Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

mercoledì 15 aprile 2015

Qual'è la differenza tra meditazione e auto-investigazione?

Michael James

14 Aprile 2015
What is the difference between meditation and self-investigation?

Un amico recentemente mi ha posto diverse domande riguardo la meditazione e l'auto-investigazione, tra cui quale sia la differenza tra esse, così questo articolo è adattato (e le sezioni terza e quarta sono considerevolmente espanse) dalla risposta che gli ho scritto.
  1. Meditazione su noi stessi è auto-investigazione (ātma-vicāra)
  2. Non dovremmo meditare su nient'altro che noi stessi
  3. Meditazione sull'idea 'io sono brahman' non è ātma-vicāra
  4. Solo la meditazione su 'io sono' è ātma-vicāra
  5. Il nostro ego è solo noi stessi ('io sono') apparentemente mischiato e confuso con aggiunte
  6. Sembriamo essere questo ego solo quando stiamo sperimentando qualsiasi cosa diversa da noi stessi


1. Meditazione su noi stessi è auto-investigazione (ātma-vicāra)

La prima domanda che il mio amico ha posto è stata se è corretto dire che la meditazione e l'auto-indagine sono 'due approcci o tecniche differenti', perché 'in meditazione concentri la tua attenzione su un singolo pensiero o immagine' mentre 'nell'auto-indagine investighi l'ego', a cui ho risposto:

Mentre il termine ātma-vicāra (auto-investigazione o auto-indagine) ha un significato molto ben definito, non si può dire la stessa cosa per il termine dhyāna o meditazione, perché il suo significato varia secondo il contesto. Per esempio, Bhagavan qualche volta ha descritto ātma-vicāra come svarūpa-dhyāna (nel decimo paragrafo di Nāṉ Yār?), come ātma-cintanā (nel tredicesimo paragrafo) o come ananya-bhāva ('meditazione senza differenza' o meditazione su ciò che non è altro che se stessi, nel verso 8 di Upadēśa Undiyār), così in questi casi meditazione (dhyāna, cintanā o bhāva) ha precisamente lo stesso significato di vicāra.

Tuttavia, nella maggior parte dei contesti in cui è usato, il termine 'meditazione' significa meditare su qualcosa diversa da se stessi, che è precisamente l'opposto di ātma-vicāra. Quindi la distinzione cruciale non è tra vicāra e meditazione ma tra investigare o meditare su se stessi soltanto e investigare o meditare su qualsiasi cosa diversa da se stessi.

Per essere brevi, la meditazione su noi stessi è ātma-vicāra (auto-investigazione o auto-osservazione), mente meditare su qualsiasi altra cosa è anātma-vicāra (investigazione o osservazione di qualcosa che non è noi stessi).

2. Non dovremmo meditare su qualcosa diversa da noi stessi

La seconda domanda che il mio amico ha posto era riguardo il bisogno di meditazione, per cui ha scritto:
Nel verso 15 di Ashtavakra Gita, Ashtavakra dice che meditiamo a causa della nostra schiavitù. Ramana Maharshi dice anche 'non meditare, sii'. Ciò è paragonato a cercare ovunque una catenina quando in realtà ce l'hai intorno al collo. La ricerca sarà infruttuosa. Quindi, dovremmo o non dovremmo meditare?
A questo ho risposto:

Quando Bhagavan ha detto, 'Non meditare', ciò che intendeva era che non dovremmo meditare su qualsiasi cosa diversa da noi stessi, e quando ha detto, 'Sii', ciò che intendeva era che dovremmo meditare solo su noi stessi, perché mentre il meditare su qualsiasi cosa diversa da noi stessi è un'azione o karma, meditare su noi stessi soltanto è uno stato di solo essere (summā iruppadu), poiché essere consapevoli di noi stessi soltanto senza fare alcuna cosa è il nostro stato naturale. Quindi la risposta alla tua domanda 'dovremmo o non dovremmo meditare?' è che dovremmo meditare solo su noi stessi, e non dovremmo meditare su qualsiasi altra cosa.

