Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

sabato 20 settembre 2014

Come evitare di compiere āgāmya e di sperimentare prārabdha?



  
In un commento a uno dei miei recenti articoli, ‘La teoria del karma come insegnata da Sri Ramana’, Sanjay ha scritto:

Signore, se il mio ego si placa completamente per una certa lunghezza o durata di tempo dando attenzione solo a ‘io’, ovviamente la mia libera-volontà o agamya diverrà inattiva, ma durante tale placarsi, il mio destino o fato (prarabdha) rimarrà anche inattivo, o la mia mente, la parola e il corpo continueranno ad agire secondo il prarabdha? Se essi continuano ad agire, chi sperimenta queste azioni e le esperienze risultanti del mio prarabdha, che sono tenuto allora a sperimentare?

In secondo luogo, tu hai detto
in questo articolo, credo, che fino a che il nostro ego è intatto, continueremo ad agire secondo il nostro prarabdha, e simultaneamente la nostra mente, la parola e  il corpo saranno anche in grado di compiere azioni creando agamya, esercitando la libera volontà, se essa non contraddice il nostro prarabdha. Ricordo una conversazione registrata con Bhagavan alquanto all’effetto:

Devoto: io posso comprendere che tutti i maggiori eventi nella mia vita sono predestinati, come dire, il mio matrimonio, il mio lavoro, i maggiori incidenti, eccetera, ma immaginiamo che raccolga questo ventaglio ora, ciò è anche predestinato?

Bhagavan: Sì, ogni cosa è predestinata.

Se questo dialogo è stato annotato esattamente, significa che Bhagavan sta dicendo che non abbiamo libera volontà delle nostre azioni fisiche (e per implicazione delle azioni della parola). Comprendiamo che sebbene la nostra mente ha libera volontà di desiderare qualcosa in opposizione o al posto del nostro prarabdha predestinato, la nostra parola e il nostro corpo sono completamente pre-programmati, e legati da un testo pre-esistente, come in un film?

Quali sono le tue osservazioni su questi due miei dubbi?


Fino a che la nostra mente, la parola e il corpo sembrano esistere, saranno fatti agire nel modo in cui il loro destino (prārabdha) richieda che sia sperimentato, senza tener conto del grado in cui il nostro ego è diminuito. In ogni modo, sperimenteremo quelle azioni ed esperienze come nostre azioni ed esperienze solo nella misura in cui diamo attenzione a esse, cosicché non le sperimenteremo nella misura in cui siamo in grado di dare attenzione solo a ‘io’.

Anche quando non stiamo dando attenzione a ‘io’, se la nostra mente è impegnata in qualche altro pensiero, difficilmente noteremo le azioni del nostro corpo, come camminare o anche guidare un’auto. Nello stesso modo, se diamo attenzione solo a ‘io’ invece di pensare ad altri pensieri non necessari, la nostra mente, la parola e il corpo continueranno ad agire secondo il nostro prārabdha, ma difficilmente li noteremo. Nella misura in cui diamo attenzione solo a ‘io’ non noteremo qualsiasi cosa la nostra mente, la parola e il corpo sono destinati a sperimentare.

Per quanto riguarda la domanda ‘chi sperimenta qualsiasi cosa è destinata a essere sperimentata se il nostro ego è cessato’:  se esso è cessato interamente, nessuno sperimenterà ciò che è destinato, e se è parzialmente cessato, sperimenteremo ciò che è destinato solo nella misura in cui il nostro ego non è cessato (in altre parole, solo nella misura in cui diamo attenzione a qualsiasi altra cosa diversa da ‘io’).

Sebbene è detto che la nostra mente, la parola e il corpo saranno fatti agire secondo il prārabdha anche se il nostro ego è cessato completamente, questo è detto solo come una concessione alla nostra ignorante convinzione che il mondo e ogni cosa in esso continua ad esistere anche quando non lo stiamo sperimentando, come per esempio nel sonno. Comunque, secondo la testimonianza di Sri Ramana, il mondo non esiste realmente  ma solo sembra esistere, ed esso non sembra neppure esistere quando non lo stiamo sperimentando. Quindi se diamo attenzione solo a ‘io’ e perciò evitiamo di sperimentare qualsiasi altra cosa, non c’è mondo e nessuna  mente, parola o corpo per compiere alcuna azione. Quindi dando attenzione solo a ‘io’ evitiamo completamente di compiere ogni azione (karma), sia azioni spinte dal destino  (prārabdha) sia azioni spinte dalla nostra libera volontà (āgāmya).

