Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

giovedì 30 aprile 2015

Testimoniare o essere consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi nutre il nostro ego e perciò rinforza i nostri attaccamenti

Michael James

28 Aprile 2015
Witnessing or being aware of anything other than ourself nourishes our ego and thereby reinforces our attachments

Dopo aver letto il mio articolo precedente, Cosa s’intende con il termine sākṣi o ‘testimone’?, un amico mi ha scritto esprimendo alcuni pensieri che ha avuto dopo averlo letto frettolosamente per la prima volta, così questo articolo è adattato dalla risposta che ho scritto ad alcune delle sue idee.
  1. Altre cose sembrano esistere solo quando sperimentiamo noi stessi come questo ego
  2. Nisargadatta e ‘l’attitudine al testimone’
  3. Sākṣi-bhāvapuò significare uno stato di essere o una stato mentale
  4. Sākṣi-bhāva può anche significare meditazione su il sākṣi, vale a dire noi stessi
  5. Non ci sono stadi distinguibili sul sentiero di auto-investigazione
  6. In nessuno stadio di questo sentiero dovremmo cercare di essere un testimone di qualcosa diversa da noi stessi
  7. Solo l’auto-attentività è la chiave del reale distacco
  8. Il vipassanā è simile alla pratica di sākṣi-bhāva come generalmente è intesa
  9. Quando sperimenteremo ciò che siamo realmente, non avremo nient’altro da osservare o testimoniare
1. Altre cose sembrano esistere solo quando sperimentiamo noi stessi come questo ego

Il mio amico ha iniziato scrivendo, ‘Stavo cercando riferimenti a Sakshi-bhava nelle nostre scritture. Ne ho trovate due, il verso 552 nel Vivekachudamani e il verso 7, capitolo 1 nell’Ashtavakra Gita’, a cui ho risposto:

Ho controllato sia il verso 552 di Vivēkacūḍāmaṇi (o il 551 secondo alcune edizioni) sia il verso 1.7 di Aṣṭāvakra Gītā, ed il primo è:
प्रारब्धकर्मपरिकल्पितवासनाभिः संसारिवच्चरति भुक्तिषु मुक्तदेहः ।
सिद्धः स्वयं वसति साक्षिवदत्र तूष्णीं चक्रस्य मूलमिव कल्पविकल्पशून्यः ॥

prārabdhakarmaparikalpitavāsanābhiḥ saṁsārivaccarati bhuktiṣu muktadēhaḥ
siddhaḥ svayaṁ vasati sākṣivadatra tūṣṇī̃ cakrasya mūlamiva kalpavikalpaśūnyaḥ
Non conosco abbastanza il Sanscrito per tradurre questo verso con precisione, ma secondo la traduzione Tamil di Bhagavan significa:
பிராரப்த கர்ம வாசனைகளால் சம்சாரி தேகம் போலவே முக்தன் தேகமும் போகத்திற் பொருந்தினும், இவன் சாக்ஷி போலவும் சக்கரமூலத்தைப் போலவும் சங்கற்பவிகற்ப சூன்யனாய், உதாசீனனாய், மௌனமாகவே யிருப்பன்

pir. ārabdha karma vāsaṉaigaḷāl samsāri dēham pōla-v-ē muktaṉ dēhamum bhōgattil poruntiṉum, ivaṉ sākṣi pōla-v-um cakkara-mūlattai-p pōla-v-um saṅkalpa-vikalpa śūṉyaṉ-āy, udāsīṉaṉ-āy, mauṉam-āha-v-ē y-iruppaṉ.

Proprio come il corpo di un samsāri [una persona che è legata ad un ego e alle sue conseguenze] anche il corpo del mukta [colui che è libero dall’ego] si impegna in esperienze terrene [come se guidato] da prārabdha e karma-vāsanā, rimane privo di saṁkalpa [desiderio o volizione] e vikalpa [cambiamento, molteplicità, diversità, distinzione, immaginazione o pensiero], indifferente e silenzioso, come un testimone e come il perno della ruota di un vasaio.
Il verso 1.7 dell’Aṣṭāvakra Gītā 1.7 è:
एको द्रष्टासि सर्वस्य मुक्तप्रायोऽसि सर्वदा ।
अयमेव हि ते बन्धो द्रष्टारं पश्यसीतरम् ॥

ēkō draṣṭāsi sarvasya muktaprāyō'si sarvadā
ayamēva hi tē bandhō draṣṭāraṁ paśyasītaram
Da varie traduzioni di questo verso che ho visto, sembra significare:
Tu sei il solitario veggente di ogni cosa, eternamente libero. La tua schiavitù è solo vedere il veggente [tu stesso] come qualcos’altro.
Come puoi vedere, nessuno di questi versi dice qualcosa riguardo qualunque bhāva. Il verso 552 di Vivēkacūḍāmaṇi descrive lo stato di un mukta, e per fare questo usa due analogie, dicendo che egli è come un testimone e come il perno della ruota di un vasaio. Inoltre, poiché dice che il mukta è privo sia di saṁkalpa che di vikalpa, vuole dire chiaramente che egli non è consapevole di alcuna cosa diversa da se stesso, perché la consapevolezza di ogni altra cosa è una forma di vikalpa e sorge a causa del saṁkalpa.