3. La meditazione sull'idea ‘io sono brahman’ non è ātma-vicāra

La terza domanda che il mio amico ha posto era riguardo la meditazione su 'io sono brahman', dicendo che Sankara la raccomandò, ma ha aggiunto:
L'altra visione è che Brahman è solo un concetto, un'idea o un pensiero e quindi meditare su Brahman non è utile. Invece si è consigliati di meditare sul proprio Sé o consapevolezza. Qual'è l'approccio corretto?
A questo ho risposto:

Come dici, molte persone credono che Adi Sankara raccomandò di meditare sull'idea 'io sono brahman', ma queste persone non lo hanno compreso correttamente. Ciò che egli effettivamente raccomandò non è che dovremmo pensare di essere brahman ma solo che dovremmo sperimentare noi stessi come brahman, e poiché 'brahman' è un termine che indica ciò che siamo realmente, quello che egli intendeva era solo che dovremmo sperimentare noi stessi come siamo realmente.

Finché meditiamo su qualcosa diversa da noi stessi (incluso qualsiasi idea come 'io sono brahman'), ci stiamo sperimentando come il nostro ego, poiché come Bhagavan ha spiegato ripetutamente, ciò che sperimenta qualsiasi cosa diversa da noi stessi è solo il nostro ego e non ciò che siamo realmente. Solo ciò che siamo realmente (il nostro sé reale), esiste, così quando ci sperimentiamo come tale non possiamo sperimentare nessun'altra cosa. Quindi, poiché è solo il nostro ego che sperimenta ogni cosa diversa da se stesso, sperimentando (dando attenzione o meditando su) qualsiasi cosa diversa da noi stessi stiamo sostenendo l'illusione di essere questo ego, e quindi non potremo mai distruggere il nostro ego meditando su qualsiasi cosa diversa da noi stessi.

'Io sono brahman' è solo un insieme di parole che esprimono un'idea, ma sia queste parole sia l'idea che esprimono sono ovviamente qualcosa diversa da noi stessi, perché sono qualcosa che possiamo sperimentare solo temporaneamente, mentre sperimentiamo noi stessi in modo permanente, e quindi ci sperimentiamo anche quando non stiamo pensando 'io sono brahman'. Quindi meditare sulle parole o sull'idea 'io sono brahman' comporta il dare attenzione a qualcosa diversa da noi stessi, di conseguenza può solo essere uno mezzo per sostenere il nostro ego e non per distruggerlo.

Poiché le parole 'io sono brahman' indicano che brahman non è nient'altro che noi stessi, se vogliamo meditare su brahman, dovremmo meditare solo su noi stessi non su qualsiasi idea che abbiamo riguardo brahman. Questo è il motivo per cui Bhagavan dice che quando ci viene detto 'Quello sei tu' (tat tvam asi), la nostra risposta immediata dovrebbe essere investigare 'Cosa sono io?'

Prima di imparare qualsiasi cosa riguardo la filosofia advaita, quando sentiamo termini come Dio, brahman o la realtà infinita, generalmente presumiamo che ciò che essi indicano è qualcosa diversa da noi stessi e distante dalla nostra portata, quindi per rimuovere questa convinzione errata, ci deve essere detto che tutto ciò è realmente solo noi stessi, e che possiamo quindi sperimentarlo solo sperimentando ciò che siamo realmente. Questo è il motivo per cui i Vēda contengono affermazioni come 'quello sei tu' (tat tvam asi) e 'io sono brahman' (ahaṁ brahmāsmi), e tali affermazioni sono chiamate mahāvākyas o 'le grandi affermazioni'.

Poiché ora ci sperimentiamo come una persona limitata, la realtà infinita chiamata brahman ci sembra qualcosa completamente sconosciuta, e che sia separata o diversa da ciò che noi stessi siamo. Quindi è solo per rimuovere quest'idea sbagliata che abbiamo riguardo brahman che i Vēda ci insegnano che esso è realmente solo noi stessi (che non essendo affatto qualcosa di sconosciuto è effettivamente la sola cosa che conosciamo costantemente). Quindi l'intenzione dei Vēda nell'affermare 'tu sei quello' o 'io sono brahman' è solo quella di farci smettere di pensare ad esso come qualcosa diversa da noi e di motivarci invece a cercare di conoscere cosa siamo realmente.

Ciò nonostante, molti studiosi che hanno ampiamente studiato il vēdānta e la filosofia advaita dichiarano che per conoscere brahman dobbiamo investigare non solo ciò che s'intende con la parola 'tu' (tvam) ma anche ciò che s'intende con la parola 'quello' (tat). Tuttavia, affermare questo mostra chiaramente che essi non hanno compreso l'intenzione dei Vēda quando dicono 'tu sei quello' (tat tvam asi). 'Tu sei quello' significa che 'tu' e 'quello' siete identici — che 'quello' non è niente di diverso da 'tu' — così in questo caso, dovrebbe esserci ovvio che non possiamo investigare o conoscere 'quello' tranne che investigando e conoscendo noi stessi, che è ciò che è indicato dalla parola 'tu'.

