Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

giovedì 25 giugno 2015

Il prāṇāyāma è solo un aiuto per trattenere la mente ma non determinerà il suo annientamento

Michael James

18 Giugno 2015
Prāṇāyāma is just an aid to restrain the mind but will not bring about its annihilation

In un commento a uno dei miei primi articoli, La legge fondamentale dell’esperienza o consapevolezza scoperta da Sri Ramana, un amico di nome Chimborazo ha scritto:
Michael, qualche volta è detto che la sorgente dell’ego (tutti i pensieri, il pensiero ‘io’) è il cuore. E lo stesso cuore è detto essere la sorgente del respiro. Quindi i pensieri e il respiro hanno la stessa sorgente. Così se si trattiene il respiro non sorgerà nessun pensiero.

Non posso confermare questo e non l’ho appreso nella mia esperienza di meditazione. Potresti per favore commentare o chiarire questo argomento.
In risposta a questo ho scritto un commento in cui ho spiegato:
Quando è detto che la sorgente dell’ego e la sorgente del respiro sono entrambi solo ‘il cuore’ (che non significa alcun organo fisico o luogo nel nostro corpo, ma solo il centro di noi stessi, che è ciò che siamo realmente), e che quindi quando l’ego o il respiro sprofonda, anche l’altro sprofonderà, ciò che si intende con la parola ‘respiro’ o prāṇa non è solo l’atto fisico della respirazione ma l’impulso a respirare. Poiché non possiamo fermare l’impulso a respirare solo trattenendo il respiro per un po’, trattenere il respiro forzatamente non causerà la cessazione del nostro ego e dei suoi altri pensieri.

Quando gli yōgi praticano prāṇāyāma (trattenimento del respiro) per lungo tempo, ciò a cui si stanno gradualmente addestrando a fare è contenere il loro impulso a respirare, e questo è come riescono a produrre una cessazione temporanea della loro mente. Tuttavia, poiché essi non possono far cessare completamente l’impulso a respirare, non possono produrre la cessazione permanente della loro mente o ego con questo mezzo. Questo è il motivo per cui Bhagavan ha detto nell’ottavo paragrafo di Nāṉ Yār?:
மனம் அடங்குவதற்கு விசாரணையைத் தவிர வேறு தகுந்த உபாயங்களில்லை. மற்ற உபாயங்களினால் அடக்கினால் மனம் அடங்கினாற்போ லிருந்து, மறுபடியும் கிளம்பிவிடும். பிராணாயாமத்தாலும் மன மடங்கும்; ஆனால் பிராண னடங்கியிருக்கும் வரையில் மனமு மடங்கியிருந்து, பிராணன் வெளிப்படும்போது தானும் வெளிப்பட்டு வாசனை வயத்தா யலையும். […] ஆகையால் பிராணாயாமம் மனத்தை யடக்க சகாயமாகுமே யன்றி மனோநாசஞ் செய்யாது.

maṉam aḍaṅguvadaṯku vicāraṇaiyai-t tavira vēṟu tahunda upāyaṅgaḷ-illai. maṯṟa upāyaṅgaḷiṉāl aḍakkiṉāl maṉam aḍaṅgiṉāl-pōl irundu, maṟupaḍiyum kiḷambi-viḍum. pirāṇāyāmattāl-um maṉam aḍaṅgum; āṉāl pirāṇaṉ aḍaṅgi-y-irukkum varaiyil maṉam-um aḍaṅgi-y-irundu, pirāṇaṉ veḷi-p-paḍum-bōdu tāṉum veḷi-p-paṭṭu vāsaṉai vayattāy alaiyum. […] āhaiyāl pirāṇāyāmam maṉattai y-aḍakka sahāyam-āhum-ē y-aṉḏṟi maṉōnāśam seyyādu.

Per far cessare la mente [interamente e permanentemente], non ci sono mezzi adeguati tranne vicāraṇā [auto-investigazione]. Se trattenuta con altri mezzi, la mente rimarrà come se fosse cessata, [ma] emergerà nuovamente. Anche con il prāṇāyāma [trattenimento del respiro] la mente sprofonderà; tuttavia, [benché] la mente rimane sprofondata finché il respiro rimane sprofondato, quando il respiro emerge [o diviene manifesto] anch'essa emergerà e vagherà sotto l’influsso delle [sue] vāsanā [inclinazioni, impulsi o desideri]. […] Quindi il prāṇāyāma è solo un aiuto per trattenere la mente, ma non produrrà manōnāśa [annientamento della mente].
Chimborazo ha risposto a questo in un altro commento in cui ha detto, ‘Appena incontro quel punto di un determinato testo lo confronterò con la tua spiegazione’, così ciò che segue è la mia risposta a questo:
  1. Nāṉ Yār? paragrafo 8: la connessione tra la mente e il respiro
  2. Upadēśa Undiyār versi 11 e 12: come il contenimento del respiro è un mezzo per contenere la mente
  3. Upadēśa Undiyār verso 13: i due tipi di cessazione della mente
  4. Upadēśa Undiyār verso 14: la nostra mente morirà solo per mezzo dell’auto-investigazione
  5. Upadēśa Sāram verso 14: il significato di ēka-cintanā
  6. Può il nostro ego o mente essere annientato con qualche mezzo diverso dall’auto-investigazione?
  7. Può il nostro ego o mente essere annientato meditando su una forma o un nome?
    1. Nāṉ Yār? paragrafo 9
    2. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 25
    3. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 4
    4. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 20
    5. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 8
  8. E’ sbagliato dire che l’auto-investigazione è il solo mezzo con cui la mente può essere annientata?
  9. Il prāṇāyāma non è sufficiente né necessario
  10. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 28: il calmarsi del respiro è un effetto dell’auto-investigazione

1. Nāṉ Yār? paragrafo 8: la connessione tra la mente e il respiro

Chimborazo, un testo in cui Bhagavan menziona l’idea alla quale ti sei riferito originariamente – vale a dire che la sorgente del respiro è la stessa dell’ego o mente, e che quindi quando l’ego sprofonda, anche il respiro sprofonderà, e quando il respiro sprofonda anche l’ego sprofonderà – è lo stesso ottavo paragrafo di Nāṉ Yār? (Chi sono io?), del quale ho citato l’inizio e la fine nella mia prima risposta a te. Escludendo la parte piuttosto dubbia e problematica che fu successivamente inserita in esso (come ho spiegato nella mia nota ad esso), l’insieme di quel paragrafo che fu originariamente scritto da Bhagavan è:
மனம் அடங்குவதற்கு விசாரணையைத் தவிர வேறு தகுந்த உபாயங்களில்லை. மற்ற உபாயங்களினால் அடக்கினால் மனம் அடங்கினாற்போ லிருந்து, மறுபடியும் கிளம்பிவிடும். பிராணாயாமத்தாலும் மன மடங்கும்; ஆனால் பிராண னடங்கியிருக்கும் வரையில் மனமு மடங்கியிருந்து, பிராணன் வெளிப்படும்போது தானும் வெளிப்பட்டு வாசனை வயத்தா யலையும். மனத்திற்கும் பிராணனுக்கும் பிறப்பிட மொன்றே. நினைவே மனத்தின் சொரூபம். நானென்னும் நினைவே மனத்தின் முதல் நினைவு; அதுவே யகங்காரம். அகங்கார மெங்கிருந்து உற்பத்தியோ, அங்கிருந்துதான் மூச்சும் கிளம்புகின்றது. ஆகையால் மன மடங்கும்போது பிராணனும், பிராண னடங்கும்போது மனமு மடங்கும். பிராணன் மனத்தின் ஸ்தூல ரூபமெனப்படும். மரணகாலம் வரையில் மனம் பிராணனை உடலில் வைத்துக்கொண்டிருந்து, உடல் மரிக்குங் காலத்தில் அதனைக் கவர்ந்துகொண்டு போகின்றது. ஆகையால் பிராணாயாமம் மனத்தை யடக்க சகாயமாகுமே யன்றி மனோநாசஞ் செய்யாது.

maṉam aḍaṅguvadaṯku vicāraṇaiyai-t tavira vēṟu tahunda upāyaṅgaḷ-illai. maṯṟa upāyaṅgaḷiṉāl aḍakkiṉāl maṉam aḍaṅgiṉāl-pōl irundu, maṟupaḍiyum kiḷambi-viḍum. pirāṇāyāmattāl-um maṉam aḍaṅgum; āṉāl pirāṇaṉ aḍaṅgi-y-irukkum varaiyil maṉam-um aḍaṅgi-y-irundu, pirāṇaṉ veḷi-p-paḍum-bōdu tāṉum veḷi-p-paṭṭu vāsaṉai vayattāy alaiyum. maṉattiṯkum pirāṇaṉukkum piṟappiḍam oṉḏṟē. niṉaivē maṉattiṉ sorūpam. nāṉ-eṉṉum niṉaivē maṉattiṉ mudal niṉaivu; adu-v-ē y-ahaṅkāram. ahaṅkāram eṅgirundu uṯpatti-y-ō, aṅgirundu-tāṉ mūccum kiḷambugiṉḏṟadu. āhaiyāl maṉam aḍaṅgum-pōdu pirāṇaṉ-um, pirāṇaṉ aḍaṅgum-pōdu maṉamum aḍaṅgum. pirāṇaṉ maṉattiṉ sthūla rūpam-eṉa-p-paḍum. maraṇa-kālam varaiyil maṉam pirāṇaṉai uḍalil vaittu-k-koṇḍirundu, uḍal marikkum kālattil adaṉai-k kavarndu-goṇḍu pōkiṉḏṟadu. āhaiyāl pirāṇāyāmam maṉattai y-aḍakka sahāyam-āhum-ē y-aṉḏṟi maṉōnāśam seyyādu.

