Michael James
7 Ottobre 2011
Qualcuno mi ha scritto recentemente dicendo di pensare che
l’uso della parola ‘distruzione’ in ‘distruzione della mente’ (manōnāśa)
sia solo una ‘esagerazione Indiana’ e non dovrebbe essere presa alla lettera,
perché è ovvio che Bhagavan e altri jñānis pensano, dato che senza pensare non avrebbero potuto
camminare o parlare. Spero che non ci siano molte altre persone che hanno
frainteso in questo modo gli insegnamenti di Bhagavan riguardo manōnāśa,
ma poiché manōnāśa è, come lui ci ha insegnato, il fine che dovremmo conseguire
credo che il seguente adattamento della mia risposta a questa persona può
essere utile per altri devoti.
Per comprendere ciò che Bhagavan intende con manōnāśa (la distruzione, l’annichilimento, l’eliminazione, il crollo, la scomparsa o la morte della mente), dovremmo prima considerare ciò che intende con ‘mente’ o manas. Nel verso 18 di Upadēśa Undiyār (la versione originale Tamil di Upadēśa Sāram) egli dice:
La mente è solo pensieri. Di tutti i pensieri, il pensiero chiamato ‘io’ è la radice. [Quindi] ciò che è chiamata ‘mente’ è [in essenza solo questo pensiero radice] ‘io’.
Nel verso 2 di Āṉma Viddai indica che ciò che intende qui con ‘il
pensiero chiamato io’ è il pensiero ‘io sono questo corpo’ (l’illusione che il
corpo fisico sia ‘io’):
Dato che solo il
pensiero ‘questo corpo composto di carne è io’ è il filo su cui [tutti] i vari
pensieri sono infilati, se [uno] va all’interno [investigando] ‘Chi sono io?
Quale è il [suo] luogo [la sorgente da cui questo ‘io’ è sorto, e il suolo su
cui si mantiene]?’ i pensieri cesseranno, e nella caverna [del proprio
cuore] ātma-jñāna [l’auto-conoscenza]
risplenderà spontaneamente come ‘io [sono solo] io’. Questo è silenzio, l’unico
spazio [vuoto] [di consapevolezza], la dimora della beatitudine.
Il fatto che la
mente è in essenza niente altro che la falsa identificazione del nostro sé, che
è pura consapevolezza di essere (sat-cit), come un corpo fisico, che è
un oggetto non cosciente (jaḍa), è anche enfatizzato da Bhagavan nel
verso 24 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
Il corpo jaḍa [non cosciente] non dice ‘io’ [poiché
esso non sperimenta se stesso]; sat-cit [essere-consapevolezza] non
sorge [o ha origine]; [ma] tra [la consapevolezza e il corpo] un ‘io’ sorge
come la dimensione del corpo. Sappi che questa [falsa consapevolezza ‘io sono
questo corpo’] è cit-jaḍa-granthi [il nodo tra la coscienza e il non
cosciente], bandha [schiavitù], jīva [l’anima o persona], il
corpo sottile, l’ego, questo saṁsāra [attività irrequieta, errante,
illusione o ignoranza] e manam
[la mente].
Così la mente è una mescolanza confusa di reale e irreale.
Il suo elemento reale è l’aspetto sat-cit, che è eterno e quindi
indistruttibile e immutabile.
Poiché la mente confonde in questo modo la coscienza (cit)
con il non-cosciente (jaḍa), è chiamato il cit-jaḍa-granthi, il
nodo (granthi) che apparentemente lega la coscienza al non-cosciente. In
una conversazione riportata nell’ultimo capitolo di Maharshi’s Gospel (13° edizione, 2002, pag.89),
Bhagavan enfatizza il fatto che la mente o ego non è niente altro che il cit-jaḍa-granthi:
[…] l’ego ha una e solo una caratteristica [rilevante].
L’ego funziona come il nodo tra il sé [,] che è pura consapevolezza [,] e il
corpo fisico [,] che è … insenziente. L’ego è quindi chiamato il cit-jaḍa-granthi. Nella tua
investigazione nella sorgente di aham-vṛtti [il pensiero ‘io’], prendi
l’aspetto essenziale cit dell’ego; e per questa ragione l’investigazione
deve condurre alla realizzazione della pura consapevolezza del Sé.