Per conoscere 'quello', tutto ciò che dobbiamo fare è investigare e conoscere cosa siamo realmente, investigare noi stessi è quindi sia necessario che sufficiente. E' necessario perché nessun altro mezzo può permetterci di sperimentare 'quello', ed è sufficiente perché se investighiamo noi stessi, nessun altro mezzo è richiesto, perché noi stessi siamo il 'quello' o brahman che cerchiamo di sperimentare.

Se abbiamo compreso che brahman è ciò che siamo realmente, dovremmo essere in grado di dedurre da questo che tutto ciò che dobbiamo fare per sperimentare brahman è cercare di sperimentare noi stessi come siamo realmente, e che quindi non abbiamo più alcun bisogno di pensare a brahman, come se fosse qualcosa diversa sa noi. Quindi nel verso 32 di Uḷḷadu Nāṟpadu Bhagavan pone enfasi sul fatto che poiché brahman non è nient'altro che noi stessi, ciò che abbiamo bisogno di fare è solo investigare cosa siamo e quindi sperimentarci come siamo realmente, e se invece meditassimo o pensassimo ripetutamente 'io sono quello', questo mostrerebbe che non abbiamo compreso chiaramente l'implicazione di affermazioni come 'tu sei quello':
அதுநீயென் றம்மறைக ளார்த்திடவுந் தன்னை
யெதுவென்று தான்றேர்ந் திராஅ — ததுநா
னிதுவன்றென் றெண்ணலுர னின்மையினா லென்று
மதுவேதா னாயமர்வ தால்.

adunīyeṉ ḏṟammaṟaiga ḷārttiḍavun taṉṉai
yeduveṉḏṟu tāṉḏṟērn dirāa — dadunā
ṉiduvaṉḏṟeṉ ḏṟeṇṇalura ṉiṉmaiyiṉā leṉḏṟu
maduvētā ṉāyamarva dāl.


பதச்சேதம்: ‘அது நீ’ என்று அம் மறைகள் ஆர்த்திடவும், தன்னை எது என்று தான் தேர்ந்து இராது, ‘அது நான், இது அன்று’ என்று எண்ணல் உரன் இன்மையினால், என்றும் அதுவே தான் ஆய் அமர்வதால்.

Padacchēdam (separazione delle parole): ‘adu nī’ eṉḏṟu a-m-maṟaigaḷ ārttiḍavum, taṉṉai edu eṉḏṟu tāṉ tērndu irādu, ‘adu nāṉ, idu aṉḏṟu’ eṉḏṟu eṇṇal uraṉ iṉmaiyiṉāl, eṉḏṟum aduvē tāṉ-āy amarvadāl.

அன்வயம்: ‘அது நீ’ என்று அம் மறைகள் ஆர்த்திடவும், அதுவே தான் ஆய் என்றும் அமர்வதால், தன்னை எது என்று தான் தேர்ந்து இராது, ‘அது நான், இது அன்று’ என்று எண்ணல் உரன் இன்மையினால்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): ‘adu nī’ eṉḏṟu a-m-maṟaigaḷ ārttiḍavum, adu-v-ē tāṉ-āy eṉḏṟum amarvadāl, taṉṉai edu eṉḏṟu tāṉ tērndu irādu, ‘adu nāṉ, idu aṉḏṟu’ eṉḏṟu eṇṇal uraṉ iṉmaiyiṉāl.

Traduzione: Quando i Vēda dichiarano 'tu sei quello', invece di conoscere se stesso ed essere se stesso [investigando] cosa [sono io], pensare 'io sono quello [brahman], non questo [corpo]' è causato dalla mancanza di forza [o chiarezza di comprensione], perché quello davvero esiste sempre come se stesso.
Tuttavia, considerare attentamente l'idea che siamo brahman è una forma di manana o riflessione su ciò che abbiamo imparato, così ponderare correttamente su questa idea può aiutarci a rinforzare la nostra convinzione che tutto ciò che abbiamo bisogno di sperimentare è soltanto noi stessi. Quindi nel verso 36 di Uḷḷadu Nāṟpadu Bhagavan riconosce che il pensare di essere brahman può aiutarci in qualche misura a dimorare come siamo realmente, ma enfatizza che non dovremmo continuare a pensare questo, perché una volta che abbiamo compreso che siamo quello, dovremmo cercare di rimanere come quello soltanto, sperimentando noi stessi come siamo realmente.
நாமுடலென் றெண்ணினல நாமதுவென் றெண்ணுமது
நாமதுவா நிற்பதற்கு நற்றுணையே — யாமென்று
நாமதுவென் றெண்ணுவதே னான்மனித னென்றெணுமோ
நாமதுவா நிற்குமத னால்.