Per far cessare la mente [permanentemente], non ci sono mezzi adeguati tranne che vicāraṇā [auto-investigazione]. Se trattenuta con altri mezzi, la mente rimarrà come se fosse cessata, [ma] emergerà nuovamente. Anche per mezzo del prāṇāyāma [trattenimento del respiro], la mente si quieterà; tuttavia, [sebbene] la mente rimane quieta fino a che il respiro è trattenuto, quando il respiro emerge [o diviene manifesto] essa anche emerge e vaga sotto l'influsso delle [sue] vāsanā [tendenze, inclinazioni, impulsi o desideri]. Il luogo di nascita sia della mente sia del prāṇa [il respiro e gli altri processi vitali] è uno. Solo il pensiero è la svarūpa [la 'propria forma'] della mente. Solo il pensiero chiamato 'io' è il primo pensiero della mente; esso solo è l'ego. Da dove l'ego sorge, solo da lì ha origine anche il respiro. Quindi quando le mente si quieta anche il prāṇa [si quieta], [e] quando il prāṇa si quieta anche la mente si quieta. Il prāṇa è detto essere la forma grossolana della mente. Fino al tempo della morte la mente mantiene il prāṇa nel corpo, e nel momento in cui il corpo muore essa [la mente] lo afferra e lo porta [il prāṇa] via. Quindi il prāṇāyāma è semplicemente un aiuto per contenere la mente [o per farla quietare temporaneamente], ma non determinerà manō-nāśa [l'annientamento della mente].
Come egli dice qui, l’ego è il nostro pensiero primario chiamato ‘io’, che è il primo e il principale pensiero della mente, come spiega nel verso 18 di Upadēśa Undiyār, benché il termine ‘mente’ sia usato generalmente come un nome collettivo per tutti i pensieri o fenomeni mentali, ciò che la mente è essenzialmente è solo questo ego, il pensiero fondamentale chiamato ‘io’, che è la radice di tutti gli altri pensieri. Quindi qualunque cosa egli dica qui riguardo la cessazione della mente si applica ugualmente bene all’ego, perché nessun altro pensiero può sorgere se non è sperimentato da questo ego, così quando questo ego sprofonda tutti gli altri pensieri devono sprofondare con esso.

Inoltre, questo ego non può reggersi senza sperimentare altri pensieri, perché come Bhagavan intende nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu, l’ego sembra esistere solo quando sperimenta qualcosa diversa da se stesso, e ogni cosa diversa da se stesso è solo un pensiero o un fenomeno mentale. Quindi proprio come l’esistenza apparente degli altri pensieri dipende dall’esistenza apparente di questo ego, l’esistenza apparente di questo ego dipende dall’esistenza apparente degli altri pensieri.

Poiché Bhagavan dice altrove in Nāṉ Yār? (vale a dire nel quarto e nel quattordicesimo paragrafo) che il mondo non è altro che pensieri (termine con il quale intende non solo un tipo particolare di fenomeno mentale ma i fenomeni mentali di qualsiasi tipo), e poiché qualunque corpo questo ego sperimenta come se stesso è parte di qualunque mondo esso sperimenta attraverso quel corpo, sia il nostro corpo sia il suo respiro o prāṇa sono solo pensieri, così essi hanno origine apparente solo quando il nostro ego sorge ed essi cessano di esistere quando il nostro ego sprofonda. Questo è il motivo per cui egli dice che la sorgente o ‘luogo di nascita’ sia del nostro ego o mente sia del nostro respiro o prāṇa è una sola, e che quando la mente sprofonda anche il prāṇa sprofonda, e quando il prāṇa sprofonda anche la mente sprofonda.

Come ho spiegato nella mia prima risposta, e come possiamo dedurre dalla seconda frase di questo ottavo paragrafo, in cui Bhagavan dice, ‘Fino al tempo della morte la mente mantiene il prāṇa nel corpo, e nel momento in cui il corpo muore essa [la mente] lo afferra e lo porta [il prāṇa] via’, in questo contesto le parole ‘respiro’ e prāṇa non significano solo l’atto fisico di respirare ma l’impulso a respirare. Il nostro ego sorge solo proiettando e afferrando un corpo, che poi sperimenta come se stesso, così finché l’ego è manifesto ha l’impulso di respirare, perché è solo respirando che può continuare a vivere come quel corpo. Il suo impulso a respirare è quindi il suo impulso a sopravvivere come la forma che esso attualmente sperimenta come se stesso.

Quindi l’ego e il suo impulso a respirare sorgono entrambi dalla stessa sorgente, vale a dire noi stessi, e sorgono e sprofondano insieme, perché nessuno dei due può manifestarsi senza l’altro. Quindi il prāṇāyāma o ‘trattenimento del respiro’, che è una serie di esercizi con cui l’ego può addestrarsi a reprimere il suo impulso a respirare, è un mezzo artificiale con cui esso può determinare il proprio sprofondamento. Tuttavia, quando esso sprofonda per mezzo del prāṇāyāma, il suo sprofondamento è solo temporaneo, così prima o poi sorgerà nuovamente, e quindi Bhagavan dice che il prāṇāyāma è solo un aiuto per contenere la mente ma non determinerà il suo annientamento. Il solo mezzo con cui esso può annientare se stesso è l’auto-investigazione ( ātma-vicāra).

2. Upadēśa Undiyār versi 11 e 12: come il contenimento del respiro è un mezzo per contenere la mente

Questo stesso insegnamento è anche dato da Bhagavan dal verso 11 al verso 14 di Upadēśa Undiyār. Nel verso 11 egli dice:
வளியுள் ளடக்க வலைபடு புட்போ
லுளமு மொடுங்குறு முந்தீபற
வொடுக்க வுபாயமி துந்தீபற.

vaḷiyuḷ ḷaḍakka valaipaḍu puṭpō
luḷamu moḍuṅguṟu mundīpaṟa
voḍukka vupāyami dundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: வளி உள் அடக்க, வலை படு புள் போல் உளமும் ஒடுங்குறும். ஒடுக்க உபாயம் இது.

Padacchēdam (separazione delle parole): vaḷi uḷ aḍakka, valai paḍu puḷ pōl uḷam-um oḍuṅguṟum. oḍukka upāyam idu.

அன்வயம்: வளி உள் அடக்க, வலை படு புள் போல் உளமும் ஒடுங்குறும். இது ஒடுக்க உபாயம்.

Anvayam (parole ridisposte secondo ordine naturale di prosa): vaḷi uḷ aḍakka, valai paḍu puḷ pōl uḷam-um oḍuṅguṟum. idu oḍukka upāyam.

Traduzione: Quando [uno] trattiene il respiro all’interno, come un uccello catturato in una rete, anche la mente sprofonderà. Questa [pratica di trattenimento del respiro] è un mezzo per contenere [la mente].
உபாயம் ( upāyam) è una parola di origine Sanscrita che significa un mezzo, modo, espediente, stratagemma o qualsiasi cosa con cui uno raggiunge un fine. Tre altre parole in questo verso sono strettamente collegate le une alle altre, vale a dire அடக்க ( aḍakka), ஒடுங்கு ( oḍuṅgu) e ஒடுக்க ( oḍukka). அடக்க ( aḍakka) è la forma infinita di அடக்கு ( aḍakku), che è un verbo transitivo e causativo che significa causare lo sprofondamento, il calmarsi, il cessare, l’essere immobili o scomparire, o più usualmente trattenere, costringere, controllare, calmare, soggiogare, sopprimere, frenare, sottomettere, condensare, nascondere o seppellire, ed è qui usata come un condizionale avverbiale nel significato di ‘quando uno trattiene’. ஒடுங்கு ( oḍuṅgu) è un verbo intransitivo che significa sprofondare, scendere, calmarsi, tranquillizzarsi, essere contenuto, essere ridotto, essere remissivo, essere quieto, divenire inattivo, ritirarsi, chiudersi, cessare, essere nascosto o essere dissolto, ed è usata qui per descrivere ciò che accade alla propria mente o ego quando si trattiene il respiro. ஒடுக்க ( oḍukka) è la forma infinita di ஒடுக்கு ( oḍukku), che è una forma transitiva e causativa di ஒடுங்கு ( oḍuṅgu), così significa più o meno lo stesso di அடக்கு ( aḍakku), vale a dire trattenere, sottomettere, soggiogare, ridurre, controllare, sopprimere, condensare, dissolvere o causare la fusione. Di conseguenza il significato generale di questo verso è che trattenere il proprio respiro è un mezzo per contenere la propria mente.

Quando un uccello è catturato in una rete, la sua libertà di volare è di conseguenza costretta o limitata. Nello stesso modo quando il respiro è trattenuto, la libertà della mente di essere attiva è costretta o limitata. Se una persona stesse annegando o stesse soffocando, sarebbe in grado di pensare solo a una cosa, vale a dire respirare liberamente per sopravvivere. Nella pratica del prāṇāyāma, tuttavia, il respiro non è fermato così violentemente, ma è trattenuto gradualmente in un modo più moderato, misurato e controllato, così è un mezzo per calmare la mente.

Se un uccello è catturato in una grande gabbia di rete, può ancora volare, ma solo entro i limiti di quella gabbia, mentre se è catturato e stretto in una rete, non può volare affatto. Nello stesso modo, nella misura in cui il respiro è trattenuto, in quella misura la mente è trattenuta, così praticando prāṇāyāma per lungo tempo uno yōgi può coltivare l’abilità di trattenere il respiro in modo tale da causare una temporanea cessazione della mente in uno stato di laya (letargia o dissoluzione temporanea) simile al sonno.

Il motivo per cui trattenere il respiro è un mezzo per trattenere la mente è spiegato da Bhagavan nel verso successivo (verso 12):
உளமு முயிரு முணர்வுஞ் செயலு
முளவாங் கிளையிரண் டுந்தீபற
வொன்றவற் றின்மூல முந்தீபற.

uḷamu muyiru muṇarvuñ ceyalu
muḷavāṅ kiḷaiyiraṇ ḍundīpaṟa
voṉḏṟavaṯ ṟiṉmūla mundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: உளமும் உயிரும் உணர்வும் செயலும் உளவாம் கிளை இரண்டு. ஒன்று அவற்றின் மூலம்.

Padacchēdam (separazione delle parole): uḷam-um uyir-um uṇarvu-[u]m ceyal-um uḷavām kiḷai iraṇḍu. oṉḏṟu avaṯṟiṉ mūlam.

அன்வயம்: உளமும் உயிரும் உணர்வும் செயலும் உளவாம் இரண்டு கிளை. அவற்றின் மூலம் ஒன்று.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): uḷam-um uyir-um uṇarvu-[u]m ceyal-um uḷavām iraṇḍu kiḷai. avaṯṟiṉ mūlam oṉḏṟu.

Traduzione: La mente e il respiro sono due rami che hanno la conoscenza e il fare [come loro funzioni rispettive]. [Tuttavia] la loro mūla [radice, base, fondamento, origine, sorgente o causa] è una.
Nella sua forma essenziale come ego, la nostra mente è un jñāna-śakti o ‘potere di conoscere’, perché esso solo sperimenta sia se stesso sia ogni altra cosa, mentre il nostro prāṇa o respiro è un kriyā-śakti o ‘potere di fare’, perché siamo in grado di fare qualsiasi cosa solo quando sperimentiamo noi stessi come un corpo vivente e respirante. Tuttavia queste due funzioni di conoscere e di fare sono inseparabili, come due rami di un singolo albero, perché la nostra mente non può sorgere e conoscere qualsiasi cosa senza sperimentare se stessa come un corpo respirante, e il nostro corpo non esiste o fa qualcosa tranne quando, come questa mente, lo sperimentiamo come noi stessi. Quindi, proprio come la radice dalla quale due rami germogliano è una, la radice dalla quale la nostra mente e il respiro sorgono è una, vale a dire il nostro ego, che è māyā, il potere fondamentale di illusione o auto-ignoranza.