Quando formuliamo domande su  prārabdha e āgāmya, come quelle chieste da Sanjay, o sulla teoria del karma in generale, dovremmo chiedere a noi stessi perché desideriamo avere risposte a tali domande. Vogliamo conoscere riguardo tali cose solo perché siamo ancora interessati alla vita di questo ego (cioè, siamo ancora interessati a noi stessi come una persona e conseguentemente alla vita di questa persona), perché prārabdha e āgāmya sono appunto elementi nella vita dell’ego e non esisterebbero in sua assenza. Fino a che siamo ancora del tutto interessati al nostro ego e ai suoi karma (sia āgāmya sia prārabdha), la nostra mente è rivolta all’esterno, così continueremo a essere guidati da due forze, destino e libera volontà, e non saremo in grado di distinguere in quale misura ciascuna delle nostre azioni compiute con mente, parola o corpo è spinta da ciascuna di queste forze. Quindi dovremmo considerare il nostro interesse in domande riguardanti il karma come una distrazione che devia la nostra attenzione lontano dall’investigare la realtà dell’ ‘io’ che sembra compiere karma e sembra sperimentare i suoi frutti.

Riguardo alla conversazione cui Sanjay si riferisce, fu registrata da Devaraja Mudaliar in ‘My Recollections of Bhagavan Sri Ramana’ e dalle persone è spesso interpretata come se Bhagavan avesse voluto dire che non abbiamo libertà di compiere alcuna azione che non è destinata. Se questo fosse il caso, non potremmo compiere alcun āgāmya (cioè, alcun karma spinto dalla nostra libera volontà), pertanto non sarebbe generato alcun frutto per essere conservato nel nostro sañcita e da lì successivamente selezionato per essere sperimentato da noi come il prārabdha di qualche vita futura, e quindi anche il nostro attuale prārabdha non sarebbe il frutto di qualche āgāmya passato. In altre parole, l’intera teoria del karma come insegnata da Sri Bhagavan decadrebbe, poiché egli insegnò che il prārabdha è il frutto di āgāmya che abbiamo compiuto in vite passate.

Poiché il nostro destino  (prārabdha) è il frutto delle azioni che abbiamo compiuto nel passato, se tutte le azioni che abbiamo compiuto nel passato fossero compiute solo secondo il destino e non secondo la nostra libera volontà, staremmo sperimentando il frutto di azioni che non abbiamo compiuto per nostra libera volontà. Se qualcuno dovesse affermare che questo è il caso, ciò sarebbe in effetti un rifiuto dell’intera teoria del karma. Quindi se crediamo alla teoria del karma come insegnata da Sri Ramana dobbiamo accettare che mentre sperimentiamo prārabdha (fato o destino) siamo in grado di compiere āgāmya (azioni spinte dalla nostra libera volontà).

Contrariamente a ciò che alcune persone credono, la teoria del karma non è mero fatalismo, poiché essa non solo presuppone che abbiamo libera volontà  ma anche che qualsiasi cosa sperimentiamo è un risultato di qualcosa che abbiamo precedentemente compiuto per nostra libera volontà.  Sebbene qualsiasi azione che ora compiamo per nostra libera volontà non possa alterare ciò che siamo destinati a sperimentare in questa vita attuale, tali azioni possono influire su ciò che siamo tenuti a sperimentare nelle vite future, proprio come ciò che ora sperimentiamo è un risultato di azioni che abbiamo compiuto per nostra libera volontà in vite passate.

La conversazione a cui Sanjay si riferisce fu registrata da Devaraja Mudaliar come segue, all’inizio del capitolo quattro di My Recollections of Bhagavan Sri Ramana:



Un pomeriggio d’estate stavo sedendo di fronte a Bhagavan nella sala vecchia, con un ventaglio nella mia mano, e gli dissi: “Posso comprendere che gli eventi di spicco nella vita di un uomo, come il suo paese, la nazionalità, la famiglia, la carriera o la professione, il matrimonio, la morte eccetera, sono tutti predestinati dal suo karma, ma è possibile che tutti i dettagli della sua vita, fino al più piccolo, siano già stati determinati? Ora, per esempio,  metto questo ventaglio che ho in mano a terra, qui sul pavimento. Può essere che fosse già deciso che in un determinato giorno, a una determinata ora, io muovessi questo ventaglio e lo mettessi qui a terra?”

Bhagavan rispose “Certamente”. Egli continuò: “Qualsiasi cosa questo corpo è tenuto a fare e qualsiasi esperienza è tenuto ad attraversare era già decisa quando esso venne in esistenza”.

A quel punto naturalmente esclamai: “Cosa ne è allora della libertà dell’uomo e della responsabilità per le sue azioni?”

