo di differenziazione, ma poiché entriamo nel sonno solo a causa di sfinimento e non a causa di un chiaro sperimentare noi stessi come siamo realmente, presto o tardi sorgeremo dal sonno e sperimenteremo nuovamente uno stato di differenziazione o nella veglia o nel sogno. Quindi, al fine di essere permanentemente liberi da tutte le differenziazioni, dobbiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente, e possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente solo sperimentando noi stessi solamente, senza alcun attributo.
Nel suo terzo commento Venkat ha scritto:
Fino a che percepiamo o sperimentiamo qualsiasi cosa diversa da ‘io’, sperimenteremo differenze tra ciascuna di quelle altre cose e tra tutte quelle altre cose e ‘io’, così a meno che sperimentiamo noi stessi solamente, non possiamo sperimentare uno stato privo di differenziazione. Nel sonno sperimentiamo temporaneamente uno stato privo di differenziazione, ma poiché entriamo nel sonno solo a causa di sfinimento e non a causa di un chiaro sperimentare noi stessi come siamo realmente, presto o tardi sorgeremo dal sonno e sperimenteremo nuovamente uno stato di differenziazione o nella veglia o nel sogno. Quindi, al fine di essere permanentemente liberi da tutte le differenziazioni, dobbiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente, e possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente solo sperimentando noi stessi solamente, senza alcun attributo.
Nel suo terzo commento Venkat ha scritto:
Spiacente di
elaborare nuovamente. Bhagavan disse: ‘Sii quieto e immobile e tutti i pensieri
scompariranno. Auto-indagine e auto-abbandono sono solo tecniche che conducono
allo stato di immobilità e calma interiore. L’istruzione definitiva è quindi:
‘Sii immobile e quieto; stabilizzati in questo stato e il Sé sarà rivelato’ ”.
La mia
comprensione è che il pensiero-io, è l’illusione fondamentale… che questo
corpo-mente è distinto, separato e ‘mio’ relativamente a tutto il resto. Così
per realizzare ajata vada [la dottrina che non c’è creazione] e la
non-dualità, il pensiero stesso ha
bisogno di vedere che è limitato e quindi giungere a una fine. La tecnica di
Bhagavan per questo è focalizzarsi all’origine di tutti gli altri pensieri – il
pensiero-‘io’, ogni volta sorge, e quindi vedere che non è differente da tutti
gli altri pensieri e percezioni, e come tutti quelli, appare su uno schermo di
consapevolezza. E’ corretto?
Venkat è nel giusto dicendo che il pensiero-‘io’ (il pensiero che chiamiamo ‘io’, che è il nostro ego) è la nostra illusione fondamentale, ma non è un pensiero come altri pensieri, perché mentre tutti gli altri pensieri sono non-coscienti e quindi sperimentati solo da questo pensiero chiamato ‘io’, questo pensiero chiamato ‘io’ è una mescolanza del nostro puro ‘io’, che è cosciente (cit), con attributi estranei, che sono non-coscienti (jaḍa). Quindi questo ego o pensiero chiamato ‘io’ è definito cit-jaḍa-granthi, il nodo (granthi) che lega insieme il cosciente e il non-cosciente come se fossero uno.
Quindi al fine di sperimentare il nostro puro ‘io’ (ciò che siamo realmente) abbiamo bisogno di separarlo da tutti gli attributi estranei con cui è ora mischiato, e il solo modo per fare ciò è cercare di dare attenzione a ‘io’ solamente. Questo tentativo di dare attenzione e sperimentare ‘io’ solamente è la pratica che Bhagavan chiama ātma-vicāra o auto-investigazione.