Come Sadhu Om era solito dire quando spiegava questo verso, la nostra mente e il respiro sono come una luce e un ventilatore che sono attivati dalla stessa energia elettrica e controllati da un singolo interruttore di regolazione. Se attiviamo l’interruttore con l’intenzione di ridurre la luminosità della luce o la velocità del ventilatore, l’altro sarà simultaneamente ridotto. Nello stesso modo, se tratteniamo la nostra mente o il nostro respiro, l’altro sarà automaticamente trattenuto.

3. Upadēśa Undiyār verso 13: i due tipi di cessazione della mente

Tuttavia, benché la mente possa essere fatta sprofondare per mezzo del trattenimento del respiro ( prāṇāyāma), essa non può essere annientata da tale mezzo, come Bhagavan dice nella frase finale dell’ottavo paragrafo di Nāṉ Yār? (citato sopra), così nel verso 13 di Upadēśa Undiyār egli spiega la differenza cruciale tra manōlaya (letargia o temporanea dissoluzione della mente) e manōnāśa (completa distruzione o annientamento della mente):
இலயமு நாச மிரண்டா மொடுக்க
மிலயித் துளதெழு முந்தீபற
வெழாதுரு மாய்ந்ததே லுந்தீபற.

ilayamu nāśa miraṇḍā moḍukka
milayit tuḷadeṙu mundīpaṟa
veṙāduru māyndadē lundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: இலயமும் நாசம் இரண்டு ஆம் ஒடுக்கம். இலயித்து உளது எழும். எழாது உரு மாய்ந்ததேல்.

Padacchēdam (separazione delle parole): ilayam-um nāśam iraṇḍu ām oḍukkam. ilayittu uḷadu eṙum. eṙādu uru māyndadēl.

அன்வயம்: ஒடுக்கம் இலயமும் நாசம் இரண்டு ஆம். இலயித்து உளது எழும். உரு மாய்ந்ததேல் எழாது.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): oḍukkam ilayam-um nāśam iraṇḍu ām. ilayittu uḷadu eṙum. uru māyndadēl eṙādu.

Traduzione: Il quietarsi [della mente] è [di] due [tipi]: laya e nāśa. Ciò che dorme [in laya] sorgerà. Se la [sua] forma muore [in nāśa], non sorgerà.
ஒடுக்கம் ( oḍukkam) è una forma sostantivata del verbo ஒடுங்கு ( oḍuṅgu), che come abbiamo visto prima (nella sezione precedente) significa sprofondare, calare, calmarsi, tranquillizzarsi, essere quieti, essere inattivi, cessare o essere dissolti, così ஒடுக்கம் ( oḍukkam) significa subsidenza, sprofondamento, trattenimento, contrazione, riduzione, ritiro, isolamento, scomparsa, assorbimento, dissoluzione o fine, ma in questo contesto significa ogni stato in cui l’ego e la mente sono completamente sprofondati. Tali stati sono di due tipi, laya and nāśa. In questo contesto laya significa letargia, sospensione o dissoluzione temporanea, mentre nāśa significa distruzione o annientamento, così laya è temporanea mentre nāśa è permanente.

La nostra mente sprofonda completamente quando ci addormentiamo, ma avendo riposato sufficientemente (ricaricando le sue batterie, per così dire, essendo immersa nella sua sorgente, noi stessi), essa sorge nuovamente, così il sonno non è uno stato permanente di manōnāśa (annientamento della mente) ma solo uno stato temporaneo di manōlaya (letargia della mente). Nello stesso modo altri stati simili come lo svenimento, l’anestesia generale, il coma o la morte sono solo stati di manōlaya, come lo è anche ogni stato di completo sprofondamento o samādhi indotto da qualche tecnica artificiale come il prāṇāyāma.

Ogni genere di laya della mente è solo temporaneo, perché se la mente non è stata annientata essa presto o tardi sorgerà di nuovo, così manōlaya non è un fine a cui dovremmo ambire. Secondo Bhagavan, ciò a cui dovremmo ambire è solo manōnāśa, che è uno stato in cui sperimentiamo noi stessi come siamo realmente e cessiamo permanentemente di sperimentare noi stessi come un ego, una mente o un corpo. Manōnāśa è quindi anche chiamata auto-conoscenza (ātma-jñāna), e poiché è il solo stato in cui sperimentiamo ciò che è reale, è il solo vero fine spirituale definitivo e permanente.

Poiché l’auto-conoscenza è il nostro fine, il solo ostacolo che abbiamo bisogno di superare per raggiungerlo è la nostra auto-ignoranza, che è sinonimo di ego o mente. Tuttavia, proprio come la nostra auto-ignoranza non è annientata nel sonno, non è annientata in ogni altro stato di laya, così se sperimentiamo laya come il risultato del prāṇāyāma o di qualsiasi altro mezzo artificiale, non ci aiuterà a raggiungere il nostro scopo ultimo.

Per illustrare questo, Bhagavan usava raccontare una storia riguardo uno yōgi che praticava prāṇāyāma ed altre tecniche simili sulle rive del Gange e che era così provetto in tali pratiche da essere in grado di immergersi per periodi sempre più lunghi nel tipo di manōlaya che è chiamato nirvikalpa samādhi, che è generalmente considerato uno stato molto elevato. In un’occasione egli si svegliò dal suo nirvikalpa samādhi sentendosi assetato, così chiese al suo discepolo di portargli un po’ d’acqua dal Gange, ma prima che il suo discepolo ebbe il tempo di portare l’acqua, egli sprofondò nuovamente nel nirvikalpa samādhi, e non si svegliò per trecento anni. Tuttavia, appena si svegliò il suo primo pensiero fu riguardo all’acqua che aveva chiesto, così egli la chiese di nuovo adirandosi perché non gli era ancora stata portata.

Come ha spiegato Bhagavan, questa storia mostra che nessun beneficio spirituale può essere ottenuto da qualsiasi stato di manōlaya, perché il fatto che il pensiero dell’acqua, che fu l’ultimo pensiero nella mente dello yōgi prima che sprofondasse nel laya, fu il primo pensiero che sorse in lui appena si svegliò dal laya, mostra che neppure una singola vāsanā (propensione, inclinazione, impulso o desiderio) è distrutta o anche indebolita in un tale stato, non importa quanto a lungo possa durare. Quindi, poiché tutte le vāsanā possono essere distrutte con la loro radice, l’ego, solo per mezzo dell’auto-investigazione ( ātma-vicāra), egli era solito consigliare chiunque stesse praticando il prāṇāyāma come una sādhana spirituale che non avrebbe dovuto permettere alla propria mente di sprofondare in laya ma avrebbe dovuto usare la calma o quiescenza mentale relativa raggiunta con il prāṇāyāma come una condizione favorevole in cui cercare di rivolgere la propria attenzione soltanto verso se stesso.

4. Upadēśa Undiyār verso 14: la nostra mente morirà solo per mezzo dell’auto-investigazione

Questo consiglio è ciò che egli intende nel verso successivo di Upadēśa Undiyār, vale a dire il verso 14:
ஒடுக்க வளியை யொடுங்கு முளத்தை
விடுக்கவே யோர்வழி யுந்தீபற
வீயு மதனுரு வுந்தீபற.

oḍukka vaḷiyai yoḍuṅgu muḷattai
viḍukkavē yōrvaṙi yundīpaṟa
vīyu madaṉuru vundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: ஒடுக்க வளியை ஒடுங்கும் உளத்தை விடுக்கவே ஓர் வழி, வீயும் அதன் உரு.

Padacchēdam (separazione delle parole): oḍukka vaḷiyai oḍuṅgum uḷattai viḍukka-v-ē ōr vaṙi, vīyum adaṉ uru.

அன்வயம்: வளியை ஒடுக்க ஒடுங்கும் உளத்தை ஓர் வழி விடுக்கவே, அதன் உரு வீயும்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): vaḷiyai oḍukka oḍuṅgum uḷattai ōr vaṙi viḍukka-v-ē, adaṉ uru vīyum.

Traduzione: Solo quando [uno] spinge la mente, che diviene calma quando [uno] trattiene il respiro, sul sentiero investigante, la sua forma perirà.
Come abbiamo visto prima (nella seconda sezione), lo sprofondamento o calma della mente può essere parziale o completa. Nel verso precedente i due tipi di cessazione di cui Bhagavan parla sono entrambi cessazione completa, la differenza tra esse è che una è temporanea mentre l’altra è permanente, ma quando egli ha detto nel verso 11 ‘உளமும் ஒடுங்குறும்’ ( uḷamum oḍuṅguṟum), che significa ‘anche la mente cesserà’, egli sta parlando della cessazione della mente in generale, così quelle parole potrebbero significare che la mente cesserà parzialmente o che essa cesserà completamente. La misura in cui essa cessa dipende dalla misura in cui il respiro è trattenuto.

Ugualmente in questo verso le parole ஒடுக்க வளியை ஒடுங்கும் உளத்தை ( oḍukka vaḷiyai oḍuṅgum uḷattai), che significano ‘la mente che sprofonda [o diviene calma] quando [uno] trattiene il respiro’, potrebbero essere interpretate in uno dei due modi. ஒடுக்க வளியை ( oḍukka vaḷiyai) significa ‘quando [uno] trattiene il respiro’; ஒடுங்கும் ( oḍuṅgum) è una forma di participio relativo di ஒடுங்கு ( oḍuṅgu), così in questo contesto significa ‘che sprofonda’ o ‘che diviene calma’; e உளத்தை ( uḷattai) è una forma accusativa di உளம் ( uḷam) o உள்ளம் ( uḷḷam), che in questo contesto significa ‘mente’. Tuttavia, poiché lo sprofondamento o calma può essere parziale o completo, ஒடுங்கும் ( oḍuṅgum) potrebbe essere interpretato qui con il significato di essere sprofondato parzialmente in uno stato di calma relativa o essere sprofondato completamente in laya, così ஒடுக்க வளியை ஒடுங்கும் உளத்தை ( oḍukka vaḷiyai oḍuṅgum uḷattai) potrebbe significare ‘la mente, che diviene [relativamente] calma quando [uno] trattiene il respiro’ o ‘la mente, che sprofonda [completamente ma solo temporaneamente in laya] quando [uno] trattiene il respiro’.