Il verso 1.7 dell’Aṣṭāvakra Gītā effettivamente non usa la parola sākṣi, ma invece usa la parola draṣṭā, che significa letteralmente ‘colui che vede’ o il ‘veggente’. Tuttavia, possiamo dedurre che esso non usa questa parola nel suo senso letterale ma solo in un senso figurativo, perché secondo Bhagavan il nostro sé reale non vede niente diverso da se stesso, perché solo esso esiste realmente. Le altre cose sembrano esistere solo nella visione auto-ignorante del nostro ego.

Cioè, come il nostro sé reale, noi siamo il ‘veggente’ o il ‘testimone’ solo nel senso che siamo l’auto-consapevolezza fondamentale che funge da terreno per il sorgere del nostro ego, nella visione del quale soltanto altre cose sembrano esistere. Quando sperimenteremo noi stessi come siamo realmente, non sperimenteremo nessun’altra cosa diversa da noi stessi, perché è solo quando ci sperimentiamo come questo ego che ogni altra cosa sembra esistere (come Bhagavan ci insegna enfaticamente nel verso 26 di Uḷḷadu Nāṟpadu e nella prima frase del verso 7 di Śrī Aruṇācala Aṣṭakam, che entrambi ho citato e spiegato nel mio articolo precedente).

Quindi possiamo essere un testimone nel senso di essere consapevoli di qualsiasi altra cosa diversa da noi stessi solo quando ci sperimentiamo come questo ego, così cercare soltanto di essere un testimone in questo senso, nutrirebbe e renderebbe durevole l’illusione di essere questo ego. Questo è il motivo per cui Bhagavan ci ha insegnato che il solo mezzo (sādhana) con cui possiamo distruggere questa illusione è l’auto-investigazione (ātma-vicāra), che comporta essere attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi.

Il verso 1.7 dell’Aṣṭāvakra Gītā contiene un indizio che rivela che esso non usa la parola draṣṭā per intendere colui che, letteralmente, vede, perché dice non solo che tu sei il draṣṭā solitario, ma anche che tu sei eternamente libero. Poiché l’ego e i suoi attaccamenti sono la schiavitù, non possiamo essere veramente liberi se non siamo liberi sia dal nostro ego che dai suoi attaccamenti, e in assenza di qualsiasi ego chi ci sarebbe a vedere qualsiasi cosa, o cosa ci sarebbe da vedere?

2. Nisargadatta e ‘l’attitudine al testimone’

Il mio amico ha anche citato il brano seguente di Nisargadatta (che è la sua risposta finale nel capitolo 41 di 'Io sono Quello'), dicendo, ‘Forse questo è ciò a cui ti stavi riferendo quando hai detto che alcuni insegnanti recenti hanno consigliato il testimoniare come una pratica’:
Sviluppa l’attitudine al testimone e scoprirai nell’esperienza che il distacco porta il controllo. Lo stato di testimoniare è pieno di potere, non c’è niente di passivo in questo.
In risposta a questo ho scritto:

Riguardo al brano di Nisargadatta che hai citato, non mi riferivo specificatamente né a questo brano né a Nisargadatta, benché sono consapevole che egli è uno dei popolari guru moderni che consigliano di testimoniare o osservare i pensieri o gli eventi esterni come se fosse possibile essere consapevoli di queste cose e nondimeno essere distaccati da esse. Come ho spiegato nel mio articolo precedente, questo è diametralmente opposto agli insegnamenti di Bhagavan, perché egli ci ha insegnato che il nostro ego sorge e resiste solo per mezzo del nostro afferrare (o del nostro attaccamento a) qualsiasi cosa diversa da noi stessi, e che è quindi impossibile essere realmente distaccati finché siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi.

Riguardo il particolare brano di Nisargadatta che hai citato, preso da solo, non sarebbe molto chiaro cosa intende dicendo questo, perché il termine ‘l’attitudine al testimone’ è piuttosto ambigua. Tuttavia, nel contesto dei suoi insegnamenti, sembra che ciò che intende con questo termine è l’attitudine di testimoniare ogni cosa di cui si è consapevoli ma nondimeno distaccati da essa, perché questa era una pratica che consigliava frequentemente.