nāmuḍaleṉ ḏṟeṇṇiṉala nāmaduveṉ ḏṟeṇṇumadu
nāmaduvā niṯpadaṟku naṯṟuṇaiyē — yāmeṉḏṟu
nāmaduveṉ ḏṟeṇṇuvadē ṉāṉmaṉida ṉeṉḏṟeṇumō
nāmaduvā niṯkumada ṉāl
.

பதச்சேதம்: நாம் உடல் என்று எண்ணின், ‘அலம், நாம் அது’ என்று எண்ணும் அது நாம் அதுவா நிற்பதற்கு நல் துணையே ஆம். என்றும் ‘நாம் அது’ என்று எண்ணுவது ஏன்? ‘நான் மனிதன்’ என்று எணுமோ? நாம் அதுவா நிற்கும் அதனால்.

Padacchēdam (separazione delle parole): nām uḍal eṉḏṟu eṇṇiṉ, ‘alam, nām adu’ eṉḏṟu eṇṇum adu nām adu-v-ā niṯpadaṟku nal tuṇai-y-ē ām. eṉḏṟum ‘nām adu’ eṉḏṟu eṇṇuvadu ēṉ? ‘nāṉ maṉidaṉ’ eṉḏṟu eṇumō? nām adu-v-ā niṯkum adaṉāl.

அன்வயம்: நாம் உடல் என்று எண்ணின், ‘அலம், நாம் அது’ என்று எண்ணும் அது நாம் அதுவா நிற்பதற்கு நல் துணையே ஆம். நாம் அதுவா நிற்கும் அதனால், என்றும் ‘நாம் அது’ என்று எண்ணுவது ஏன்? ‘நான் மனிதன்’ என்று எணுமோ?

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa):nām uḍal eṉḏṟu eṇṇiṉ, ‘alam, nām adu’ eṉḏṟu eṇṇum adu nām adu-v-ā niṯpadaṟku nal tuṇai-y-ē ām. nām adu-v-ā niṯkum adaṉāl, eṉḏṟum ‘nām adu’ eṉḏṟu eṇṇuvadu ēṉ? ‘nāṉ maṉidaṉ’ eṉḏṟu eṇumō?

Traduzione: Se pensiamo di essere un corpo, il pensare 'No, noi siamo quello', sarà un buon aiuto per [ricordarci e incoraggiarci] a dimorare come quello. [Tuttavia] poiché [in realtà sempre] dimoriamo come quello, perché [dovremmo] sempre pensare 'noi siamo quello'? Qualcuno forse pensa [costantemente] 'io sono un uomo'?
Poiché già sperimentiamo noi stessi come un essere umano, non abbiamo bisogno di pensare costantemente 'io sono un essere umano' per sperimentarci come tali. Nello stesso modo, se avessimo sperimentato noi stessi come brahman, non avremmo bisogno di pensare 'io sono brahman' per sperimentarci come tale.

Se sperimentiamo noi stessi come siamo realmente, dimoreremo come tali, e quindi non avremo bisogno di pensare che siamo quello. Di fatto, poiché la natura di ciò che siamo realmente (che è ciò che è chiamato brahman o 'quello') è di essere consapevole soltanto di sé, esso non pensa mai alcuna cosa, né potrebbe mai farlo, perché pensare (o essere consapevole di qualsiasi cosa diversa da sé) è completamente alieno ad esso. Dunque finché continuiamo a pensare 'io sono brahman' o qualsiasi altro pensiero, non possiamo sperimentare ciò che siamo realmente.

Quindi, benché il ponderare sull'idea che siamo brahman può aiutarci indirettamente, nel verso 29 di Uḷḷadu Nāṟpadu Bhagavan indica chiaramente (per mezzo di una domanda retorica) che esso è solo un aiuto e non la vera investigazione (vicāra) che abbiamo bisogno di intraprendere per sperimentare ciò che siamo realmente:
நானென்று வாயா னவிலாதுள் ளாழ்மனத்தா
னானென்றெங் குந்துமென நாடுதலே — ஞானநெறி
யாமன்றி யன்றிதுநா னாமதுவென் றுன்னறுணை
யாமதுவி சாரமா மா.

nāṉeṉḏṟu vāyā ṉavilāduḷ ḷāṙmaṉattā
ṉāṉeṉḏṟeṅ gundumeṉa nāḍudalē — ñāṉaneṟi
yāmaṉḏṟi yaṉḏṟidunā ṉāmaduveṉ ḏṟuṉṉaṟuṇai
yāmaduvi cāramā mā
.