Venkat suggerisce che ‘il pensiero stesso ha bisogno di vedere che è limitato e quindi giungere a una fine’, ma nessun pensiero diverso dal pensiero ‘io’ può vedere qualsiasi cosa, e questo pensiero chiamato ‘io’ sperimenta già se stesso come limitato. Quindi esso non giunge ad una fine semplicemente vedendo che è limitato. Al fine di giungere a una fine (cioè, cessare di essere l’entità finita che ora sembra essere), deve sperimentare se stesso come realmente è. Quando sperimenta se stesso come realmente è, cesserà di sperimentare se stesso come qualcuno degli attributi (come corpo e mente) che ora sperimenta come se stesso, e così cesserà di essere un ‘io’ mischiato con attributi che ora sembra essere, e rimarrà invece come il puro ‘io’ che sempre è realmente.
Riguardo alle parole di Bhagavan Ramana che Venkat ha citato, sospetto che queste non siano le sue parole esatte, ma l’idea che esse trasmettono è certamente in accordo con i suoi insegnamenti essenziali. La frase ‘Auto-indagine e auto-abbandono sono solo tecniche che conducono allo stato di immobilità e calma interiore’ è vero nel senso che quando pratichiamo ātma-vicāra (auto-investigazione o auto-indagine), stiamo cercando di sperimentare noi stessi solamente focalizzando la nostra intera attenzione solo su ‘io’, e dato che l’auto-attenzione non è un’azione ma il nostro stato naturale di solo essere (summā-v-iruppadu), è uno stato in cui siamo perfettamente quieti e fermi. E dato che i pensieri sorgono solo quando diamo attenzione a qualsiasi cosa diversa da ‘io’ (davvero i pensieri non sono altro che l’attenzione che diamo ad altre cose), quando rimaniamo perfettamente quieti e fermi dando attenzione solo a ‘io’, tutti i pensieri scompariranno automaticamente.
Riguardo l’auto-abbandono, è lo stato in cui non sorgiamo come un ‘io’ che sembra essere separato da Dio, l’unica realtà infinita che sempre risplende all’interno di noi come il nostro più intimo sé, e il solo modo per evitare il sorgere di un tale ‘io’ separato è dare attenzione solo a noi stessi. Come Sri Ramana dice nel tredicesimo paragrafo di Nāṉ Yār? (Chi sono io?)
ஆன்மசிந்தனையைத் தவிர வேறு சிந்தனை கிளம்புவதற்குச் சற்று மிடங்கொடாமல் ஆத்மநிஷ்டாபரனா யிருப்பதே தன்னை ஈசனுக் களிப்பதாம். [...]
āṉma-cintaṉaiyai-t tavira vēṟu cintaṉai kiḷambuvadaṯku-c caṯṟum iḍam-koḍāmal ātma-niṣṭhā-paraṉ-āy iruppadē taṉṉai īśaṉukku aḷippadām. […]
Essere completamente assorbiti in ātma-niṣṭhā [auto-dimorare, lo stato di essere semplicemente ciò che siamo realmente], non dando anche il minimo spazio al sorgere di qualsiasi pensiero diverso da ātma-cintanā [auto-contemplazione, il ‘pensiero’ di se stessi], è donare se stessi a Dio. […]
Quindi ‘auto-abbandono’ è solo un altro nome per ātma-vicāra o auto-investigazione – un altro modo di concettualizzare la stessa pratica – così la pratica effettiva di auto-abbandono è identica alla pratica di ātma-vicāra. Sia che la concepiamo come l’investigare noi stessi al fine di sperimentare noi stessi come siamo realmente, sia come l’arrendere noi stessi interamente al fine di non rimanere separati da Dio, ciò che effettivamente abbiamo bisogno di praticare è l’essere consapevoli di niente altro che noi stessi solamente. Dato che essere consapevoli di noi stessi solamente è il nostro stato naturale di essere semplicemente come realmente siamo, auto-investigazione o auto-abbandono è il solo strumento con cui possiamo sperimentare noi stessi come realmente siamo e quindi essere permanentemente stabiliti nel nostro stato naturale di assoluta immobilità, quiete o silenzio.
Nessun commento:
Posta un commento