Comunque in questo contesto la prima interpretazione è più appropriata della seconda, perché la mente ovviamente non può fare alcuno sforzo quando è sprofondata in laya, così se interpretassimo queste parole con il secondo significato, esse comporterebbero che si dovrebbe spingere la mente sul ‘sentiero investigante’ (ōr vaṙi) o prima che essa sprofondi in laya o dopo che è sorta da laya. Se, d’altra parte, le interpretiamo secondo il primo significato, esse comporterebbero che quando la mente è divenuta relativamente calma come risultato del trattenimento del respiro, dovremmo fare uso di quella calma cercando di essere consapevoli soltanto di noi stessi, ad esclusione di ogni altra cosa.

Cercare di essere consapevoli soltanto di noi stessi in questo modo è ciò che si intende con ‘spingere la mente sul ஓர் வழி ( ōr vaṙi) o ‘sentiero investigante’. Qui வழி ( vaṙi) significa un sentiero, una via o un mezzo, e ஓர் ( ōr) può essere interpretato in uno dei due modo o in entrambi, perché è sia la radice di un verbo che significa investigare, esaminare, osservare attentamente o conoscere, sia un aggettivo che significa ‘solo’ ‘unico’ o ‘speciale’. Nel primo senso di investigare, esaminare o osservare attentamente, ஓர் ( ōr) è usato qui come participio relativo invece del più usuale ஓரும் ( ōrum), così in questo senso significa ‘investigante’ o ‘in cui [si] investiga’. Nel secondo senso ஓர் ( ōr) è generalmente usato solo prima di un nome che inizia con una vocale (come l’articolo indefinito ‘un’ in Inglese) mentre ஒரு ( oru) è usato prima di un nome che inizia con una consonante. Quindi ஓர் வழி ( ōr vaṙi) può significare ஓரும் வழி ( ōrum vaṙi), il ‘sentiero investigante’, il ‘sentiero in cui [si] investiga’ o il ‘sentiero di investigazione’, o ஒரு வழி ( oru vaṙi), ‘il solo sentiero’, ‘l’unico sentiero’ o ‘il sentiero speciale’.

In qualunque di questi due sensi interpretiamo il significato di ஓர் வழி ( ōr vaṙi), ciò che queste parole indicano è solo il sentiero di auto-investigazione ( ātma-vicāra), perché come Bhagavan ha spiegato frequentemente in una quantità di modo differenti, il nostro ego o mente cesserà di esistere solo per mezzo dell’auto-investigazione. Se prendiamo ஓர் வழி ( ōr vaṙi) nel significato di ஓரும் வழி ( ōrum vaṙi), il ‘sentiero investigante’ o ‘sentiero di investigazione’, esso significa il sentiero di auto-investigazione perché egli spesso ha detto che ciò che dovremmo investigare è solo noi stessi e non qualsiasi altra cosa. Ugualmente, se lo prendiamo nel significato di ஒரு வழி ( oru vaṙi), ‘il solo sentiero’ o ‘l’unico sentiero’, esso significa il sentiero di auto-investigazione perché egli spesso ha detto che l’auto-investigazione è il solo mezzo con cui possiamo annientare la nostra mente.

விடுக்கவே ( viḍukkavē) è una forma intensificata di விடுக்க ( viḍukka), che è la forma infinita di விடு ( viḍu), che in questo contesto significa lasciare, rilasciare, spingere, spedire o scaricare (come una freccia), e poiché l’infinito è usato qui come un avverbio condizionale, விடுக்க ( viḍukka) significa ‘quando [si] spinge [rilascia, spedisce o scarica]’, e il suffisso intensificante ஏ ( ē) significa ‘solo’. Quindi ஒடுங்கும் உளத்தை விடுக்கவே ஓர் வழி ( oḍuṅgum uḷattai viḍukkavē) significa ‘solo quando [si] spinge la mente che sprofonda sul sentiero di investigazione’.

Ciò che accade quando la mente è spinta sul sentiero di auto-investigazione è espresso nella frase finale, வீயும் அதன் உரு ( vīyum adaṉ uru), in cui வீயும் ( vīyum) è la forma futura di terza persona singolare neutra del verbo வீ ( ), che significa cessare, perire, morire o scomparire, così questa frase finale significa ‘la sua forma cesserà [perirà o morirà]’. Così il significato essenziale di questo verso è che benché la nostra mente possa sprofondare (o parzialmente in uno stato di relativa calma o completamente ma in modo impermanente in uno stato di laya) quando tratteniamo il nostro respiro, la sua forma perirà solo se la dirigiamo sul sentiero di auto-investigazione ( ātma-vicāra).

5. Upadēśa Sāram verso 14: il significato di ēka-cintanā

Ignorando il fatto che ஓர் வழி ( ōr vaṙi) significa non solo ‘unico sentiero’ ma anche ‘sentiero investigante’, alcune persone affermano che ciò che Bhagavan intende con ஓர் வழி ( ōr vaṙi) è un sentiero qualsiasi, e per supportare la loro affermazione citano la versione Sanscrita di questo verso, in cui egli ha tradotto ஓர் வழி ( ōr vaṙi) come एक चिन्तना ( ēka-cintanā), che essi interpretano nel significato di un pensiero qualsiasi. Tuttavia in questo contesto, piuttosto che interpretare एक चिन्तना ( ēka-cintanā) nel significato di ‘solo pensiero’, è più appropriato interpretarlo nel significato di ‘pensare all'uno’, in cui ‘l'uno’ ( ēka) indica l’unica cosa che sola è reale, che secondo Bhagavan è solo noi stessi, come dichiara enfaticamente nella prima frase del settimo paragrafo di Nāṉ Yār?:
யதார்த்தமா யுள்ளது ஆத்மசொரூப மொன்றே. [...]

yathārtham-āy uḷḷadu ātma-sorūpam oṉḏṟē. [...]

Ciò che realmente esiste è solo ātma-svarūpa [il nostro sé essenziale]. [...]
Secondo questa interpretazione, एकचिन्तना ( ēka-cintanā) significa semplicemente आत्मचिन्तना ( ātma-cintanā) o ஆன்மசிந்தனை ( āṉma-cintaṉai) – ‘pensare a se stesso’, ‘meditare su se stesso’, ‘auto-meditazione’ o ‘auto-attentività’ – che porta alla mente le parole di apertura della prima frase del tredicesimo paragrafo di Nāṉ Yār?, in cui Bhagavan dice:
ஆன்மசிந்தனையைத் தவிர வேறு சிந்தனை கிளம்புவதற்குச் சற்று மிடங்கொடாமல் ஆத்மநிஷ்டாபரனா யிருப்பதே தன்னை ஈசனுக் களிப்பதாம். [...]

āṉma-cintaṉaiyai-t tavira vēṟu cintaṉai kiḷambuvadaṯku-c caṯṟum iḍam-koḍāmal ātma-niṣṭhā-paraṉ-āy iruppadē taṉṉai īśaṉukku aḷippadām. [...]

Solo essere completamente assorbiti in ātma-niṣṭhā [auto-dimora], non dando il minimo spazio al sorgere di ogni pensiero diverso da ātma-cintanā [auto-contemplazione o ‘pensiero di se stessi’], è dare se stessi a Dio. […]
La proposizione di apertura di questa frase,‘ஆன்மசிந்தனையைத் தவிர வேறு சிந்தனை கிளம்புவதற்குச் சற்று மிடங்கொடாமல்’ ( āṉma-cintaṉaiyai-t tavira vēṟu cintaṉai kiḷambuvadaṯku-c caṯṟum iḍam-koḍāmal), che significa ‘non dando il minimo spazio al sorgere di ogni cintanā [pensiero] diverso da ātma-cintanā [pensiero di se stessi]’, è un modo molto forte di dire che dovremmo dimorare solo in ātma-cintanā e non in qualsiasi altro anche minimo cintanā, ed egli dice questo non solo nel contesto dell’auto-investigazione ma anche nel contesto del completo auto-abbandono. Quindi alla luce di questa definizione dell’auto-abbandono chiara, semplice e non ambigua, sembra ragionevole dedurre che nel contesto del verso 14 di Upadēśa Sāram (il suo adattamento Sanscrito di Upadēśa Undiyār) ciò che Bhagavan intendeva con il termine एकचिन्तना ( ēka-cintanā) era solo आत्मचिन्तना ( ātma-cintanā) e non ogni altro चिन्तना ( cintanā).

Tuttavia, poiché non possiamo dare noi stessi completamente a Dio mentre ancora manteniamo la nostra mente, e poiché se la nostra mente è annientata non esisteremo più come qualcosa di separato o distinto da Dio, ciò che Bhagavan descrive nella frase suddetta come ‘தன்னை ஈசனுக்கு அளிப்பது’ ( taṉṉai īśaṉukku aḷippadu), che significa ‘dare se stessi a Dio’, non è altro che lo stato di manōnāśa (annientamento della mente, che è ciò che egli dice che raggiungeremo per mezzo di एकचिन्तना (ēka-cintanā) nel verso 14 di Upadēśa Sāram. Questa è quindi un’altra buona ragione per dedurre che ciò che intende con एकचिन्तना ( ēka-cintanā) è solo आत्मचिन्तना ( ātma-cintanā) e non qualsiasi altro pensiero.

Ciò che egli dice nel verso 14 di Upadēśa Sāram è:
प्राण बन्धना ल्लीन मानसम् ।

एक चिन्तना न्नाश मेत्यदः ॥

prāṇa bandhanā llīna mānasam ēka cintanā nnāśa mētyadaḥ.

पदच्छेद: प्राण बन्धनात् लीन मानसम् एक चिन्तनात् नाशम् एति अदः.

Padacchēda (separazione delle parole): prāṇa bandhanāt līna mānasam ēka-cintanāt nāśam ēti adaḥ.

Traduzione: La mente che è calmata trattenendo il prāṇa otterrà [o raggiungerà] l’annientamento per mezzo del pensiero dell’uno.
Tra i devoti di Bhagavan, le opinioni sono divise tra coloro che credono che ciò che Bhagavan intendeva con ஓர் வழி ( ōr vaṙi) e con एक चिन्तना ( ēka-cintanā) è solo l’unico sentiero di auto-investigazione ( ātma-vicāra), in cui si osserva o si ‘pensa a’ nient’altro che a se stessi, e coloro che credono che egli intendeva un qualsiasi sentiero o un qualsiasi pensiero. Preso isolatamente dal resto dei suoi insegnamenti, questo verso non fornisce prove sufficienti per dimostrare quale di queste due interpretazioni alternative è quella che egli intendeva realmente, ma se consideriamo il significato di questo verso nel contesto dei suoi insegnamenti principali, è molto chiaro che solo la prima interpretazione è corretta, perché egli ha enfatizzato ripetutamente in così tanti modi che qualunque altro sentiero spirituale si possa seguire, infine il proprio ego o mente sarà annientato solo da ātma-vicāra.