பதச்சேதம்: ‘நான்’ என்று வாயால் நவிலாது, உள் ஆழ் மனத்தால் ‘நான்’ என்று எங்கு உந்தும் என நாடுதலே ஞான நெறி ஆம். அன்றி, ‘அன்று இது, நான் ஆம் அது’ என்று உன்னல் துணை ஆம்; அது விசாரம் ஆமா?

Padacchēdam (separazione delle parole): ‘nāṉ’ eṉḏṟu vāyāl navilādu, uḷ āṙ maṉattāl ‘nāṉ’ eṉḏṟu eṅgu undum eṉa nāḍudal-ē jñāṉa-neṟi ām. aṉḏṟi, ‘aṉḏṟu idu, nāṉ ām adu’ eṉḏṟu uṉṉal tuṇai ām; adu vicāram āmā?

அன்வயம்: ‘நான்’ என்று வாயால் நவிலாது, உள் ஆழ் மனத்தால் ‘நான்’ என்று எங்கு உந்தும் என நாடுதலே ஞான நெறி ஆம்; அன்றி, ‘நான் இது அன்று, [நான்] அது ஆம்’ என்று உன்னல் துணை ஆம்; அது விசாரம் ஆமா?

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): ‘nāṉ’ eṉḏṟu vāyāl navilādu, uḷ āṙ maṉattāl ‘nāṉ’ eṉḏṟu eṅgu undum eṉa nāḍudal-ē jñāṉa neṟi ām; aṉḏṟi, ‘nāṉ idu aṉḏṟu, [nāṉ] adu ām’ eṉḏṟu uṉṉal tuṇai ām; adu vicāram āmā?

Traduzione: Senza pronunciare la parola 'io', solo investigare con una mente che sprofonda interiormente dove essa sorge come 'io' è il sentiero di jñāna [il mezzo per sperimentare la conoscenza reale]. Invece, pensare '[io] non [sono] questo [corpo o mente], io sono quel [brahman]' è [solamente] un aiuto, [ma] esso è forse vicāra [auto-investigazione]?
Il luogo dove la nostra mente sorge come 'io' è solo noi stessi, così ‘நான் என்று எங்கு உந்தும் என நாடுதல்’ (nāṉ eṉḏṟu eṅgu undum eṉa nāḍudal), 'investigare dove essa sorge come io', significa investigare o esaminare noi stessi soltanto. Quindi ciò che Bhagavan ci insegna nella prima frase di questo verso è che il sentiero di jñāna (che è anche chiamata la pratica di ātma-vicāra) non è altro che investigare noi stessi soltanto, con la mente che sprofonda, si immerge o penetra profondamente in noi stessi.

Finché permettiamo alla nostra mente di pensare a qualsiasi pensiero, essa da attenzione a qualcosa diversa da noi, e quindi non può sprofondare interiormente ed essere immersa in noi stessi. Quindi, benché il pensare che siamo brahman può essere un aiuto per quanto può ricordarci ed incoraggiarci a cercare di dare attenzione soltanto a noi stessi, non è la pratica effettiva di auto-investigazione (ātma-vicāra), che è il solo mezzo con cui possiamo sperimentare ciò che siamo realmente.

Ciò che pensa o sperimenta ogni pensiero o idea, inclusa l'idea 'io sono brahman', non è ciò che realmente siamo ma solo il nostro ego, e finché sperimentiamo noi stessi come questo ego pensante non ci stiamo sperimentando come siamo realmente. Quindi per sperimentarci come brahman, che è ciò che siamo realmente, dobbiamo cessare di sperimentare noi stessi come questo ego — o in altre parole, dobbiamo solo essere come siamo realmente senza sorgere come questo ego. Quindi nel verso 27 di Uḷḷadu Nāṟpadu Bhagavan dice:
நானுதியா துள்ளநிலை நாமதுவா யுள்ளநிலை
நானுதிக்குந் தானமதை நாடாம — னானுதியாத்
தன்னிழப்பைச் சார்வதெவன் சாராமற் றானதுவாந்
தன்னிலையி னிற்பதெவன் சாற்று.

nāṉudiyā duḷḷanilai nāmaduvā yuḷḷanilai
nāṉudikkun thāṉamadai nāḍāma — ṉāṉudiyāt
taṉṉiṙappaic cārvadevaṉ sārāmaṯ ṟāṉaduvān
taṉṉilaiyi ṉiṯpadevaṉ sāṯṟu
.