Bhagavan dice che questo pensiero primario ‘io’ (la falsa
impressione ‘io sono questo corpo’) è la radice di tutti gli altri pensieri e
il filo su cui essi sono infilati, perché è il pensatore e lo sperimentatore di
essi, così senza di esso nessun altro pensiero può esistere. Quindi tutto il
pensiero o attività mentale è dipendente da questa illusione ‘io sono questo
corpo’, che è la mente o ego.
Nella veglia la mente confonde se stessa come questo attuale
corpo, e nel sogno confonde se stessa come qualche altro corpo immaginario. I
corpi cambiano, ma il falso ‘io’ che prende ciascuno di essi come se stesso
rimane essenzialmente lo stesso. Dato che la nostra intera vita corporea è solo
un sogno che accade nel nostro prolungato sonno di auto-ignoranza, quando un
corpo muore, la mente immagina un altro corpo come se stessa, e in questo modo
si sottopone a una lunga serie di vite corporali (sogni). Questo è il motivo
per cui Bhagavan dice nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
Afferrando una forma [un corpo], il fantasma-ego senza forma
ha origine; afferrando una forma [un corpo, gli oggetti percepiti attraverso i
sensi di quel corpo, e i pensieri e le sensazioni riguardo tali oggetti], esso
permane; afferrando e nutrendosi di questa forma [tali pensieri e oggetti],
esso cresce [si espande o prospera] grandemente; lasciando [una] forma, esso
afferra [un’altra] forma. [Comunque] se [uno] cerca [la verità di esso
investigando cosa è], esso fugge. Sappi [di conseguenza].
Poiché la mente o ego non ha forma propria, sembra esistere
solo dando attenzione alle forme (che sono tutti prodotti della sua
immaginazione), ma se tenta di dare attenzione a se stessa, non troverà forma
da afferrare, così cesserà e scomparirà.
La mente sembra esistere solo nella veglia e nel sogno,
quando ha afferrato un corpo come se stessa, ma se cessa e scompare nel sonno,
poiché il sonno è uno stato in cui è troppo esausta per afferrare qualsiasi
forma, sprofonda nella sua sorgente per recuperare la sua energia.
Poiché il sonno è solo uno stato temporaneo di cessazione, è
uno stato di manōlaya (sospensione della mente), e da esso la mente di
certo sorgerà nuovamente. Nello stesso modo la morte e il coma sono entrambi
solo stati di manōlaya, come lo è anche qualsiasi cessazione temporanea
o samādhi raggiunto per mezzo dello yōga e altre pratiche
spirituali che richiedono il dare attenzione a qualsiasi altra cosa diversa da
‘io’.
Perciò nel verso 13 di Upadēśa Undiyār Bhagavan distingue i due generi di cessazione
della mente, temporanea e permanente:
La cessazione [della mente] è [di] due [generi], laya
and nāśa. Ciò che giace [in laya] sorgerà. Se [la sua] forma
muore [in nāśa], non sorgerà.
In questo verso Bhagavan chiarifica che nāśa è
distinto da ogni genere di laya (che sono tutti temporanei, poiché sono
stati da cui la mente prima o poi sorgerà nuovamente), e che è permanente,
poiché è uno stato in cui la mente è morta e da cui essa non sorgerà
nuovamente.
Bhagavan scrisse questo verso nel contesto di un breve
accenno che diede delle pratiche yōga
come il prāṇāyāma (controllo
del respiro), che in se stesse possono solo determinare manōlaya e non manōnāśa
(come spiega in maggiore dettaglio nell’ottavo paragrafo di Nāṉ Yār?,
che ho citato sopra), così nel verso successivo enfatizza che la mente sarà
distrutta solo quando pratichiamo l’unico sentiero di auto-investigazione (ātma-vicāra):
Solo quando [uno] spinge la mente – che cessa [solo
temporaneamente in laya] quando [uno] trattiene il respiro – sul ōr
vaṙi, la sua forma cesserà [o morirà in nāśa].
Le parole Tamil ōr vaṙi hanno due possibili
significati letterali, ‘[il] solo [unico o speciale] sentiero’ e ‘[il] sentiero
di investigazione [di esaminare o di conoscere]’, ma qualunque significato
scegliamo, essi si riferiscono allo stesso sentiero, vale a dire l’unico
sentiero di auto-investigazione (ātma-vicāra).