6. Può il nostro ego essere annientato con qualche mezzo diverso dall’auto-investigazione?

La questione se il nostro ego o mente può essere annientato da qualche mezzo diverso dall’auto-investigazione arriva proprio al cuore degli insegnamenti di Bhagavan. Se ciò che egli intendeva con i termini ஓர் வழி ( ōr vaṙi) e एक चिन्तना ( ēka-cintanā) era non solo il sentiero di auto-investigazione ( ātma-vicāra), questo significherebbe che nel verso 14 di Upadēśa Undiyār e di Upadēśa Sāram egli stava insegnando che la nostra mente può essere annientata da altri mezzi e che per noi non è quindi essenziale investigare chi o cosa siamo realmente. Quindi la questione riguardo a quello che intendeva con questi termini è davvero cruciale per ognuno di noi che aspiriamo a seguire i suoi insegnamenti.

In molti punti nei suoi scritti originali Bhagavan indica chiaramente che l’auto-investigazione è il solo mezzo con cui il nostro ego o mente può essere annientato, e anche quando non dice esplicitamente che è il solo mezzo, indica che è almeno il mezzo principale. Per esempio, proprio nel primo paragrafo di Nāṉ Yār? (che non fu parte delle risposte che egli diede originariamente a Sivaprakasam Pillai, ma fu aggiunta da lui spontaneamente quando adattò le sue risposte alla forma della versione di saggio) ci sono esattamente due frasi, nella prima delle quali egli spiega diverse ragioni per cui, per ottenere felicità permanente, è necessario che conosciamo noi stessi, e nella seconda delle quali ha scritto:
அதற்கு நானார் என்னும் ஞான விசாரமே முக்கிய சாதனம்.

adaṯku nāṉār eṉṉum jñāṉa-vicāram-ē mukkhiya sādhaṉam.

Per questo, solo jñāna-vicāra [conoscenza-investigazione] ‘chi sono io’ è il mezzo principale.
La parte che ho evidenziato qui è stata stampata in grassetto dalle prime edizioni di questa versione di saggio, e ciò indica che Bhagavan ha voluto enfatizzare in modo particolare queste parole. Le parole முக்கிய சாதனம் ( mukkhiya sādhaṉam) sono una composizione Tamil per le parole Sanscrite मुख्य साधन ( mukhya sādhana), che significano il mezzo primario, principale, primo, migliore o più importante. Benché in questa frase egli non dice esplicitamente che l’auto-investigazione è il solo mezzo, dicendo che è il più importante vuole dire che è necessario e che non possiamo conoscere noi stessi se non investighiamo ciò che siamo.

Tuttavia in altre frasi di Nāṉ Yār? egli indica più esplicitamente che esso è realmente il solo mezzo. Per esempio, nelle prime due frasi dell’ottavo paragrafo dice:
மனம் அடங்குவதற்கு விசாரணையைத் தவிர வேறு தகுந்த உபாயங்களில்லை. மற்ற உபாயங்களினால் அடக்கினால் மனம் அடங்கினாற்போ லிருந்து, மறுபடியும் கிளம்பிவிடும். […]

maṉam aḍaṅguvadaṯku vicāraṇaiyai-t tavira vēṟu tahunda upāyaṅgaḷ-illai. maṯṟa upāyaṅgaḷiṉāl aḍakkiṉāl maṉam aḍaṅgiṉāl-pōl irundu, maṟupaḍiyum kiḷambi-viḍum. […]

Per far cessare la mente [permanentemente], non ci sono mezzi adeguati oltre che vicāraṇā [auto-investigazione]. Se trattenuta con altri mezzi, la mente rimarrà come se fosse quietata, [ma] emergerà nuovamente.
Nella prima di queste due frasi, le parole di apertura மனம் அடங்குவதற்கு ( maṉam aḍaṅguvadaṯku) significano letteralmente ‘per far cessare la mente’, che se preso in isolamento potrebbe significare per farla tranquillizzare o calmare o per farla cessare o in laya (uno stato simile al sonno di letargia temporanea) o in nāśa (annientamento), ma quando Bhagavan dice nella frase successiva che se la mente è fatta quietare con qualche altro mezzo rimarrà come se fosse cessata ma sorgerà nuovamente, possiamo dedurre che ciò che egli intende con queste parole மனம் அடங்குவதற்கு ( maṉam aḍaṅguvadaṯku) è per far cessare permanentemente la mente in nāśa. Quindi ciò che egli vuole dire chiaramente qui è che tranne l’auto-investigazione ( ātma-vicāraṇā) non ci sono mezzi adeguati con cui possiamo annientare la nostra mente.

La proposizione principale di questa prima frase è ‘விசாரணையைத் தவிர வேறு தகுந்த உபாயங்களில்லை’ ( vicāraṇaiyai-t tavira vēṟu tahunda upāyaṅgaḷ-illai), che significa letteralmente, ‘tranne che vicāraṇā [auto-investigazione] non ci sono altri mezzi adeguati’, e in cui la parola தகுந்த ( tahunda) significa adeguato, appropriato o opportuno. Questo comporta che benché altri mezzi possono essere utili in qualche misura o fino a un certo punto, nessuno di essi è adeguato in se stesso, perché in definitiva l’ego o mente può essere annientato solo per mezzo dell’auto-investigazione ( ātma-vicāra).

Cioè, per far cessare la mente temporaneamente – completamente in laya o parzialmente in uno stato di calma relativa – altri mezzi come il prāṇāyāma possono essere adeguati, ma per farla cessare permanentemente in nāśa non ci sono mezzi adeguati tranne l’auto-investigazione. Se la mente è fatta cessare con qualsiasi altro mezzo, la sua cessazione sarà solo temporanea, perché prima o poi sorgerà nuovamente, come Bhagavan dice nella seconda frase di questo ottavo paragrafo. Quindi se il nostro fine è annientare la nostra mentre perché non sorga mai più, dobbiamo dirigerla sul sentiero di auto-investigazione, perché non ci sono altri mezzi con cui essa può essere annientata.

Bhagavan enfatizza questo anche nella prima frase del sesto paragrafo di Nāṉ Yār?:
நானார் என்னும் விசாரணையினாலேயே மன மடங்கும்.

nāṉ-ār eṉṉum vicāraṇaiyiṉālēyē maṉam aḍaṅgum.

Solo per mezzo dell’investigazione chi sono io la mente sprofonderà (o cesserà di esistere).
அடங்கும் ( aḍaṅgum) è la forma futura di terza persona singolare neutra di அடங்கு ( aḍaṅgu), che è un verbo intransitivo che ha una gamma di significati incluso sottoporsi, cedere, calmarsi, ritirarsi, essere sottomesso, essere immobile, scomparire o cessare, ma qui nuovamente (come nella prima frase dell’ottavo paragrafo citato sopra) ciò che Bhagavan intende con அடங்கும் ( aḍaṅgum) è ‘cesserà di esistere’ o ‘sprofonderà permanentemente [in nāśa]’ piuttosto che solo ‘diverrà calmo’ o ‘sprofonderà temporaneamente [nello stato simile al sonno di laya]’.

Se egli avesse detto in questa frase ‘நானார் என்னும் விசாரணையினால் மன மடங்கும்’ ( nāṉ-ār eṉṉum vicāraṇaiyiṉāl maṉam aḍaṅgum), ciò avrebbe significato semplicemente, ‘Per [mezzo de] l’investigazione chi sono io la mente sprofonderà [o cesserà di esistere]’, ma sulla parola விசாரணையினால் ( vicāraṇaiyiṉāl), che significa ‘per mezzo dell’investigazione’, egli appose il suffisso intensificativo ஏ ( ē) non solo una volta ma due, che è un modo molto forte di enfatizzarlo, così la parola risultante விசாரணையினாலேயே ( vicāraṇaiyiṉāl-ē-y-ē) significa ‘solo per mezzo dell’investigazione’. Così in questa frase egli indica molto chiaramente ed enfaticamente che l’ego o mente può essere annientato solo per mezzo dell’auto-investigazione.

Nello stesso modo nel sedicesimo paragrafo di Nāṉ Yār? ha scritto:
[...] முக்தி யடைவதற்கு மனத்தை யடக்க வேண்டும் [...] மனத்தை யடக்குவதற்குத் தன்னை யாரென்று விசாரிக்க வேண்டுமே [...]

[...] mukti y-aḍaivadaṯku maṉattai y-aḍakka vēṇḍum [...] maṉattai y-aḍakkuvadaṯku-t taṉṉai yār eṉḏṟu vicārikka vēṇḍum-ē [...]

[...] per ottenere mukti [liberazione] è necessario far sprofondare la mente […] Per far sprofondare la mente è necessario investigare se stessi [per sperimentare] chi [si è realmente] […]
Come abbiamo visto precedentemente (nella seconda sezione), அடக்கு ( aḍakku) è un verso transitivo e causativo che ha una gamma di significati incluso trattenere, controllare o dominare, ma in questo contesto significa far sprofondare o più specificatamente distruggere o annientare, perché la liberazione ( mukti) è un altro nome per lo stato di manōnāśa (annientamento della mente), così qui Bhagavan indica che per annientare la nostra mente è necessario investigare noi stessi.

La nostra necessità di investigare noi stessi è ugualmente enfatizzata da lui in molte altre frasi di Nāṉ Yār?. Per esempio, nel sesto paragrafo dice:
பிற வெண்ணங்க ளெழுந்தா லவற்றைப் பூர்த்தி பண்ணுவதற்கு எத்தனியாமல் அவை யாருக் குண்டாயின என்று விசாரிக்க வேண்டும்.

piṟa v-eṇṇaṅgaḷ eṙundāl avaṯṟai-p pūrtti paṇṇuvadaṯku ettaṉiyāmal avai yārukku uṇḍāyiṉa eṉḏṟu vicārikka vēṇḍum.