பதச்சேதம்: ‘நான்’ உதியாது உள்ள நிலை நாம் அது ஆய் உள்ள நிலை. ‘நான்’ உதிக்கும் தானம் அதை நாடாமல், ‘நான்’ உதியா தன் இழப்பை சார்வது எவன்? சாராமல், தான் அது ஆம் தன் நிலையில் நிற்பது எவன்? சாற்று.

Padacchēdam (separazione delle parole): ‘nāṉ’ udiyādu uḷḷa nilai nām adu-v-āy uḷḷa nilai. ‘nāṉ’ udikkum thāṉam-adai nāḍāmal, ‘nāṉ’ udiyā taṉ-ṉ-iṙappai sārvadu evaṉ? sārāmal, tāṉ adu ām taṉ-ṉilaiyil niṯpadu evaṉ? sāṯṟu.

Traduzione: Lo stato in cui 'io' esiste senza sorgere è lo stato in cui esistiamo come quello [brahman]. Senza investigare la sorgente da cui 'io' sorge, come ottenere l'annientamento di se stessi [l'ego], dove 'io' non sorge? [E] senza ottenere [questo annientamento del proprio ego], come dimorare nello stato di sé, in cui se stessi è quello?
Poiché la sorgente o 'luogo' (sthāna) da cui 'io' sorge è solo noi stessi, ciò che egli intende qui con le parole ‘நான் உதிக்கும் தானம் அதை நாடுதல்’ (nāṉ udikkum [s]thāṉam-adai nāḍudal), 'investigare la sorgente da cui 'io' sorge', è solo auto-investigazione (ātma-vicāra). Così egli asserisce categoricamente che l'auto-investigazione è il solo mezzo con cui possiamo sperimentarci come brahman o 'quello', perché se non investighiamo noi stessi non possiamo distruggere la nostra illusione di essere questo ego — l' 'io' che sorge e permane solo nella veglia e nel sogno, ma che sprofonda e scompare quando siamo nel sonno — e se non distruggiamo questa illusione, non possiamo sperimentarci come siamo realmente.

4. Solo la meditazione su 'io sono' è ātma-vicāra

Il mio amico ha anche chiesto riguardo la meditazione su 'io sono', che credeva in qualche modo diversa da ātma-vicāra (auto-investigazione o auto-indagine), osservando che 'nell'auto-indagine tu guardi e investighi il serpente, mentre nella meditazione 'io sono' focalizzi la tua attenzione sulla corda'. Tuttavia, egli ha ammesso che 'c'è solo un io', così ha spiegato la differenza che ha visto tra l'auto-indagine e la meditazione su 'io sono' dicendo 'ma ci sono due modi di guardarlo'. Ho risposto come segue:

In relazione alla tua domanda riguardo la differenza tra investigare il nostro ego e meditare su noi stessi (che è ciò che è indicato dalle parole 'io sono'), tra essi non c'è assolutamente differenza. Essi sono solo due modi alternativi di descrivere la stessa pratica, perché ciò che sembra essere il nostro ego è effettivamente solo noi stessi, proprio come ciò che sembra essere un serpente è effettivamente solo una corda.

Se osserviamo attentamente il serpente apparente scopriremo che ciò che stiamo effettivamente osservando è solo una corda, così ogni volta che pensiamo di osservare un serpente o una corda, stiamo effettivamente osservando la stessa cosa. Nello stesso modo, se osserviamo attentamente (o meditiamo su) questo ego che ora sembriamo essere, scopriremo che ciò che stiamo effettivamente osservando (o su cui stiamo meditando) è solo il nostro sé reale, così ogni volta pensiamo di osservare il nostro ego o noi stessi, stiamo effettivamente osservando la stessa cosa. Quindi, non c'è assolutamente differenza tra investigare (guardare, osservare o meditare su) il nostro ego e investigare (guardare, osservare o meditare su) noi stessi (il nostro reale 'io sono').

Benché Bhagavan spesso ha descritto ātma-vicāra come investigare il nostro ego, non intendeva dire che questo non comporta investigare ciò che siamo realmente, perché se investighiamo il nostro ego scopriremo che ciò che sembra essere l'ego è effettivamente ciò che siamo realmente. Quindi frequentemente ha anche descritto ātma-vicāra come investigare noi stessi, investigare chi sono io, investigare cosa siamo realmente o investigare la sorgente del nostro ego.