Tutti siamo d’accordo che abbiamo bisogno di essere distaccati, ma la domanda è come possiamo esserlo. Secondo Nisargadatta e altri, possiamo essere distaccati osservando i pensieri e gli eventi e immaginandoci distaccati da essi. Secondo Bhagavan, tuttavia, una tale attitudine sarebbe una mera bhāvana o immaginazione mentale, perché in pratica possiamo essere consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi solo quando l’afferriamo con la nostra attenzione o nella nostra consapevolezza, e un tale afferrare è ovviamente attaccamento, non distacco.

Secondo Bhagavan, non possiamo essere veramente distaccati finché ci sperimentiamo come questo ego, perché (come dice nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu, che anche ho citato e spiegato nel mio articolo precedente) l’ego sorge solo attaccandosi a qualsiasi cosa diversa da se stesso, e attaccando se stesso (cioè, essendo consapevole di qualsiasi altra cosa) è nutrito e sostenuto. Questo è il principio fondamentale che egli ha scoperto e su cui ha fondato il suo intero insegnamento, così se non comprendiamo questo e non siamo pronti ad accettarlo, non possiamo comprendere correttamente o seguire ciò che ci ha insegnato.

3. Sākṣi-bhāva può significare uno stato di essere o una stato mentale

Nel brano che citi da Nisargadatta, il termine ‘l’attitudine al testimone’ sembra essere una traduzione di sākṣi-bhāva, ma il significato di sākṣi-bhāva può effettivamente essere interpretato in due modi significativamente diversi, perché bhāva ha molti significati differenti, e in questo contesto potrebbe essere preso con il significato di uno stato di essere o di uno stato mentale. Come uno stato mentale, significherebbe un atteggiamento o un’immaginazione, e quindi il suo significato sarebbe più o meno lo stesso di bhāvana.

Poiché un atteggiamento o un’immaginazione è uno stato o attività delle mente o ego, non potremmo immaginare qualcosa o praticare qualsiasi attitudine senza mantenere e usare la nostra mente, così aggrappandoci ad ogni attitudine o immaginazione nutriremmo e renderemmo durevole l’illusione che questa mente o ego sia noi stessi. Quindi cercando di mantenerci nell’attitudine mentale di essere un testimone nella speranza che una tale attitudine ci permetterà di distruggere l’illusione di essere questa mente sarebbe un comportamento auto-ingannevole. Come riportato nel primo capitolo della seconda parte di Maharshi’s Gospel (edizione 2002, pagine 50-1), Bhagavan una volta disse qualcosa nel senso seguente:
[...] ogni genere di sadhana [mezzo o pratica spirituale] tranne quella di atma-vichara [auto-investigazione] presuppone il mantenimento della mente come lo strumento per portare avanti la sadhana, e senza la mente non può essere praticata. L’ego può prendere forme differenti e più sottili nei diversi stati della propria pratica, ma non è mai distrutto.

[...]

Il tentativo di distruggere l’ego o la mente attraverso le sadhana diverse da atma-vichara è proprio come il ladro che assume la sembianza di un poliziotto per prendere il ladro che è lui stesso. Solo atma-vichara può rivelare la verità che né l’ego né la mente esistono realmente, e permettere di realizzare l’Essere puro, indifferenziato del Sé o l’Assoluto.

Avendo realizzato il Sé, niente rimane da essere conosciuto, perché esso è perfetta Beatitudine, esso è il Tutto.
La nostra mente è il ladro che ha rubato la nostra reale identità, e l’ha sostituita con un’identità contraffatta, vale a dire lui stesso, così finché cerchiamo di fare qualsiasi sādhana che richiede il mantenimento e l’uso di questa mente, saremo come qualcuno che conta su un ladro per agire come un poliziotto che cerca di catturare il ladro. La nostra mente o ego sorge ed è sostenuta dirigendo la nostra attenzione lontano da noi stessi e verso altre cose, così finché gli permettiamo di farlo, non possiamo distruggerlo. Il solo modo per distruggerlo è riportare indietro la nostra attenzione soltanto verso noi stessi, perché non appena cerchiamo di dare attenzione solo a noi stessi, la nostra mente o ego inizierà a sprofondare e a scomparire, poiché non può esistere senza afferrare qualcosa diversa da se stesso.

Quindi se prendiamo sākṣi-bhāva solo con il significato di attitudine a essere un testimone, non potrebbe essere un mezzo per distruggere la nostra mente, ma solo un mezzo per nutrirla e perpetrarla. Quindi sākṣi-bhāva potrebbe essere una pratica utile solo se, in questo contesto, interpretiamo bhāva non con il significato di attitudine o qualsiasi altro stato mentale, ma solo di uno stato di essere. Cioè, se diamo a sākṣi-bhāva il significato di stato di essere realmente sākṣi piuttosto che solo lo stato di considerare o immaginare noi stessi come sākṣi, saremmo allora in grado di interpretarlo in un modo compatibile con gli insegnamenti di Bhagavan.