Se altri pensieri sorgono, senza cercare di completarli è necessario investigare a chi si sono presentati.
Nel decimo paragrafo dice:
அத்தனை வாசனைகளு மொடுங்கி, சொரூபமாத்திரமா யிருக்க முடியுமா வென்னும் சந்தேக நினைவுக்கு மிடங்கொடாமல், சொரூபத்யானத்தை விடாப்பிடியாய்ப் பிடிக்க வேண்டும்.

attaṉai vāsaṉaigaḷum oḍuṅgi, sorūpa-māttiram-āy irukka muḍiyumā v-eṉṉum sandēha niṉaivukkum iḍam koḍāmal, sorūpa-dhyāṉattai viḍā-p-piḍiyāy-p piḍikka vēṇḍum.

Senza dare anche il minimo spazio al pensiero dubitante ‘E’ possibile dissolvere così tante vāsanā e rimanere solo come svarūpa [il mio sé essenziale]?’ E’ necessario aggrapparsi tenacemente a svarūpa-dhyāna [auto-contemplazione o auto-attentività].
Nella prima frase dell’undicesimo paragrafo dice:
மனத்தின்கண் எதுவரையில் விஷயவாசனைக ளிருக்கின்றனவோ, அதுவரையில் நானா ரென்னும் விசாரணையும் வேண்டும்.

maṉattiṉgaṇ edu-varaiyil viṣaya-vāsaṉaigaḷ irukkiṉḏṟaṉavō, adu-varaiyil nāṉ-ār eṉṉum vicāraṇai-y-um vēṇḍum.

Finché viṣaya-vāsanā [propensioni, inclinazioni, impulsi o desideri a sperimentare qualsiasi cosa diversa da noi stessi] esistono nella mente, fino ad allora l’investigazione chi sono io è necessaria.
E nella frase successiva dice:
நினைவுகள் தோன்றத் தோன்ற அப்போதைக்கப்போதே அவைகளையெல்லாம் உற்பத்திஸ்தானத்திலேயே விசாரணையால் நசிப்பிக்க வேண்டும்.

niṉaivugaḷ tōṉḏṟa-t tōṉḏṟa appōdaikkappōdē avaigaḷai-y-ellām uṯpatti-sthāṉattilēyē vicāraṇaiyāl naśippikka vēṇḍum.

Come e quando sorgono pensieri, allora e lì è necessario annientarli tutti per mezzo di vicāraṇā [auto-investigazione] proprio nel luogo da cui sorgono.
In Tamil una frase o una proposizione termina generalmente con il suo verbo principale, così il verbo principale di ciascuna delle quattro frasi citate sopra è வேண்டும் ( vēṇḍum), che significa ‘è necessario’, ‘è richiesto’ o ‘è indispensabile’. Nel contesto individuale in cui si presenta ciascuna di queste frasi, lo scopo per cui ciascuna delle cose richieste è detta necessaria è chiaro, ma c’è un qualche scopo singolo e definitivo per cui esse sono tutte necessarie?

Nel contesto di Nāṉ Yār?, di cui Bhagavan concluse proprio la prima frase dicendo ‘தன்னைத் தானறிதல் வேண்டும்’ ( taṉṉai-t tāṉ aṟidal vēṇḍum), che significa ‘è necessario che se stesso conosca se stesso’, e che nella seconda frase ha poi detto, அதற்கு நானார் என்னும் ஞான விசாரமே முக்கிய சாதனம்’ ( adaṯku nāṉār eṉṉum jñāṉa-vicāram-ē mukkhiya sādhaṉam), che significa ‘Per quello, solo jñāna-vicāra [conoscenza-investigazione] ‘chi sono io’ è il mezzo principale’, l’implicazione in ciascuna di queste quattro frasi (e anche in alcune altre frasi o proposizioni in questo testo che terminano con வேண்டும் ) è che il solo scopo definitivo per cui ciascuna delle dette cose è necessaria è solo per conoscere noi stessi. Cioè, per conoscere noi stessi è necessario investigare a chi si presenta ogni pensiero, aggrapparci tenacemente all’auto-attentività senza dare il minimo spazio al sorgere di qualche dubbio riguardo la nostra capacità di riuscire, di perseverare nella nostra auto-investigazione e quindi di annientare ogni pensiero proprio nel luogo dal quale esso sorge.

Il tema generale non solo di queste quattro frasi ma di tutto Nāṉ Yār? è che per conoscere noi stessi (cioè, per sperimentare noi stessi come siamo realmente) dobbiamo investigare chi o cosa siamo realmente, perché non c’è altro mezzo adeguato con cui possiamo distruggere l’illusione di essere questo ego o mente. Quindi se studiamo con attenzione questo testo e riflettiamo sul suo significato, sembra molto chiaro che secondo Bhagavan il solo mezzo con cui possiamo sperimentare ciò che siamo realmente e quindi annientare il nostro ego o mente è l’auto-investigazione, e che dovremmo quindi dedurre che ciò che egli intendeva con i termini ஓர் வழி ( ōr vaṙi) e एक चिन्तना ( ēka-cintanā) nel verso 14 di Upadēśa Undiyār e Upadēśa Sāram è solo questo unico sentiero di auto-investigazione ( ātma-vicāra) o auto-contemplazione ( ātma-cintanā).

Come in Nāṉ Yār?, anche in Uḷḷadu Nāṟpadu il tema generale che scorre nel testo è il nostro bisogno di investigare noi stessi e quindi di sperimentarci come siamo realmente, e da molti dei versi possiamo dedurre che ciò che Bhagavan ci sta insegnando è che l’auto-investigazione è in definitiva il solo mezzo con cui possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente e quindi annientare il nostro ego. Due versi in cui egli rende questo concetto particolarmente chiaro sono il verso 22 e il verso 27, che ho citato e discusso in Uḷḷadu Nāṟpadu versi 22 e 27: tranne che con l’auto-investigazione, come possiamo sperimentare ciò che siamo realmente? (la decima sezione di L’ego è essenzialmente un fantasma senza forma e perciò senza caratteristiche), ma ci sono molti altri versi in Uḷḷadu Nāṟpadu dai quali possiamo dedurre questo.

L’auto-investigazione è anche il filo centrale che tiene insieme tutti i versi di Upadēśa Undiyār e anche di altri testi più piccoli come Ēkāṉma Pañcakam e Āṉma-Viddai. In Upadēśa Undiyār la serie di versi che discutono le pratiche di karma mārga (il sentiero dell’azione disinteressata) e di bhakti mārga (il sentiero della devozione), vale a dire dal verso 3 al verso 8, culminano con l’affermazione di Bhagavan nel verso 8 che ananya bhāva (meditazione su Dio come nient’altro che se stessi, che in effetti significa meditare soltanto su se stessi) è la più elevata o la migliore tra tutte queste pratiche, e la serie di versi che discutono la pratica del prāṇāyāma (che è una delle pratiche principali dello yōga mārga), vale a dire dal verso 11 al verso 14, culminano con l’affermazione di Bhagavan nel verso 14 che la mente morirà solo quando sarà spinta su ஓர் வழி ( ōr vaṙi), l’unico sentiero di auto-investigazione, e tutti i versi successivi discutono la pratica di auto-investigazione e il risultato di essa.

Anche nei suoi scritti più esplicitamente devozionali, vale a dire Śrī Aruṇācala Stuti Pañcakam, Bhagavan enfatizza frequentemente il bisogno di auto-investigazione, così se leggiamo tutti i suoi scritti originali con imparzialità è difficile evitare la conclusione che non considerava alcun altro mezzo come sufficiente in se stesso o senza l’auto-investigazione. Quindi quando dice nel verso 14 di Upadēśa Undiyār e Upadēśa Sāram che la mente sarà annientata solo da ஓர் வழி ( ōr vaṙi) o एक चिन्तना ( ēka-cintanā), sembra che non abbiamo opzioni tranne dedurre che ciò che intende con questi termini è solo l’auto-investigazione.

7. Può il nostro ego o mente essere annientato meditando su una forma o un nome?

Nella sezione precedente abbiamo considerato varie ragioni per cui dovremmo dedurre che ஓர் வழி ( ōr vaṙi) e एक चिन्तना ( ēka-cintanā) significano solo auto-investigazione, ma per assicurarci che non ci stiamo confondendo in questa deduzione, consideriamo altri mezzi con cui alcune persone credono che possiamo raggiungere il nostro fine ultimo di annientamento del nostro ego o mente. Abbiamo già visto che nella frase finale dell’ottavo paragrafo di Nāṉ Yār? Bhagavan ha concluso:
ஆகையால் பிராணாயாமம் மனத்தை யடக்க சகாயமாகுமே யன்றி மனோநாசஞ் செய்யாது.

āhaiyāl pirāṇāyāmam maṉattai y-aḍakka sahāyam-āhum-ē y-aṉḏṟi maṉōnāśam seyyādu.

Quindi il prāṇāyāma è solo un aiuto per trattenere la mente [o farla quietare temporaneamente], ma non determinerà manōnāśa [l’annientamento della mente].
Quindi egli fu molto esplicito e inequivoco nel dire che il prāṇāyāma non è un mezzo adeguato con cui possiamo causare o determinare l’annientamento della nostra mente o ego, ma cosa dire delle altre pratiche? Uno dei mezzi alternativi più popolare e ampiamente praticato è meditare con sincera devozione su una forma o un nome di Dio, così consideriamo se Bhagavan considerava o meno tale meditazione un mezzo adeguato per annientare la nostra mente.

7a. Nāṉ Yār? paragrafo 9

Immediatamente dopo aver concluso l’ottavo paragrafo di Nāṉ Yār? dicendo che il prāṇāyāma è solo un aiuto per trattenere la mente ma non determinerà il suo annientamento, egli ha iniziato il nono paragrafo dicendo:
பிரணாயாமம் போலவே மூர்த்தித்தியானம், மந்திரஜபம், ஆகார நியம மென்பவைகளும் மனத்தை அடக்கும் சகாயங்களே.

piraṇāyāmam pōla-v-ē mūrtti-d-dhiyāṉam, mantira-japam, āhāra niyamam eṉbavaigaḷum maṉattai aḍakkum sahāyaṅgaḷ-ē.