Per esempio, come abbiamo visto sopra, nel verso 27 di Uḷḷadu Nāṟpadu ha descritto ātma-vicāra come 'investigare la sorgente [o 'luogo'] da cui 'io' sorge' (நான் உதிக்கும் தானம் அதை நாடுதல்: nāṉ udikkum thāṉam-adai nāḍudal), e nel verso 29 lo ha descritto come 'investigare dove esso sorge come 'io' (நான் என்று எங்கு உந்தும் என நாடுதல்: nāṉ eṉḏṟu eṅgu undum eṉa nāḍudal). Quindi, poiché la sorgente o 'luogo' da cui il nostro ego sorge come 'io' è solo noi stessi (ciò che siamo realmente), ciò che voleva dire con queste parole è che ātma-vicāra è semplicemente investigare noi stessi — cioè, cercare di sperimentare ciò che siamo realmente.

Anche più esplicitamente, nel sedicesimo paragrafo di Nāṉ Yār? egli ha definito ātma-vicāra come 'mantenere sempre la mente in [o su] noi stessi (ātmā)’:
[...] சதாகாலமும் மனத்தை ஆத்மாவில் வைத்திருப்பதற்குத் தான் ‘ஆத்மவிசார’ மென்று பெயர்; [...]

[...] sadā-kālam-um maṉattai ātmāvil vaittiruppadaṯku-t tāṉ ‘ātma-vicāram’ eṉḏṟu peyar; [...]

[...] Il nome ‘ātma-vicāra’ [si riferisce] solo a [la pratica di] mantenere sempre la mente in [o su] ātmā [noi stessi]; [...]
Qui சதாகாலமும் மனத்தை ஆத்மாவில் வைத்திருப்பது (sadā-kālam-um maṉattai ātmāvil vaittiruppadu) significa mantenere sempre la nostra mente fissata in o su noi stessi, e poiché fissare la nostra mente su qualcosa significa dare attenzione a essa, questa chiara e semplice definizione di ātma-vicāra significa che è solo la pratica di mantenere sempre la nostra attenzione fissata fermamente su noi stessi. In altre parole, ātma-vicāra non è altro che auto-attentività — cioè, dare attenzione solo a noi stessi per sperimentare ciò che siamo realmente.

Sia che sperimentiamo noi stessi come questo ego sia come ciò che siamo realmente, sempre rimaniamo lo stesso sé, proprio come la corda è sempre la stessa corda, che sia confusa per un serpente o riconosciuta come una corda. Quindi, proprio come non possiamo guardare il serpente apparente senza guardare la corda reale, non possiamo investigare il nostro ego senza investigare noi stessi. In altre parole, non possiamo investigare il nostro ego senza meditare su 'io sono' (come tu lo descrivi), perché ciò che indica il termine 'io sono' non è altro che noi stessi, che è ciò che ora sperimentiamo come questo ego.

5. Il nostro ego è solo noi stessi ('io sono') apparentemente mischiato e confuso con aggiunte

La sola differenza tra noi stessi e il nostro ego è che noi siamo completamente privi di aggiunte, mentre il nostro ego è noi stessi apparentemente mischiati e confusi con aggiunte. Ciò che è reale è solo noi stessi, e le aggiunte che sembriamo sovrapporre su noi stessi quando ci sperimentiamo come questo ego sono irreali, essendo solo costruzioni immaginarie.

Sembriamo essere mischiati con aggiunte solo quando sperimentiamo o diamo attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi, così se cerchiamo di dare attenzione solo a noi stessi (che ora sperimentiamo come questo ego), tutte le nostre aggiunte apparenti si dissolveranno e scompariranno (proprio come l'illusione che una corda sia un serpente si dissolverà e scomparirà se la osserviamo attentamente), e quindi scopriremo che ciò a cui stiamo realmente dando attenzione (o su cui stiamo meditando) non è il nostro ego ma solo noi stessi. Questo è il motivo per cui Bhagavan era solito dire che se cerchiamo di dare attenzione al nostro ego, esso scomparirà o 'fuggirà'.