Bhagavan spiegò: “La sola libertà che l’uomo ha è quella di sforzarsi per conseguire il jnana che lo renderà in grado di non identificare se stesso con il corpo. Il corpo si muoverà attraverso le azioni rese inevitabili dal  prarabdha (il destino basato sul bilancio delle vite passate) e un uomo è libero o di identificare se stesso come il corpo ed essere attaccato ai frutti delle sue azioni, o essere distaccato da esso ed essere un semplice testimone delle sue attività”.

Non so con quale accuratezza Devaraja Mudaliar prese nota di questa conversazione avuta con Bhagavan, ma dubito che sia perfettamente precisa, perché quando mettiamo per iscritto una qualsiasi conversazione attingendola dalla memoria, registreremo solo ciò che abbiamo compreso piuttosto che ciò che fu detto realmente. Comunque, sia che questa registrazione fu precisa o meno, non la dovremmo interpretare come se Bhagavan intendeva negare che possiamo compiere āgāmya mentre stiamo sperimentando il nostro prārabdha. Tutto ciò che egli intendeva enfatizzare era che qualunque cosa sperimentiamo è predeterminata da qualche prārabdha che ci è stato assegnato per l’esistenza del nostro attuale corpo.

Quando Bhagavan disse che abbiamo la libertà di rivolgere la nostra mente all’interno per sperimentare noi stessi come siamo realmente, distruggendo quindi l’ego che ora sperimenta se stesso come il corpo e la mente che compiono il karma, l’ovvia implicazione è che se siamo liberi di rivolgere la nostra attenzione all’interno per sperimentare solo ‘io’, dobbiamo anche essere liberi di non farlo – in altre parole, dobbiamo essere liberi di rivolgere la nostra attenzione all’esterno per sperimentare altre cose. Questo è il modo in cui compiamo āgāmya usando impropriamente la nostra libera volontà.

Ogni volta che sperimentiamo qualcosa di diverso da ‘io’, stiamo sperimentando noi stessi come l’ego, l’ ‘io’ confuso con attributi che sperimenta se stesso come il corpo e la mente che compiono karma, in questo modo sperimentiamo qualsiasi karma è compiuto da quel corpo e quella mente come se fossero compiuti da noi, sia volontariamente sia involontariamente. Quindi, le azioni che sono spinte dal nostro prārabdha ci possono sembrare azioni che stiamo compiendo per nostra libera volontà. Per usare l’esempio di Devaraja Mudaliar, se è nel mio prārabdha che io prenda un ventaglio e mi sventoli, mi sembrerà che io stesso abbia deciso di fare questo per mia libera volontà perché stavo sentendo caldo. Così il senso di essere l’agente e la volizione con cui ho compiuto quella azione significheranno che essa non fu spinta solo dal mio destino  ma anche dalla mia libera volontà, e così nello sperimentare quella particolare parte di  prārabdha avrò anche compiuto un āgāmya.

In ogni caso questo si può applicare solo ad alcune delle azioni che siamo spinti a compiere dal nostro prārabdha, poiché sperimentiamo alcune di queste azioni come incidenti o come cose che non abbiamo compiuto intenzionalmente. Per esempio, se fosse il mio prārabdha che mi fosse chiesto di portare un antico vaso di valore e se involontariamente lo rompessi mandandolo in frantumi, sperimenterei quell’azione come un incidente, nel qual caso mentre sperimenterei quella particolare parte di prārabdha potrei non aver compiuto un āgāmya. 

Comunque, sebbene possiamo fornire tali esempi ipotetici per illustrare la possibilità che le azioni che compiamo secondo il nostro prārabdha possono essere spinte anche dalla nostra libera volontà e costituire così un āgāmya, o possono non esserlo, dovremmo tenere in mente che tali esempi sono intesi solo come illustrazioni di possibilità, e non a significare che abbiamo realmente qualche mezzo sicuro con cui possiamo renderci conto se qualche azione particolare che compiamo è un āgāmya  o meno. Non possiamo e non abbiamo bisogno di renderci conto di questo,  e se cerchiamo di farlo, distrarremo noi stessi dal nostro scopo reale, che è solo renderci conto di chi sono io. Cercare di renderci conto di chi sono io è ātma-vicāra (auto-investigazione), mentre cercare di renderci conto di qualsiasi cosa riguardo i karma che compiamo è anātma-vicāra (investigazione su qualcosa che non è noi stessi).

Tutto ciò che abbiamo bisogno di comprendere è che fino a che sorgiamo come un ego e quindi sperimentiamo noi stessi come un corpo e una mente, saremo costantemente guidati dalla nostra libera volontà (nella forma delle nostre simpatie, antipatie, desideri, paure, speranze, aspirazioni, preferenze e così via) a compiere āgāmya mentre sperimentiamo il nostro prārabdha, e che quindi l’unico modo per evitare di compiere alcun āgāmya e di sperimentare alcun prārabdha è far cessare il nostro ego per mezzo di un’osservazione vigilante di esso – cioè, essendo vigilantemente auto-attentivi, cercando di sperimentare niente altro che ‘io’ solamente.