Tuttavia, anche se in sākṣi-bhāva interpretiamo la parola bhāva con il significato di uno stato di essere, avremmo ancora bisogno di interpretare sākṣi in un senso corretto. Se prendiamo sākṣi in un senso letterale con il significato di un testimone che è consapevolezza di qualsiasi altra cosa diversa da se stesso, allora sākṣi-bhāva significherebbe lo stato di essere il nostro ego o mente, perché è solo quando ci sperimentiamo come questo ego che possiamo essere consapevoli di qualsiasi altra cosa diversa da noi stessi. Quindi, come ho spiegato nel mio articolo precedente, in un senso letterale, il solo sākṣi è il nostro ego.

Tuttavia, se interpretiamo sākṣi come una metafora dal significato di ‘presenza’ (nel senso che un sākṣi o testimone è una persona alla cui presenza ha luogo un azione o un evento), come Bhagavan ha spesso suggerito che esso dovrebbe essere inteso, allora sākṣi-bhāva significherebbe lo stato di essere la pura presenza in cui ogni azione o evento sembra accadere. L’analogia che Bhagavan diede spesso per illustrare questo (come nel quindicesimo paragrafo di Nāṉ Yār?) fu il sole, alla cui presenza tutte le azioni e gli eventi in questo mondo hanno luogo, ma che è non toccato e non condizionato da esse. Proprio come il sole è inconsapevole e noncurante di qualunque cosa può accadere sulla terra, così il nostro sé reale è inconsapevole e noncurante di qualsiasi cosa può sembrare accadere nella visione auto-ignorante del nostro ego, perché nella chiara visione del nostro sé reale questo ego non esiste realmente.

Quindi se interpretiamo il termine sākṣi-bhāva con il significato dello stato di essere la pura presenza che siamo realmente, sarebbe solamente una descrizione alternativa dello stato di auto-dimora, in cui rimaniamo come siamo realmente, essendo consapevoli di nient’altro che noi stessi soltanto. Solo se interpretiamo sākṣi-bhāva in questo senso, sarebbe un mezzo efficace per distruggere il nostro ego.

4. Sākṣi-bhāva può anche significare meditazione su il sākṣi, vale a dire noi stessi

Poiché bhāva può anche significare meditazione o contemplazione, un significato alternativo ma compatibile (benché non spesso considerato) di sākṣi-bhāva è semplicemente meditazione su il sākṣi, vale a dire noi stessi. Se lo interpretiamo in questo modo, non importa se prendiamo sākṣi nel suo senso letterale con il significato di noi stessi come questo ego, o nel suo senso metaforico con il significato di noi stessi come siamo realmente, perché in ogni caso sākṣi-bhāva significherebbe meditazione su noi stessi soltanto. Se meditiamo solo su noi stessi, colui che ora sembra essere consapevole di altre cose, la nostra attenzione sarà ritirata da ogni altra cosa, così senza ogni altra cosa a cui aggrapparsi il nostro ego sprofonderà, e se siamo in grado di focalizzare la nostra intera attenzione su noi stessi soltanto, escludendo tutta la consapevolezza di qualsiasi altra cosa, allora sperimenteremo noi stessi come siamo realmente.

Poiché secondo questa interpretazione sākṣi-bhāva significa semplicemente auto-attentività, questo equivale allo stesso significato dell’interpretazione precedente, vale a dire quella in cui sākṣi-bhāva significa essere solo la presenza auto-consapevole in cui l’ego appare e scompare insieme con tutto ciò che sperimenta. Il punto essenziale di entrambe queste due interpretazioni è che il nostro fine dovrebbe essere quello di essere consapevoli di nient’altro che noi stessi soltanto, che è del tutto opposto al significato che è abitualmente attribuito al termine sākṣi-bhāva.

5. Non ci sono stadi distinguibili sul sentiero di auto-investigazione

Riguardo alla tua domanda ‘se sarebbe utile distinguere tra due stadi sul sentiero’, se stiamo seguendo il sentiero di auto-investigazione (ātma-vicāra) non ci sono stadi distinguibili, perché come Bhagavan dice nel verso 579 di Guru Vācaka Kōvai:
மன்னுசொரூ பாத்துவித மாட்சியால் வேறுகதி
தன்னைத் தவிர்த்தில்லாத் தன்மையால் — துன்னு
முபேயமுந் தானே யுபாயமுந் தானே
யபேதமாக் காண்க வவை.

maṉṉusorū pādduvita māṭciyāl vēṟugati
taṉṉait tavirttillāt taṉmaiyāl — tuṉṉu
mupēyamun dāṉē yupāyamun dāṉē
yabhēdamāk kāṇka vavai
.

பதச்சேதம்: மன்னு சொரூப அத்துவித மாட்சியால், வேறு கதி தன்னை தவிர்த்து இல்லா தன்மையால், துன்னும் உபேயமும் தானே, உபாயமும் தானே. அபேதமா காண்க அவை.

