Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

giovedì 11 dicembre 2014

Morte e Immortalità - Prendere rifugio ai ‘piedi’ di Dio


Nel mio post precedente, Superare la nostra compiacenza spirituale, ho pubblicato la prima parte del materiale aggiuntivo che ho scritto da includere nel capitolo 9 di Happiness and the Art of Being (dopo il primo paragrafo a pagina 422 dell’attuale versione e-book). Ciò che segue è la seconda di queste tre parti:

Nella prima frase di questo secondo verso mangalam di  Ulladu Narpadu Sri Ramana dice:

Quelle persone mature che hanno intensa paura della morte prenderanno rifugio ai piedi di mahesan [il ‘grande signore’], che è privo di morte e di nascita, [dipendendo su di lui] come [loro protettiva] fortezza…

Questo è un modo poetico di descrivere la propria esperienza di auto-investigazione e auto-abbandono. Benché la parola mahesan, che significa letteralmente il grande signore’, è un nome che abitualmente indica il Signore Shiva, la forma in cui molti Hindu adorano Dio, Sri Ramana in questo contesto non la usò per indicare una particolare forma di Dio, ma solo come una descrizione allegorica dello spirito senza nascita e senza morte, che esiste sempre in ciascuno di noi come il nostro essenziale essere auto-cosciente, ‘io sono’.

Nessun nome o forma di Dio è veramente priva di nascita o morte – apparizione e scomparsa – perché come tutti gli altri nomi e forme, i vari nomi e forme in cui i devoti adorano Dio sono apparenze transitorie. Quindi in questo contesto le parole “il grande signore, che è privo di morte e di nascita” non indicano il saguna o l’aspetto qualificato di Dio – cioè, Dio come è concepito dalla nostra mente limitata – ma il suo essenziale nirguna o aspetto non qualificato – cioè, Dio come è realmente, che è la realtà senza nome e senza forma, il nostro vero essere auto-cosciente, che sempre conosce la propria esistenza senza mai apparire o scomparire.

Comunque, benché in questo contesto Sri Ramana non sta effettivamente descrivendo qualche forma di saguna upasana o adorazione di Dio in nome e forma, usando la parola mahesan, che è un nome personale di Dio, egli allude a tale forma di adorazione. Questa allusione è intenzionale, perché se adoriamo Dio in nome e forma con vera devozione che fonde il cuore, la nostra mente sarà gradualmente purificata o pulita dalle sue forme più grezze di desiderio, e così infine otterrà la maturità richiesta per essere in grado di arrendere se stessa completamente a lui.

Tuttavia, per quanto possiamo adorare Dio in nome e forma, non possiamo raggiungere la meta finale del sentiero della devozione, che è il completo abbandono di noi stessi a lui, se non rivolgiamo la nostra attenzione interiormente per adorarlo nella profondità del nostro cuore – nel più intimo centro del nostro essere -  come il nostro essere vero ed essenziale. In altre parole, per raggiungere il vero fine di saguna upasana o adorazione di Dio in nome e forma, tale adorazione deve infine fiorire in nirguna upasana, che è la vera adorazione di Dio come l’unica realtà assoluta senza nome e senza forma, che sempre esiste all’interno di noi come il nostro essere essenziale auto-cosciente.

Possiamo sperimentare Dio come realmente è solo quando volgiamo la nostra mente all’interno – lontano da tutti i nomi e le forme, che sono solamente pensieri che abbiamo formato nella nostra mente con il potere dell’immaginazione – e quindi permettiamo a essa di dissolversi nell’assoluta chiarezza del nostro vero ed essenziale essere auto-cosciente, che è la vera ‘forma’ o natura di Dio. Comunque, per volgere la nostra mente all’interno e perciò abbandonarla completamente nella divorante luce del proprio vero essere di Dio, dobbiamo avere amore travolgente per lui, e tale amore è coltivato con la pratica di saguna upasana o adorazione dualistica.

Tuttavia, benché il vero amore che necessitiamo per essere pronti ad abbandonare interamente noi stessi nell’assoluta chiarezza del puro essere auto-cosciente, che è la realtà sia di Dio sia di noi stessi, può essere coltivata gradualmente con la pratica di devozione dualistica, il modo più veloce e valido per coltivarlo è con la pratica della devozione non-dualistica – cioè, con la pratica di auto-attentività, che è la vera adorazione di Dio come il nostro sé reale o essere essenziale.

Sia che coltiviamo il vero amore o la prontezza ad abbandonare interamente noi stessi alla realtà assoluta, che è l’infinita pienezza di essere che chiamiamo ‘Dio’, con la devozione dualistica sia con la devozione non-dualistica, una volta che l’abbiamo coltivato sufficientemente ogni crisi interna, come un’intensa paura della morte, spingerà la nostra mente a volgersi interiormente e ad affondare nella più interna profondità del nostro essere per abbandonare se stessa interamente a lui. Solo quando la nostra mente si fonde in questo modo nella sorgente dalla quale è sorta, che è il nostro essere auto-cosciente vero ed essenziale, il suo abbandono a Dio diverrà completo.

Questo completo abbandono della nostra mente o sé individuale nella più interna profondità del nostro essere è ciò che Sri Ramana descrive in questo verso con le parole “prenderanno rifugio ai piedi di Dio, che è privo di morte e di nascita, [dipendendo su di lui] come [loro protettiva] fortezza”.

Nella poesia devozionale e nella letteratura Hindu l’adorazione di Dio è spesso descritta come prostrarsi ai suoi piedi, cadere ai suoi piedi, aggrapparsi ai suoi piedi, prendere rifugio nei o ai suoi piedi, e così via, perché tali azioni implicano umiltà, devozione e sottomissione. Quindi nei linguaggi Indiani il termine ‘piedi’ è venuto a essere un sinonimo di Dio come il supremo oggetto di venerazione o adorazione.

Comunque, come Sri Ramana ha spiegato spesso, il termine ‘i piedi di Dio’ è una descrizione allegorica del suo vero stato – lo stato senza ego e perfettamente non-duale di puro essere auto-cosciente, che risplende sempre all’interno di ciascuno di noi come ‘io sono’. Per ricordarci che possiamo sperimentare Dio come realmente è solo nel centro del nostro essere, egli ha sempre enfatizzato la verità che i ‘piedi di Dio’ non possono essere trovati all’esterno ma solo all’interno di noi stessi. In un’occasione, quando una signora devota si prostrò davanti a lui e afferrò i suoi piedi dicendo, “Mi aggrappo ai piedi del mio guru”,  egli la guardò gentilmente e disse, “Sono questi i piedi del guru? I piedi del guru sono quello che risplende sempre dentro di te come ‘io io’. Afferra quello”.  

 Quindi le parole “quelle persone mature prenderanno rifugio ai piedi di Dio”  significano che essi ameranno sprofondare nella più interna profondità del loro essere, dove sperimenteranno Dio come il loro sé reale.
Il solo vero rifugio o fortezza che ci proteggerà dalla paura della morte e anche da ogni altra forma di miseria è il centro più interno del nostro essere, che è la reale dimora di Dio e che, essendo il fondamento che sta alla base e supporta la nostra mente e ogni cosa da essa conosciuta, è descritta in modo figurativo come i suoi ‘piedi’.


(continua nell’articolo successivo)


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