Riguardo alla domanda finale di Sanjay se tutte le azioni del nostro corpo e parola sono interamente predeterminate e solo la nostra mente è in grado di agire secondo la propria libera volontà,  questo può sembrare un modo molto svelto e conveniente di distinguere le azioni spinte dalla nostra libera volontà dalle azioni spinte dal nostro destino, ma non c’è realmente un modo semplice – di fatto non c’è modo – con cui possiamo distinguerle. I funzionamenti del karma sono troppo complessi e sottili per essere spiegabili nei termini semplicistici di una tale formula.

Le azioni della nostra mente, parola e corpo sono intimamente intrecciate, e le sperimentiamo tutte come azioni compiute da un singolo ‘io’, il nostro ego. Ogni azione volitiva che compiamo per mezzo di corpo o parola è iniziata da un’azione che compiamo con la mente, così essa è lo strumento attraverso il quale il nostro ego manipola gli altri due strumenti. Inoltre, la manipolazione dell’ego sulla nostra mente e quindi sulla parola e sul corpo accade senza giunture. Quando decidiamo di compiere qualche azione con il corpo o la parola, come alzare le mani o pronunciare una frase, prima di decidere di compiere quell’azione non sperimentiamo la nostra mente poi diciamo a questi strumenti di compiere quell’azione e infine essi la compiono, come una conseguente serie di azioni, ma viviamo tutto ciò come un’azione singola, come se la nostra stessa mente stesse alzando la nostra mano e pronunciando quella frase con il suo semplice desiderio di farlo.

Come Sri Ramana ha indicato nella nota che scrisse per sua madre (che ho citato e discusso nell’articolo ‘La teoria del karma come insegnata da Sri Ramana’), siamo in grado di sforzarci per sperimentare ciò che non siamo destinati a sperimentare o per evitare di sperimentare ciò che siamo destinati a sperimentare. Quando facciamo un tale sforzo esso non si ferma in qualche limite immaginario tra la nostra mente e il nostro corpo o parola. Se vogliamo scalare una montagna o passare un esame, non supponiamo di poterlo fare solo pensando a ciò: per mezzo di mente, parola e corpo cerchiamo di fare qualsiasi azione che ci può essere necessaria al fine di sperimentare qualunque cosa vogliamo sperimentare. I nostri sforzi non avranno successo se quell’esperienza non è parte del nostro  prārabdha, ma il nostro prārabdha non limiterà i nostri sforzi in modo che siano fatti solo dalla nostra mente e non dal nostro corpo o parola. Gli sforzi fatti dalla nostra mente per effettuare  qualsiasi esperienza esteriore sono naturalmente espressi come azioni fisiche e verbali, così āgāmya (l’azione spinta dalla libera volontà) è compiuta dal nostro ego attraverso tutti questi tre strumenti: mente, parola corpo.

Fino a che il nostro ego non è interamente cessato, la sua libera volontà sarà attiva, così esso sarà costantemente guidato dalle sue simpatie, antipatie, speranze, paure, preferenze, senso di obbligo e così via, che lo spingeranno a compiere azioni per mezzo di mente, parola e corpo, e poiché queste azioni sono spinte dalla nostra libera volontà, esse sono āgāmya. Per mezzo di tali āgāmya non saremo in grado di cambiare in alcun modo il nostro prārabdha, ma poiché le nostre azioni sono guidate simultaneamente sia dal destino sia dalla libera volontà, non saremo in grado di distinguere tra il nostro prārabdha e le nostre āgāmya.

Dato che inevitabilmente saremo guidati dalla nostra libera volontà a compiere āgāmya fino a quando il nostro ego non è interamente cessato (e nella misura in cui non è cessato), il solo modo per arrendere interamente la nostra libera volontà e per evitare quindi di compiere qualsiasi  āgāmya è far cessare il nostro ego, e il solo modo per farlo cessare è dare attenzione solo a ‘io’.

Quindi, nella misura in cui diamo attenzione a qualsiasi altra cosa diversa da ‘io’, il nostro ego sorgerà e sarà guidato dalla sua libera volontà, compiendo in tal modo āgāmya, e nella misura in cui diamo attenzione solo a ‘io’, il nostro ego cesserà e quindi si asterrà dal compiere qualsiasi āgāmya. 

Quindi dare attenzione a nient’altro che ‘io’ è il solo mezzo per evitare sia di compiere āgāmya sia di sperimentare prārabdha.

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