Padacchēdam (separazione delle parole): maṉṉu sorūpa adduvita māṭciyāl, vēṟu gati taṉṉai tavirttu illā taṉmaiyāl, tuṉṉum upēyam-um tāṉē, upāyam-um tāṉē. abhēdam-ā kāṇga avai.

அன்வயம்: மன்னு சொரூப அத்துவித மாட்சியால், வேறு கதி தன்னை தவிர்த்து இல்லா தன்மையால், துன்னும் உபேயமும் தானே உபாயமும் தானே. அவை அபேதமா காண்க.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): maṉṉu sorūpa adduvita māṭciyāl, vēṟu gati taṉṉai tavirttu illā taṉmaiyāl, tuṉṉum upēyamum tāṉē, upāyamum tāṉē. avai abhēdam-ā kāṇga.

Traduzione: A causa della natura non-duale del [nostro] sé duraturo, [e] a causa del fatto che escludendo noi stessi non c’è altro gati [rifugio, mezzo o fine], l’upēya [lo scopo o fine] che [noi dobbiamo] raggiungere è solo noi stessi e l’upāya [il mezzo o sentiero] è solo noi stessi. Sappi che essi sono non-differenti (abhēda).
Noi ora ci sperimentiamo come se fossimo questo ego, ma questo non è ciò che siamo realmente, così il nostro fine è di sperimentare noi stessi come siamo realmente. Il solo mezzo per fare questo è cercare di sperimentare noi stessi soltanto, in completo isolamento da ogni altra cosa che ora sperimentiamo come noi stessi, così sperimentare noi stessi soltanto è sia il nostro fine sia il solo mezzo per raggiungerlo.

6. In nessuno stadio di questo sentiero dovremmo cercare di essere un testimone di qualcosa diversa da noi stessi

Riguardo la tua domanda ‘se il progresso verso l’auto-realizzazione è un processo evolutivo, dinamico e graduale (allontanandosi dall’ego e muovendosi verso il Sé) ed essere un testimone è uno stadio in questo processo’, esso è un processo graduale solo nel senso che dobbiamo gradualmente distogliere la nostra mente lontano dai suoi attaccamenti a qualsiasi cosa diversa da noi stessi, ma il solo mezzo per fare questo è perseverare nel cercare di sperimentare noi stessi soltanto. Quindi in nessuno stadio di questo processo dovremmo cercare di essere un testimone di qualcosa diversa da noi stessi soltanto. Se cerchiamo di testimoniare o di essere consapevole di qualcosa cosa diversa da noi stessi, alimentiamo e nutriamo quindi il nostro ego, e poiché questo ego sorge e permane solo attaccando se stesso ad altre cose, alimentandolo rinforziamo solo i nostri attaccamenti, e non potremo mai essere realmente distaccati.

Inoltre, poiché siamo sempre ciò che siamo realmente, non possiamo letteralmente muoverci verso noi stessi, così piuttosto che considerare questo sentiero come un movimento lontano dal nostro ego e verso noi stessi, sarebbe più preciso considerarlo un lasciare andare il nostro ego in modo da poter rimanere come siamo realmente. Quando sorgiamo come il nostro ego, non ci muoviamo realmente lontano da noi stessi, perché non cessiamo mai di essere ciò che siamo realmente, ma solo sembriamo ignorare o trascurare ciò che siamo realmente.

7. Solo l’auto-attentività è la chiave del reale distacco

Riguardo il paragrafo in cui dici:
[…] nella propria vita quotidiana, non si può essere auto-attentivi per 24 ore al giorno. Negli stadi iniziali almeno, benché si miri a focalizzare l’attenzione sul proprio Sé e a mantenerla nel fondo della propria mente, qualche volta l’attenzione è deviata per dare attenzione alle questioni pratiche con cui si ha a che fare. Forse sarebbe utile adottare l’attitudine di un testimone o un osservatore, mentre si dà attenzione alle proprie incombenze, e questo può aiutare a raggiungere un più alto grado di distacco. Forse, questo è ciò che i Buddhisti intendono con consapevolezza (mindfulness).
Quando abbiamo la necessità di impegnarci in qualche attività esterna, senza dubbio dovremmo cercare per quanto possibile di essere interiormente distaccati da tali attività, ma la misura in cui possiamo essere distaccati è molto limitata, perché come Bhagavan spiega nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu, l’ego ha origine e resiste solo afferrando cose diverse da se stesso, così essere consapevoli di qualcosa diversa da se stessi è una forma di afferrare o di attaccamento. Quindi il solo mezzo per raggiungere un reale distacco è cercare di essere consapevoli soltanto di noi stessi.