Bhagavan esprime questa stessa verità in altre parole
nell’ottavo paragrafo di Nāṉ Yār? (Chi sono io?):
Per far cessare la mente [permanentemente], non
ci sono mezzi adeguati oltre che vicāra. Se trattenuta con altri mezzi,
la mente rimarrà come se fosse quietata, [ma] emergerà nuovamente. Anche per
mezzo di prāṇāyāma [controllo del respiro], la mente si quieterà;
tuttavia, [sebbene] la mente rimane controllata fino a che il respiro è
controllato, quando il respiro emerge essa anche emerge e vaga sotto
l'influenza delle [sue] vāsanās [disposizioni, inclinazioni, impulsi o
desideri]. […]Quindi prāṇāyāma è semplicemente un aiuto per trattenere
la mente, ma non determinerà manō-nāśa [l'annientamento della mente].
Nel prossimo verso di Upadēśa Undiyār (verso 15) Bhagavan descrive lo stato
di manōnāśa come segue:
Quando la forma-mente è annientata, per il grande yōgi
che è [a causa di ciò] stabilito come la realtà, non c’è una singola azione [o
fare], [poiché] egli ha ottenuto la sua [vera] natura [che è essere senza
azione].
La persona che mi ha scritto affermando che manōnāśa (la
distruzione della mente) non dovrebbe essere presa letteralmente ha scritto,
‘Il pensiero continua, anche per qualcuno come Ramana (e tutti gli altri
Jnanis), altrimenti come potrebbe Ramana camminare in cucina o rispondere a
domande’, ma in questo verso Bhagavan enfatizza che per il jñānis non
c’è azione di qualunque tipo, che significa che non c’è assolutamente il
pensare, il parlare o il camminare.
Come egli ha spesso spiegato, le attività corporali e
mentali del jñāni appaiono esistere solo nell’ignorante osservazione
degli altri (ajñānis), che lo scambiano come un corpo e una mente che
compie tali azioni, poiché nella chiara visione del jñāni tutto ciò che
esiste è solo sé, che è essere-consapevolezza puro e non duale (sat-cit).
Poiché confondiamo noi stessi come un corpo e una mente, confondiamo anche il jñāni
come un corpo e una mente, ma per lui (o lei) non c’è una tale cosa.
Quando Bhagavan tradusse questo verso in Malayalam (in un
metro più lungo di quello che lui usava nelle versioni Tamil, Sanscrite e
Telugu), aggiunse una proposizione relativa che descrive il grande ātma-yōgi
come ‘chi è visto come un umano dall’apparenza esteriore’ (vēṣattāle manuṣyanāy
kāṇum), indicando perciò che la forma
umana del jñāni è solamente un abito esterno (vēṣa) che appare
reale solo all’osservazione dell’ ajñānis.
Questo è il motivo per cui Bhagavan usava dire (come riportato
nel verso 283 di Guru
Vācaka Kōvai e altrove) che l’apparenza del guru in forma umana
è come l’apparenza di un leone nel sogno di un elefante, lo shock di vedere
questo fa svegliare l’elefante. Benché il leone sia irreale, essendo solo una
creazione della mente dell’elefante, il risveglio che causa è reale. Nello
stesso modo, la forma esterna del guru è irreale, essendo solo una
creazione della nostra mente sognante, ma essa ci fa risvegliare al nostro vero
sé, poiché ciò che vediamo esteriormente come la forma umana del guru è
realmente niente altro che il nostro sé essenziale, che sempre risplende nel
nostro cuore come ‘io sono’.
La verità che Bhagavan ci insegna nel verso 15 di Upadēśa Undiyār è da lui insegnata in modo egualmente
enfatico nel verso 31 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
Per coloro che godono tanmayānanda [la ‘beatitudine
composta di quello’, vale a dire il sé reale], che è sorto [come ‘io sono io’]
distruggendo il [falso] sé [la mente o ego], cosa esiste a fare una [azione]?
Essi non conoscono qualsiasi cosa diversa da sé, [così] chi può [o come]
concepire il loro stato come ‘è tale’?
Nella chiara, pura esperienza di un jñāni, niente esiste diverso da sé,
così non c’è mente, corpo o mondo, e quindi niente che compia qualsiasi azione.