Proprio come il prāṇāyāma, mūrti-dhyāna [meditazione su una forma di Dio], mantra-japa [ripetizione di una parola sacra come un nome di Dio] e āhāra-niyama [restrizione della dieta, in modo particolare la restrizione di consumare solo cibo vegetariano] sono solo aiuti che trattengono la mente.
Benché Bhagavan non dica esplicitamente in questa frase che mūrti-dhyāna, mantra-japa o āhāra-niyama non determineranno l’annientamento della nostra mente, egli intende chiaramente questo nelle sue parole di apertura, ‘பிரணாயாமம் போலவே’ ( piraṇāyāmam pōla-v-ē), che significano ‘proprio come il prāṇāyāma’, perché immediatamente prima di queste parole aveva detto che il prāṇāyāma è solo un aiuto per trattenere la mente ma non determinerà il suo annientamento. Egli rende questa implicazione particolarmente chiara con l’uso del suffisso intensificativo ஏ ( ē), che ha apposto alle due parole cruciali, vale a dire போல ( pōla), che significa ‘come’, e சகாயங்கள் ( sahāyaṅgaḷ), che significa ‘aiuti’. Apposto alla prima parola, questo suffisso la enfatizza nel senso di ‘proprio come’, e apposto alla seconda, la enfatizza nel senso di ‘semplicemente aiuti’, ‘solo aiuti’ o ‘soltanto aiuti’. Prese insieme, queste due parole intensificate enfatizzano l’implicazione che mūrti-dhyāna, mantra-japa e āhāra-niyama sono solamente aiuti, proprio come il prāṇāyāma, e perciò come il prāṇāyāma non determineranno manōnāśa, l’annientamento della nostra mente.

7b. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 25

Dopo aver reso chiaro questo punto in questa prima frase del nono paragrafo, nel resto di quel paragrafo Bhagavan spiega come essi sono ciascuno un aiuto all’auto-investigazione, ma non spiega perché essi non possono determinare manōnāśa. Per trovare la sua spiegazione per questo, dobbiamo tornare a Uḷḷadu Nāṟpadu, in modo particolare ai versi 25 e 4. Nel verso 25 dice:
உருப்பற்றி யுண்டா முருப்பற்றி நிற்கு
முருப்பற்றி யுண்டுமிக வோங்கு — முருவிட்
டுருப்பற்றுந் தேடினா லோட்டம் பிடிக்கு
முருவற்ற பேயகந்தை யோர்.

uruppaṯṟi yuṇḍā muruppaṯṟi niṟku
muruppaṯṟi yuṇḍumiha vōṅgu — muruviṭ
ṭuruppaṯṟun tēḍiṉā lōṭṭam piḍikku
muruvaṯṟa pēyahandai yōr
.

பதச்சேதம்: உரு பற்றி உண்டாம்; உரு பற்றி நிற்கும்; உரு பற்றி உண்டு மிக ஓங்கும்; உரு விட்டு, உரு பற்றும்; தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும், உரு அற்ற பேய் அகந்தை. ஓர்.

Padacchēdam (separazione delle parole): uru paṯṟi uṇḍām; uru paṯṟi niṯkum; uru paṯṟi uṇḍu miha ōṅgum; uru viṭṭu, uru paṯṟum; tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum, uru aṯṟa pēy ahandai. ōr.

அன்வயம்: உரு அற்ற பேய் அகந்தை உரு பற்றி உண்டாம்; உரு பற்றி நிற்கும்; உரு பற்றி உண்டு மிக ஓங்கும்; உரு விட்டு, உரு பற்றும்; தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும். ஓர்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): uru aṯṟa pēy ahandai uru paṯṟi uṇḍām; uru paṯṟi niṯkum; uru paṯṟi uṇḍu miha ōṅgum; uru viṭṭu, uru paṯṟum; tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum. ōr.

Traduzione: Afferrando la forma, l’ego-fantasma senza forma ha origine; afferrando la forma si regge; afferrando e nutrendosi di forma cresce [si diffonde, si espande, aumenta, sorge o fiorisce] abbondantemente; lasciando [una] forma, afferra [un’altra] forma. Se cercato [esaminato o investigato], prende il volo. Investiga [o conosci questo].
Poiché Bhagavan descrive l’ego in questo verso come உருவற்ற ( uru-v-aṯṟa), che significa ‘senza forma’, possiamo dedurre che ciò a cui si riferisce con la parola உரு ( uru), che significa ‘forma’, è qualcosa diversa da questo ego senza forma. In questo senso una mūrti (una forma di Dio), un nāma (un nome di Dio) o qualche altro mantra (sillaba sacra, parola o frase) sono ciascuna una ‘forma’, perché sono qualcosa diversa dall’ego senza forma, e la forma di ciascuna di esse è ciò che la distingue da questo ego e da ogni altra cosa.

Quindi quando Bhagavan dice in questo verso, ‘உரு பற்றி உண்டு மிக ஓங்கும்’ ( uru paṯṟi uṇḍu miha ōṅgum), che significa ‘afferrando e nutrendosi di forma esso [l’ego] cresce [si espande, aumenta o fiorisce] abbondantemente’, egli intende che anche meditando su una forma o un nome di Dio stiamo nutrendo e sostenendo il nostro ego. Tuttavia, non dovremmo dedurre da questo che egli considerava tale meditazione dannosa o anche inutile, perché come intende dal verso 3 al verso 7 di Upadēśa Undiyār, se meditiamo su una forma o un nome di Dio con sincera devozione e senza alcuna motivazione egoistica, questo purificherà la nostra mente e ci aiuterà a riconoscere che possiamo in definitiva ottenere la liberazione o conoscere Dio come è realmente solo per mezzo dell’auto-investigazione.

Quindi ciò che dovremmo dedurre dal verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu è solo che non importa quanto la nostra mente e il nostro cuore possono essere purificati dalla meditazione su una forma o un nome di Dio con devozione che scioglie il cuore, non possiamo liberarci del nostro ego finché continuiamo ad aggrapparci a quella forma o nome. In definitiva per perdere il nostro ego e quindi fonderci completamente in Dio dobbiamo abbandonare tutte le forme e i nomi rivolgendo la nostra mente all’interno per sperimentare soltanto noi stessi, come Bhagavan ci insegna enfaticamente e inequivocabilmente nel verso 22 di Uḷḷadu Nāṟpadu, e come intende anche nella prima frase del tredicesimo paragrafo di Nāṉ Yār? (che ho citato sopra nella quinta sezione).

Poiché ogni cosa diversa da noi stessi è una forma, e poiché noi sorgiamo, ci reggiamo e prosperiamo come questo ego solo afferrando la forma, ne consegue che il solo mezzo con cui possiamo annientare questo ego è cercare di afferrare o sperimentare soltanto noi stessi. Questo è il motivo per cui Bhagavan conclude tutto ciò che dice riguardo la natura di questo ego nel verso 25 dicendo, ‘தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும்’ ( tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum), che significa ‘Se cercato [esaminato o investigato], esso prenderà il volo’. Benché egli non dice esplicitamente in questo verso che possiamo annientare questo ego solo con l’auto-investigazione, questo è ciò che intende chiaramente, perché se siamo senza forma e ogni altra cosa è una forma, abbiamo solo due opzioni, meditare sul nostro sé senza forma o meditare su una forma, e se scegliamo la seconda stiamo quindi alimentando e nutrendo il nostro ego, mentre se scegliamo la prima, il nostro ego ‘prenderà il volo’, essendo nient’altro che un fantasma illusorio e senza sostanza.

7c. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 4

Il fatto che non possiamo liberare noi stessi dal nostro ego o arrendere noi stessi interamente a Dio finché continuiamo ad aggrapparci a qualche forma, sia anche una forma di Dio, è anche chiaramente inteso da Bhagavan nel verso 4 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
உருவந்தா னாயி னுலகுபர மற்றா
முருவந்தா னன்றே லுவற்றி — னுருவத்தைக்
கண்ணுறுதல் யாவனெவன் கண்ணலாற் காட்சியுண்டோ
கண்ணதுதா னந்தமிலாக் கண்.

uruvandā ṉāyi ṉulahupara maṯṟā
muruvandā ṉaṉḏṟē luvaṯṟi — ṉuruvattaik
kaṇṇuṟudal yāvaṉevaṉ kaṇṇalāṯ kāṭciyuṇḍō
kaṇṇadutā ṉantamilāk kaṇ
.

பதச்சேதம்: உருவம் தான் ஆயின், உலகு பரம் அற்று ஆம்; உருவம் தான் அன்றேல், உவற்றின் உருவத்தை கண் உறுதல் யாவன்? எவன்? கண் அலால் காட்சி உண்டோ? கண் அது தான் அந்தம் இலா கண்.

Padacchēdam (separazione delle parole): uruvam tāṉ āyiṉ, ulahu param aṯṟu ām; uruvam tāṉ aṉḏṟēl, uvaṯṟiṉ uruvattai kaṇ uṟudal yāvaṉ? evaṉ? kaṇ alāl kāṭci uṇḍō? kaṇ adu tāṉ antam-ilā kaṇ.

அன்வயம்: தான் உருவம் ஆயின், உலகு பரம் அற்று ஆம்; தான் உருவம் அன்றேல், உவற்றின் உருவத்தை யாவன் கண் உறுதல்? எவன்? கண் அலால் காட்சி உண்டோ? கண் அது தான் அந்தம் இலா கண்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): tāṉ uruvam āyiṉ, ulahu param aṯṟu ām; tāṉ uruvam aṉḏṟēl, uvaṯṟiṉ uruvattai yāvaṉ kaṇ uṟudal? evaṉ? kaṇ alāl kāṭci uṇḍō? kaṇ adu tāṉ antam-ilā kaṇ.

Traduzione: Se il se stesso è una forma, il mondo e Dio lo saranno ugualmente; se il se stesso non è una forma, chi può vedere le loro forme, e come [farlo]? Può ciò che è visto essere diverso [in natura] dall’occhio [che lo vede]? L’occhio [reale] è se stesso, l’occhio infinito.
Ho discusso nel dettaglio il significato di questo verso in Ciò che siamo realmente non è il testimone (sākṣin) o il veggente (dṛś) di ogni cosa (l’ottava sezione di Dṛg-dṛśya-vivēka : distinguere colui che vede da ciò che è visto ), così non lo analizzerò qui di nuovo, tranne sottolineare che ciò che Bhagavan dice qui è che possiamo concepire o sperimentare Dio come una forma solo finché ci sperimentiamo come una forma, perché quando sperimentiamo noi stessi come la consapevolezza infinita e quindi senza forma o ‘occhio’ che siamo realmente, non sperimenteremo alcuna forma o qualsiasi cosa diversa da noi stessi, come egli intende chiaramente quando chiede, , ‘உருவம் தான் அன்றேல், உவற்றின் உருவத்தை கண் உறுதல் யாவன்? எவன்?’ ( uruvam tāṉ aṉḏṟēl, uvaṯṟiṉ uruvattai kaṇ uṟudal yāvaṉ? evaṉ?), che significa: ‘Se il se stesso non è una forma, chi può vedere le loro forme, e come [farlo]?’. La ‘forma’ reale o natura di Dio è senza forma, perché non è nient’altro che அந்தமிலாக் கண் ( antam-ilā-k kaṇ) o ‘occhio infinito’, che è ciò che noi stessi siamo realmente, così possiamo fonderci e divenire uno con Dio solo quando abbandoniamo tutte le forme, incluso la nostra forma e qualsiasi sua forma.