Più cerchiamo di essere consapevoli soltanto di noi stessi, più i nostri attaccamenti ad altre cose si indeboliranno, così anche quando abbiamo la necessità di impegnarci in attività esterne, saremo in grado di farlo in un modo più distaccato. Inoltre, proprio come una palla di neve aumenta di volume e di velocità mentre rotola lungo il pendio di una montagna coperta di neve, la nostra pratica di auto-investigazione aumenterà in profondità e in intensità più cerchiamo di essere attentivamente auto-consapevoli, perché più i nostri attaccamenti ad altre cose divengono deboli come risultato della nostra auto-attentività, più facile ci sarà essere auto-attentivi. Quindi soltanto l’auto-attentività è la chiave del reale distacco.

8. Il vipassanā è simile alla pratica di sākṣi-bhāva come generalmente è intesa

Riguardo la pratica Buddhista di ‘consapevolezza’(‘mindfullness’), in Pali è chiamata vipassanā, che è derivata dal termine Sanscrito vipaśyanā, che è un sostantivo derivato dal verbo vipaś, che significa guardare intensamente, osservare molto attentamente, vedere tra, discernere o distinguere. Come è generalmente compreso e praticato dai Buddhisti, il vipassanā comporta l’osservazione attenta e calma del proprio respiro, delle sensazioni corporee, delle attività fisiche e mentali, delle emozioni, delle sensazioni e di qualunque cosa possa accadere intorno a sé. Questo è molto simile alla pratica di sākṣi-bhāva come è generalmente intesa dalla maggioranza delle persone.

Tuttavia, sia che la chiamiamo sākṣi-bhāva o vipassanā, una tale pratica comporta essere attentivamente o attentamente consapevoli di cose che sono diverse da noi stessi, così secondo Bhagavan è solo un mezzo per alimentare, nutrire e sostenere il nostro ego. Quindi dubito che questo sia realmente ciò che Buddha intendeva quando ha usato il termine vipassanā (se davvero egli lo usò), e sospetto che ciò che egli intendeva non è che dovremmo osservare attentivamente ogni altra cosa (incluso il nostro corpo e ogni fenomeno mentale) ma solo che dovremmo osservare attentivamente soltanto noi stessi.

Come ho spiegato sopra, il termine vipassanā significa letteralmente guardare intensamente, osservare con molta attenzione, vedere tra, discernere o distinguere, così questo dovrebbe indurci a chiederci cosa dovremmo discernere o osservare con molta attenzione, e da cosa dovremmo distinguerlo. Possiamo cercare di osservare o discernere noi stessi o qualche altra cosa, così ciò che dovremmo cercare di discernere dipende da ciò che aspiriamo di raggiungere. Se il nostro fine è solo sperimentare ciò che siamo realmente, dovremmo ovviamente cercare di osservare o discernere solo noi stessi, e per fare questo, abbiamo bisogno di distinguere noi stessi da ogni altra cosa che sperimentiamo. Per distinguere noi stessi da ogni altra cosa e quindi discernere precisamente cosa siamo, abbiamo bisogno di cercare di isolare noi stessi e, a quel punto, essere consapevoli di nient’altro che noi stessi soltanto.

Cioè, se il nostro fine è sperimentare ciò che siamo realmente, possiamo dedurre logicamente che il mezzo per farlo deve essere solo investigare o osservare soltanto noi stessi. Osservare ogni altra cosa non può essere un mezzo per sperimentare noi stessi come siamo realmente, e sarebbe illogico suggerire che lo potrebbe essere. Noi sappiamo per esperienza che ogni volta che sperimentiamo qualcosa diversa da noi stessi, ci sperimentiamo come se fossimo un corpo, ma sappiamo che non possiamo essere un corpo, perché ora ci sperimentiamo senza sperimentare qualche corpo che abbiamo sperimentato come noi stessi in un sogno, e mentre sogniamo ci sperimentiamo senza sperimentare il corpo che ora sperimentiamo come noi stessi. Quindi sappiamo per esperienza che la consapevolezza di qualsiasi cosa diversa da noi stessi è sempre accompagnata da una consapevolezza confusa di ciò che noi stessi siamo, e perciò possiamo dedurre logicamente che per sperimentare noi stessi come siamo realmente, dobbiamo cercare di essere consapevoli soltanto di noi stessi, in completo isolamento da ogni consapevolezza di qualsiasi altra cosa.

Il mezzo per sperimentare noi stessi come siamo realmente che Bhagavan ci insegna – vale a dire l’auto-investigazione (cioè, cercare di essere consapevoli soltanto di noi stessi) – è di conseguenza logicamente valido e credibile, mentre ogni altro mezzo (che comporta essere consapevoli di qualcosa diversa da noi stessi) non è logicamente valido né credibile.

Quindi insegnandoci questo sentiero di auto-investigazione e spiegando la sua efficacia unica in un modo così chiaro, semplice e logico, Bhagavan ci ha dato un inestimabile dono. Perciò se siamo saggi dovremmo giovarci di questo dono cercando di praticare solo ciò che ci ha insegnato, e non dovremmo trascurarlo nella vana speranza di poter raggiungere qualcosa di utile con qualsiasi altro mezzo.