Questa è una verità che Bhagavan enfatizzava ripetutamente non solo nei suoi
scritti ma anche in molte delle conversazioni con lui che sono state registrate
da altri, ed è il motivo per cui scrisse nei versi 30 e 33 di Uḷḷadu Nāṟpadu Anubandham:
Come una persona che sta [apparentemente] ascoltando una
storia [ma la cui] mente è andata lontano [e che quindi non sente realmente ciò
che viene detto], una mente in cui [tutte] le vāsanas [propensioni o desideri] sono
stati distrutti [realmente] non fa [alcuna cosa] anche se sta
[apparentemente]facendo. [D’altro parte] una mente che è satura di esse [vāsanas]
sta realmente facendo anche se [apparentemente] non fa [alcuna cosa], [proprio
come] una persona che in un sogno si arrampica su una collina e cade in un
precipizio, anche se sta giacendo immobile qui [in questo mondo di veglia].
L’attività [della veglia o del sogno], il niṣṭhā
[assorbimento o samādhi] e il sonno che stanno [apparentemente
accadendo] al mey-jñāni [il
conoscitore della realtà], che è incurante all’interno del corpo di carne, che
è [come] un carro, sono simili al carro in movimento, al carro in sosta o al
carro che rimane solo [con i buoi non aggiogati] per una persona che dorme nel
carro. [Cioè, questi stati transitori del corpo e della mente non sono
sperimentati dal jñāni, proprio come gli stati di un carro non sono
sperimentati da una persona che sta dormendo al suo interno.]
Per coloro che sperimentano la veglia, il sogno e il sonno,
il sonno desto, [che è] oltre [questi tre stati transitori], è chiamato turīya
[‘il quarto’]. Poiché solo turīya esiste, [e] poiché i tre [stati
di veglia, sogno e sonno] che appaiono [esistere] non esistono, sii certo [che turīya
è realmente] turīya-v-atīta [turīyātīta, quello che trascende il ‘quarto’].
Dicendo ‘saṁcita e āgāmya non si attaccano al jñāni
[ma] prārabdha rimane’ è una
risposta data alle domande di altri. Proprio come [qualunque] sposa rimane
vedova quando il marito è morto, sappi che [quando] l’agente [è morto] tutti i
tre karma cessano.
Poiché l’esperienza del jñāni è che esiste solo il
sé, e niente altro è mai esistito, la mente che ora sperimentiamo non esiste
realmente ma è solo un’illusione. Quindi lo stato che è chiamato manōnāśa
(distruzione della mente) non è realmente uno stato in cui qualcosa che esisteva
è stato distrutto, ma è solo la chiara conoscenza che mai è esistito niente
altro che il sé. Questo è il motivo per cui nel verso 17 di Upadēśa Undiyār Bhagavan dice:
Quando [chiunque] esamina la forma della mente senza
dimenticanza, [sarò chiaro che] non
esiste qualcosa come la ‘mente’. Per chiunque, questo è il sentiero diretto [retto,
opportuno, corretto o vero].
Se vediamo una corda posata sul terreno nella fioca luce del crepuscolo, possiamo
confonderla con un serpente. Proprio come quel serpente non esiste realmente ma
è solo un’immaginazione, questa mente non esiste realmente ma è solo un’immaginazione.
E proprio come l’unica realtà alla base della comparsa del serpente è solo una
corda, così l’unica realtà alla base della comparsa di questa mente è solo il
sé, che è essere-consapevolezza assolutamente non-duale, e quindi completamente
privo di tutti i pensieri, le percezioni e le differenze.
In altre parole, ciò che ora sperimentiamo come la nostra
mente limitata è di fatto niente altro che il nostro sé infinito, e se
sperimentiamo come è realmente, non ci apparirà più come questa mente limitata,
che pensa i pensieri e sperimenta le cose che appaiono diverse da esso.
Quindi, dire che la mente è distrutta dal riconoscere che
non è realmente niente altro che il sé è come dire che il serpente è distrutto
dal riconoscere che è realmente solo una corda. Tali affermazioni non sono
intese nel significato che la mente o il serpente siano esistiti realmente come
tali, perché ciò che è distrutto non è la loro reale esistenza ma solo l’illusione
della loro esistenza.