6. Sembriamo essere questo ego solo quando stiamo sperimentando qualsiasi cosa diversa da noi stessi

Il nostro ego sembra esistere solo finché diamo attenzione e quindi sperimentiamo qualsiasi cosa diversa da noi stessi, così dando attenzione a queste cose stiamo nutrendo e sostenendo il nostro ego, mentre se cerchiamo di dare attenzione solo a noi stessi dissolveremo questa illusione chiamata ego. Questa è il segreto cruciale che Bhagavan ci insegna nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
உருப்பற்றி யுண்டா முருப்பற்றி நிற்கு
முருப்பற்றி யுண்டுமிக வோங்கு — முருவிட்
டுருப்பற்றுந் தேடினா லோட்டம் பிடிக்கு
முருவற்ற பேயகந்தை யோர்.

uruppaṯṟi yuṇḍā muruppaṯṟi niṟku
muruppaṯṟi yuṇḍumiha vōṅgu — muruviṭ
ṭuruppaṯṟun tēḍiṉā lōṭṭam piḍikku
muruvaṯṟa pēyahandai yōr
.

பதச்சேதம்: உரு பற்றி உண்டாம்; உரு பற்றி நிற்கும்; உரு பற்றி உண்டு மிக ஓங்கும்; உரு விட்டு, உரு பற்றும்; தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும், உரு அற்ற பேய் அகந்தை. ஓர்.

Padacchēdam (separazione delle parole): uru paṯṟi uṇḍām; uru paṯṟi niṯkum; uru paṯṟi uṇḍu miha ōṅgum; uru viṭṭu, uru paṯṟum; tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum, uru aṯṟa pēy ahandai. ōr.

அன்வயம்: உரு அற்ற பேய் அகந்தை உரு பற்றி உண்டாம்; உரு பற்றி நிற்கும்; உரு பற்றி உண்டு மிக ஓங்கும்; உரு விட்டு, உரு பற்றும்; தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும். ஓர்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): uru aṯṟa pēy ahandai uru paṯṟi uṇḍām; uru paṯṟi niṯkum; uru paṯṟi uṇḍu miha ōṅgum; uru viṭṭu, uru paṯṟum; tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum. ōr.

Traduzione: Afferrando la forma, l'ego-fantasma senza forma sorge in essere; afferrando la forma permane; afferrando e nutrendosi di forma prospera con abbondanza; lasciando [una] forma, afferra [un'altra] forma. Se cercato [esaminato o investigato] fugge. Investiga [o conosci di conseguenza].
Qui உரு (uru) o 'forma' significa qualsiasi cosa diversa da noi stessi, perché una forma è qualcosa che ha caratteristiche di qualche genere che la distinguono sia dalla forma di altre cose sia da noi stessi. Dando attenzione e quindi sperimentando qualche forma la stiamo 'afferrando', e afferrandola facciamo sorgere, nutriamo e sosteniamo il nostro ego, perché sembriamo essere questo ego solo quando stiamo sperimentando qualsiasi cosa diversa da noi stessi.

Bhagavan descrive il nostro ego come 'l'ego-fantasma senza forma' (உருவற்ற பேய் அகந்தை: uru-v-aṯṟa pēy ahandai) perché non ha forma propria. Se esso non afferrasse e non confondesse se stesso come una forma (un corpo), non sembrerebbe una forma, dunque quando non afferra nessuna forma, si rivela la sua natura senza forma, e quindi in quel momento lo sperimenteremo come nient'altro che il nostro sé reale. Questo è il motivo per cui egli dice che se cerchiamo questo ego (cioè, se cerchiamo di sperimentare esso soltanto), 'fuggirà' — cioè, cesserà di sembrare un ego, e sarà invece sperimentato come ciò che siamo realmente, che è ciò che è chiamato brahman.

Quindi la verità essenziale che Bhagavan ha enfatizzato ripetutamente è che dando attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi stiamo nutrendo e sostenendo il nostro ego, così il solo modo per distruggerlo è cercare di dare attenzione soltanto a noi stessi. Questo è il motivo per cui egli ci ha insegnato che non dovremmo meditare su qualsiasi altra cosa ma solo su noi stessi.

Questo semplice principio è la pietra angolare dei suoi insegnamenti, così per seguire il sentiero che egli ci ha mostrato senza essere distratti o deviati in qualche altro sentiero, è essenziale che comprendiamo questo e che non lo dimentichiamo mai.

Ogni altro genere di pratica spirituale comporta il dare attenzione a qualcosa diversa da noi stessi, così può solo nutrire e sostenere il nostro ego. Quindi ātma-vicāra — la semplice pratica di dare attenzione o meditare su noi stessi soltanto — è il solo mezzo con cui possiamo sperimentarci come siamo realmente e quindi distruggere per sempre l'illusione di essere questo ego.

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