Se il nostro fine fosse solo sperimentare una calma o un’equanimità relative per un breve tempo, o fosse quello di alleviare qualche stress e tensione della vita moderna (anche se le nostre vite sono probabilmente molto meno stressanti e tese delle vite della maggioranza delle persone che vissero nel passato e di molte altre persone vive anche oggi), allora pratiche come vipassanā o sākṣi-bhāva possono essere piuttosto efficaci come un mezzo per raggiungere un tale fine, ma se il nostro fine è solo sperimentare noi stessi come siamo realmente (che comporta abbandonare il nostro ego, l’esperienza illusoria di essere una persona limitata costituita da un corpo e una mente), allora tali pratiche non sono e non possono essere un mezzo efficace per raggiungere questo fine. Il solo mezzo efficace con cui possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente è l’auto-investigazione, la semplice pratica di cercare di essere consapevoli soltanto di noi stessi.

9. Quando sperimenteremo ciò che siamo realmente, non avremo nient’altro da osservare o testimoniare

Riguardo il tuo suggerimento finale, ‘Dopo la realizzazione, forse si è nel sonno desto e si osservano le cose senza notarle’, lo stato in cui sperimentiamo noi stessi come siamo realmente (che è ciò che oggigiorno è qualche volta chiamato piuttosto imprecisamente ‘auto-realizzazione’) è qualche volta descritto come lo stato di ‘sonno desto’ perché è lo stato in cui siamo svegli per ciò che siamo realmente e addormentati, per così dire, per ogni altra cosa. Tuttavia, la ragione per cui in questo stato siamo addormentati per (o inconsapevoli di) ogni altra cosa è che nient’altro esiste realmente, perché qualsiasi altra cosa che ora sembra esistere lo fa solo nella visione auto-ignorante del nostro ego, che è esso stesso solo un’illusione o un fantasma e che sarà quindi dissolto e distrutto per sempre dalla nostra chiara consapevolezza di noi stessi come siamo realmente.

Quindi è sbagliato supporre che potremmo osservare o essere consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi quando ci sperimentiamo come siamo realmente. Questo è il motivo per cui Bhagavan dice nel verso 31 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
தன்னை யழித்தெழுந்த தன்மயா னந்தருக்
கென்னை யுளதொன் றியற்றுதற்குத் — தன்னையலா
தன்னிய மொன்று மறியா ரவர்நிலைமை
யின்னதென் றுன்ன லெவன்.

taṉṉai yaṙitteṙunda taṉmayā ṉandaruk
keṉṉai yuḷadoṉ ḏṟiyaṯṟudaṟkut — taṉṉaiyalā
taṉṉiya moṉḏṟu maṟiyā ravarnilaimai
yiṉṉadeṉ ḏṟuṉṉa levaṉ
.

பதச்சேதம்: தன்னை அழித்து எழுந்த தன்மயானந்தருக்கு என்னை உளது ஒன்று இயற்றுதற்கு? தன்னை அலாது அன்னியம் ஒன்றும் அறியார்; அவர் நிலைமை இன்னது என்று உன்னல் எவன்?

Padacchēdam (separazione delle parole): taṉṉai aṙittu eṙunda taṉmaya-āṉandarukku eṉṉai uḷadu oṉḏṟu iyaṯṟudaṯku? taṉṉai alādu aṉṉiyam oṉḏṟum aṟiyār; avar nilaimai iṉṉadu eṉḏṟu uṉṉal evaṉ?

அன்வயம்: தன்னை அழித்து எழுந்த தன்மயானந்தருக்கு இயற்றுதற்கு என்னை ஒன்று உளது? தன்னை அலாது அன்னியம் ஒன்றும் அறியார்; அவர் நிலைமை இன்னது என்று உன்னல் எவன்?

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): taṉṉai aṙittu eṙunda taṉmaya-āṉandarukku iyaṯṟudaṯku eṉṉai oṉḏṟu uḷadu? taṉṉai alādu aṉṉiyam oṉḏṟum aṟiyār; avar nilaimai iṉṉadu eṉḏṟu uṉṉal evaṉ?

Traduzione: per coloro che godono di tanmayānanda [‘beatitudine composta di quello’, vale a dire il nostro sé reale], che è sorto [come ‘io sono io’] distruggendo se stessi [l’ego], quale [azione] esiste da fare? Essi non conoscono [o sperimentano] alcuna cosa diversa da se stessi; [così] chi può [o come] concepire il loro stato come ‘è questo’?
Egli anche spiega questo con precisione usando una semplice analogia nel verso 31 di Uḷḷadu Nāṟpadu Anubandam:
வண்டிதுயில் வானுக்கவ் வண்டிசெல னிற்றிலொடு
வண்டிதனி யுற்றிடுதன் மானுமே — வண்டியா
மூனவுட லுள்ளே யுறங்குமெய்ஞ் ஞானிக்கு
மானதொழி னிட்டையுறக் கம்.

vaṇḍiduyil vāṉukkav vaṇḍisela ṉiṯṟiloḍu
vaṇḍidaṉi yuṯṟiḍudaṉ māṉumē — vaṇḍiyā
mūṉavuḍa luḷḷē yuṟaṅgumeyñ ñāṉikku
māṉadoṙi ṉiṭṭaiyuṟak kam
.