Quando la mente è in questo modo distrutta, il cit-jaḍa-granthi
(il nodo tra la coscienza e il non cosciente) è tagliato a pezzi, che significa
che la sua parte jaḍa (non cosciente) (vale a dire il corpo e le altre
aggiunte che identifichiamo come ‘io’) scompaiono, e solo la sua parte cit
(coscienza), ‘io sono’, rimane, poiché è la sola realtà.
Dato che questo nodo è un’errata conoscenza di noi stessi,
può essere distrutto solo per mezzo della vera auto-conoscenza, e il solo mezzo
con cui possiamo sperimentare la vera auto-conoscenza è ātma-vicāra,
perché non possiamo sperimentare ciò che siamo realmente se non diamo
attenzione a noi stessi in modo accurato e vigilante, ritirando il nostro
potere di attenzione da tutte le altre cose. Questa è la verità che Bhagavan ci
insegna nel verso 16 di Upadēśa Undiyār:
Avendo rinunciato [a conoscere] i viṣayas esterni
[oggetti, affari, stati, eventi o esperienze], solo il conoscere della mente la
propria forma di luce è vera conoscenza [o conoscenza della realtà].
In stati di manōlaya come il sonno, il coma, la morte
o yōga-nidrā (che è un termine che, secondo le trascrizioni, Bhagavan ha
usato qualche volta per descrivere ogni stato di samādhi provocato da qualsiasi mezzo
diverso dall’auto-attentività), la mente si è placata perché ha cessato di
sperimentare qualsiasi viṣayas esterno, ma il suo placarsi è solo
temporaneo, poiché si è placata senza conoscere chiaramente ‘la propria forma
di luce’ – la sua forma essenziale di pura consapevolezza. Per essere
distrutta, la mente non solo deve cessare di sperimentare qualsiasi viṣayas esterno,
ma deve anche sperimentare chiaramente ‘la propria forma di luce’ (che è ‘l’essenziale
aspetto cit [consapevolezza] dell’ego [la mente o cit-jaḍa granthi]’
a cui Bhagavan si è riferito nella parte della conversazione trascritta nell’ultimo
capitolo di Maharshi’s Gospel a cui mi sono riferito
precedentemente.
La mente non può sperimentare ‘la propria forma di luce’ con
assoluta chiarezza se non ha rinunciato completamente a sperimentare anche
minimamente qualsiasi viṣayas esterno,
ma può rinunciare completamente a sperimentare qualsiasi viṣayas esterno
senza sperimentare chiaramente ‘la propria forma di luce’, come fa nel sonno e
in altri stati di manōlaya. Questo è il motivo per cui in questo verso
Bhagavan pone l’enfasi sulla ‘mente che
conosce la propria forma di luce’ rendendolo il soggetto della frase, e relega ‘avendo
rinunciato ai viṣayas esterni’ a una posizione sussidiaria rendendola
una frase di participio.
Cioè, rinunciare a sperimentare viṣayas esterni è una
condizione necessaria per manōnāśa, ma non una condizione sufficiente,
mentre il conoscere della mente la propria forma di luce non è solo una condizione
necessaria ma anche una condizione sufficiente per manōnāśa. Quindi, ciò
che Bhagavan ci insegna in questo verso estremamente importante - la gemma centrale di Upadēśa Undiyār – è che per sperimentare la vera
auto-conoscenza, che sola può distruggere la mente, dobbiamo non solo rinunciare
a sperimentare viṣayas esterni ma
anche sperimentare la nostra ‘forma di luce’ – la nostra reale natura, che è la
luce assolutamente chiara della pura consapevolezza (senza-concetti).
In stati differenti di manōlaya ci possono essere
differenti gradi di chiarezza di auto-consapevolezza, ma poiché non è una
chiarezza completa non distrugge la mente, e quindi essa sorgerà nuovamente.
Inoltre, poiché in un tale stato non possiamo compiere sforzo, noi possiamo
aumentare il grado di chiarezza fino a che usciamo da quello stato. Solo quando
la mente si è risollevata da laya
può fare lo sforzo necessario per focalizzare la sua attenzione in modo
accurato ed esclusivo sulla ‘propria forma di luce’.
Questo è il motivo per cui Bhagavan ha enfatizzato
ripetutamente che quando pratichiamo ātma-vicāra dovremmo non solo
evitare di essere trasportati lontano da qualsiasi pensiero ma dovremmo anche
evitare di sprofondare in qualsiasi forma di manōlaya, e che il solo
mezzo con cui possiamo in questo modo rimanere fermamente stabiliti nel nostro
stato naturale di auto-dimora o ātma-niṣṭhā (in cui il nostro potere di
attenzione resta fermamente bilanciato nel punto centrale tra i due stati
ordinari di pensiero e di laya) è di dare attenzione in modo accurato e
vigilante alla nostra ‘forma di luce’ – l’essenziale aspetto cit della
nostra mente.
Il potere di māyā o auto-inganno che ci impedisce di
conoscere noi stessi come siamo realmente ha due forme, che sono chiamate āvaraṇa
śakti (il potere di coprire, velare, nascondere o oscurare) e vikṣēpa
śakti (il potere di proiezione, dispersione o dissipazione). La prima è la
fondamentale mancanza di chiarezza di auto-consapevolezza che forma l’oscurità
di sfondo che permette alla seconda di proiettare pensieri (alcuni dei quali
sembrano esistere esterni alla mente come gli oggetti, gli stati e gli eventi
del mondo fisico), proprio come l’oscurità in un cinema permette alle immagini
di essere proiettate sullo schermo. Nella veglia e nel sogno queste due forme
di māyā sono entrambi funzionanti, mentre in manōlaya vikṣēpa śakti ha smesso di funzionare e solo āvaraṇa
śakti persiste.
Quando rinunciamo a sperimentare viṣayas esterni (che
includono tutti i pensieri, sia quelli che sembrano esistere solo nella nostra
mente sia quelli che sembrano esistere esterni alla nostra mente come gli
oggetti e gli eventi del mondo fisico), stiamo sospendendo temporaneamente il
funzionamento di vikṣēpa śakti, e così sprofondiamo in manōlaya,
in cui rimaniamo avvolti in āvaraṇa, il velo dell’auto-ignoranza. Quindi,
per conoscere noi stessi come siamo realmente, dobbiamo non solo rinunciare a
sperimentare viṣayas esterni ma dobbiamo anche adoperarci per
sperimentare la nostra ‘forma di luce’, poiché solo sperimentando questa saremo
in grado di attraversare questo velo fondamentale di auto-ignoranza (la nostra
mancanza di chiarezza di auto-consapevolezza) causata da āvaraṇa śakti.
Dato che la mente e tutte le sue molteplici creazioni possono sembrare esistere
solo sotto l’oscuro vero di āvaraṇa śakti, e poiché questo velo può essere dissolto solo
dall’esperienza dell’auto-consapevolezza assolutamente chiara, per distruggere
la causa fondamentale dell’apparenza illusoria della mente dobbiamo adoperarci inflessibilmente
per sperimentare ‘l’essenziale aspetto cit’ della nostra mente, privo di
tutte le aggiunte non-coscienti (jaḍa upādhi) che sovrapponiamo su di
esso.
Quando sperimentiamo in questo modo l’elemento essenziale cit
della nostra mente privo di tutte le sue aggiunte jaḍa, divideremo il cit-jaḍa-granthi
(il nodo tra la coscienza e il non-cosciente), che è molto più sottile e
fondamentale di qualsiasi atomo fisico, e come Bhagavan era solito dire (per
esempio, nel pomeriggio del 22-11-1945, come riportato in Day
by Day with Bhagavan, ed.2002 , pag. 49), la divisione di questo atomo
fondamentale rilascerà il potere infinito di jñāna, che istantaneamente
e per sempre farà scompare la falsa apparenza dell’intero universo e qualsiasi
altra cosa che può apparire come diversa dal nostro sé essenziale – la nostra
pura consapevolezza di essere, ‘io sono’.
Questo stato, in cui ogni cosa diversa da ‘io’ è stata fatta
scomparire dalla chiara luce della vera auto-conoscenza (a cui Bhagavan fa
allusione nel verso 27 di Śrī Aruṇācala Akṣaramaṇamālai e nel verso 1 di Śrī Aruṇācala Pañcaratnam), è il nostro stato naturale
privo di ego di essere-consapevolezza (sat-cit), che è lo stato reale indicato
dal termine manōnāśa, ‘distruzione della mente’.
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