பதச்சேதம்: வண்டி துயில்வானுக்கு அவ் வண்டி செலல், நிற்றல் ஒடு, வண்டி தனி உற்றிடுதல் மானுமே, வண்டி ஆம் ஊன உடல் உள்ளே உறங்கும் மெய்ஞ்ஞானிக்கும் ஆன தொழில், நிட்டை, உறக்கம்.

Padacchēdam (separazione delle parole): vaṇḍi tuyilvāṉukku a-v-vaṇḍi selal, ṉiṯṟil oḍu, vaṇḍi taṉi uṯṟiḍudal māṉumē, vaṇḍi ām ūṉa uḍal uḷḷē uṟaṅgum meyññāṉikkum āṉa toṙil, ṉiṭṭai, uṟakkam.

Traduzione: L’attività [nella veglia o nel sogno], il niṣṭhā [inattività, assorbimento o samādhi] e il sonno che [accadono apparentemente] al mey-jñāni [il conoscitore della realtà], che è addormentato all’interno del corpo di carne, che è [come] un carro, sono simili al carro in movimento, al carro che si ferma o al carro che rimane solo [con i buoi liberati dal giogo] per una persona che dorme in quel carro.
Cioè, questi stati transitori del corpo e della mente non sono sperimentati dal jñāni, proprio come nessuno dei vari stati di un carro è sperimentato da una persona che dorme in esso. Questa è naturalmente una spiegazione data a coloro che confondono il jñāni come una persona che abita un corpo, così essa sembra riconoscere che la mente, il corpo e il mondo esistono anche se il jñāni è inconsapevole di essi. Tuttavia, Bhagavan spesso ci ha insegnato che ogni mente, corpo o mondo sembra esistere solo nella visione del nostro ego, e che una tale cosa non esiste affatto. Questo è il motivo per cui egli scrisse nella prima frase del settimo paragrafo di Nāṉ Yār? (Chi sono io?):
யதார்த்தமா யுள்ளது ஆத்மசொரூப மொன்றே. [...]

yathārtham-āy uḷḷadu ātma-sorūpam oṉḏṟē. [...]

Ciò che esiste realmente è solo ātma-svarūpa [il nostro sé essenziale]. […]
Ogni altra cosa sembra esistere solo nella visione del nostro ego, così quando questo ego cessa di esistere, niente altro sembrerà esistere, come Bhagavan afferma inequivocabilmente sia nella prima frase del verso 7 di Śrī Aruṇācala Aṣṭakam sia nelle prime due frasi del verso 26 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
இன்றக மெனுநினை வெனிற்பிற வொன்று மின்று [...].

iṉḏṟaha meṉuniṉai veṉiṟpiṟa voṉḏṟu miṉḏṟu [...]

பதச்சேதம்: இன்று அகம் எனும் நினைவு எனில், பிற ஒன்றும் இன்று. [...]

Padacchēdam (separazione delle parole): iṉḏṟu aham eṉum niṉaivu eṉil, piṟa oṉḏṟum iṉḏṟu. [...]

Traduzione: Se il pensiero chiamato ‘io’ [l’ego] non esiste, anche un altro [pensiero o cosa] non esisterà. [...]


அகந்தையுண் டாயி னனைத்துமுண் டாகு
மகந்தையின் றேலின் றனைத்தும் […]

ahandaiyuṇ ḍāyi ṉaṉaittumuṇ ḍāhu
mahandaiyiṉ ḏṟēliṉ ḏṟaṉaittum
[…]

பதச்சேதம்: அகந்தை உண்டாயின், அனைத்தும் உண்டாகும்; அகந்தை இன்றேல், இன்று அனைத்தும். […]

Padacchēdam (separazione delle parole): ahandai uṇḍāyiṉ, aṉaittum uṇḍāhum; ahandai iṉḏṟēl, iṉḏṟu aṉaittum. […]

Traduzione: Se l’ego ha origine, ogni cosa ha origine; se l’ego non esiste, ogni cosa non esiste. […]
Quindi non dobbiamo avere dubbi riguardo il fatto che quando ci sperimentiamo come siamo realmente, non avremo nient’altro che noi stessi da osservare, ‘testimoniare’ o di cui essere consapevoli, e che osservare, testimoniare o essere consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi non può quindi essere un mezzo con cui ci possiamo sperimentare come siamo realmente.

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