Quando Bhagavan dice nella proposizione di apertura di questo verso ‘உருவம் தான் ஆயின்’ ( uruvam tāṉ āyiṉ), che significa ‘se il se stesso è una forma’, ciò che intende quindi è ‘se sperimentiamo noi stessi come l’ego’, perché come dice nel verso 25 sorgiamo come questo ego solo afferrando la forma, e la prima forma che afferriamo è qualunque corpo che al momento sperimentiamo come noi stessi. Quindi ciò che intende in questo verso è che ciò che sperimenta ogni forma è solo il nostro ego, e perciò possiamo concludere che finché meditiamo su qualche forma o nome di Dio, non possiamo arrendere il nostro ego completamente a lui. Per arrendere il nostro ego e quindi fonderci in lui, dobbiamo abbandonare tutte le forme e cercare di essere consapevoli soltanto di noi stessi.

7d. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 20

Questo è anche inteso chiaramente da lui nei versi 8, 20 e 22 di Uḷḷadu Nāṟpadu. Mi sono già riferito al verso 22 in due contesti precedenti, così non lo discuterò qui ulteriormente, ma invece considererò solo i versi 8 e 20. Nel verso 20 egli dice:
காணுந் தனைவிட்டுத் தான்கடவு ளைக்காணல்
காணு மனோமயமாங் காட்சிதனைக் — காணுமவன்
றான்கடவுள் கண்டானாந் தன்முதலைத் தான்முதல்போய்த்
தான்கடவு ளன்றியில தால்.

kāṇun taṉaiviṭṭut tāṉkaḍavu ḷaikkāṇal
kāṇu maṉōmayamāṅ kāṭcitaṉaik — kāṇumavaṉ
ḏṟāṉkaḍavuḷ kaṇḍāṉān taṉmudalait tāṉmudalpōyt
tāṉkaḍavu ḷaṉḏṟiyila dāl
.

பதச்சேதம்:: காணும் தனை விட்டு, தான் கடவுளை காணல் காணும் மனோமயம் ஆம் காட்சி. தனை காணும் அவன் தான் கடவுள் கண்டான் ஆம், தன் முதலை, தான் முதல் போய், தான் கடவுள் அன்றி இலதால்.

Padacchēdam (separazione delle parole): kāṇum taṉai viṭṭu, tāṉ kaḍavuḷai kāṇal kāṇum maṉōmayam ām kāṭci. taṉai kāṇum avaṉ-tāṉ kaḍavuḷ kaṇḍāṉ ām, taṉ mudalai, tāṉ mudal pōy, tāṉ kaḍavuḷ aṉḏṟi iladāl.

அன்வயம்: காணும் தனை விட்டு, தான் கடவுளை காணல் காணும் மனோமயம் ஆம் காட்சி. தான் முதல் போய், தான் கடவுள் அன்றி இலதால், தன் முதலை, தனை காணும் அவன் தான் கடவுள் கண்டான் ஆம்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): kāṇum taṉai viṭṭu, tāṉ kaḍavuḷai kāṇal kāṇum maṉōmayam ām kāṭci. tāṉ mudal pōy, tāṉ kaḍavuḷ aṉḏṟi iladāl, taṉ mudalai, taṉai kāṇum avaṉ-tāṉ kaḍavuḷ kaṇḍāṉ ām.

Traduzione: Dimenticando il se stesso, che vede, il vedere Dio da parte di se stesso è vedere una visione mentale. Solo uno che vede se stesso, la base di se stesso, è uno che ha visto Dio, perché essendo andato il se stesso, la radice, se stesso non è altro che Dio.

Traduzione parafrasata: Trascurando [ignorando o non investigando] se stesso, colui che vede, il vedere Dio da parte di se stesso è vedere una visione mentale [un’immagine, un fenomeno o un’apparenza]. Solo uno che vede se stesso, la base del proprio ego, è uno che ha visto Dio, perché quando il proprio ego, la radice [di tutte le cose], è andato, se stesso non è altro che Dio.
In questo verso Bhagavan usa la parola தான் ( tāṉ) e due delle sue forme derivate – vale a dire la sua base flessiva தன் ( taṉ) e la sua forma di caso accusativo தனை ( taṉai), che è una contrazione poetica di தன்னை ( taṉṉai) – per un totale di sette volte, ma non sempre esattamente nello stesso senso, così la chiave per comprendere correttamente questo verso è comprendere il senso in cui egli usa questa parola in ciascun caso. Nel caso in cui essa viene immediatamente dopo il pronome அவன் ( avaṉ) non è realmente una parola separata ma un suffisso intensificativo usato nel senso di ‘solo’. Benché அவன் ( avaṉ) significa letteralmente ‘egli’, è usata qui come un pronome generico e non come un pronome di genere specifico, così l’ho tradotta con il pronome generico Inglese ‘uno’, e quindi ho tradotto அவன் தான் ( avaṉ-tāṉ), o அவன்றான் ( avaṉḏṟāṉ) come diventa nella parola composta, come ‘solo uno’. In tutti gli altri casi தான் ( tāṉ) e i suoi derivati sono usati nel senso di ‘se stesso’, o come un pronome generico o come un pronome riflessivo, ma in qualche caso esso si riferisce a noi stessi come siamo realmente mentre in altri casi si riferisce a noi stessi come questo ego. Nella prima frase தனை ( taṉai) e தான் ( tāṉ) si riferiscono entrambe a noi stessi come questo ego, perché è solo come tale che vediamo qualsiasi cosa diversa da noi stessi. Nella seconda frase, tuttavia, esso si riferisce a noi stessi come questo ego in solo due casi, come ho indicato nella traduzione parafrasata, mentre negli altri due casi si riferisce a noi stessi come siamo realmente.

Le parole di apertura di questo verso, ‘காணும் தனை விட்டு’ ( kāṇum taṉai viṭṭu), significano letteralmente dimenticare, omettere o lasciar andare il se stesso che vede, che in questo contesto comporta ignorare, trascurare o non investigare se stesso. L’implicazione di questa prima frase è che prima di cercare di vedere Dio dovremmo prima cercare di vedere ciò che noi stessi siamo realmente, perché ciò che siamo realmente non è nient’altro che il Dio che cerchiamo di vedere, come Bhagavan indica nella seconda frase.

Nella proposizione principale di questa prima frase காட்சி ( kāṭci) significa una vista, uno sguardo, una visione, un’apparenza, un fenomeno o qualsiasi cosa che è vista; மனோமயம் ( maṉōmayam) è una forma Tamil del termine Sanscrito मनोमय ( manōmaya), che significa ‘consistente di mente’, ‘composto di mente’ o ‘fatto di mente’ (perché in Sanscrito il suffisso – maya significa consistente, composto o fatto di); e ஆம் ( ām) è un participio relativo che significa ‘che è’; così மனோமயமாம் காட்சி ( maṉōmayam-ām kāṭci) significa letteralmente ‘una vista [o apparenza visiva] che è composta di mente’, e in effetti significa ‘un fenomeno mentale’. La ragione per cui Bhagavan dice che vedere Dio senza vedere se stesso è solo vedere ‘una visione composta di mente’ è che se non vediamo ciò che siamo realmente, qualsiasi cosa vediamo come Dio sarà solo una forma , e tutte le forme sono create solo dalla nostra mente o ego, come egli intende nel verso 26 di Uḷḷadu Nāṟpadu, in cui dice, ‘Se l’ego ha origine, ogni cosa ha origine; se l’ego non esiste, ogni cosa non esiste. [Quindi] l’ego è ogni cosa. […]’. Il nostro ego o mente è quindi l’unica sostanza di cui è fatta ogni cosa diversa da noi stessi, così proprio come questo intero mondo è una மனோமயமாம் காட்சி ( maṉōmayam-ām kāṭci) o ‘visione composta di mente’, lo è anche ogni forma di Dio che possiamo vedere.

Così la prima frase di questo verso comporta che vedere Dio come una forma (cioè, come qualcosa separata da noi) non è vederlo come è realmente, così nella frase successiva Bhagavan definisce cos’è vedere Dio come è realmente. Il significato essenziale di questa seconda frase è: ‘Solo uno che vede se stesso è uno che ha visto Dio, perché se stesso non è altro che Dio’ (தனை காணும் அவன் தான் கடவுள் கண்டான் ஆம், தான் கடவுள் அன்றி இலதால்: taṉai kāṇum avaṉ-tāṉ kaḍavuḷ kaṇḍāṉ ām, tāṉ kaḍavuḷ aṉḏṟi iladāl). Tuttavia ci sono due altre frasi in questo verso che rendono il suo significato più intricato, vale a dire ‘தன் முதலை’ ( taṉ mudalai) e ‘தான் முதல் போய்’ ( tāṉ mudal pōy). தன் முதலை ( taṉ mudalai) significa l’origine, la base o il fondamento di se stesso (come l’ego), e si riferisce a தனை ( taṉai), la parola iniziale di questa frase, quindi indicando che in questo contesto தனை ( taṉai) significa noi stessi come siamo realmente. Nella proposizione தான் முதல் போய் ( tāṉ mudal pōy), தான் ( tāṉ) significa noi stessi come l’ego, முதல் ( mudal) significa sia ‘il primo’ (nel senso della prima cosa a sorgere) sia ‘la radice’ (nel senso della radice di tutte le altre cose), e போய் ( pōy) è un participio verbale che significa ‘andare’ o ‘essendo andato’, così questa proposizione significa ‘se stesso [l’ego], il primo [o la radice], essendo andato’ e significa ‘dopo che il proprio ego è stato distrutto’.

Così l’implicazione di questa seconda frase è che il solo modo in cui possiamo ‘vedere’ o sperimentare Dio come è realmente, è vedere noi stessi come siamo realmente, perché in assenza del nostro ego non siamo nient’altro che Dio. Quindi finché sperimentiamo noi stessi come questo ego, non possiamo vedere Dio come è realmente, ma possiamo vederlo solo come una forma, che sarebbe solamente una visione creata dalla mente o ‘una visione composta di mente’.

Quando vedremo noi stessi come siamo realmente, non sperimenteremo più noi stessi come questo ego o come qualche forma, così non saremo in grado di vedere Dio come una forma, perché le forme esistono solo nella visione di noi stessi come questo ego. Quindi finché meditiamo su qualche forma o nome di Dio, stiamo mantenendo il nostro ego, e perciò non possiamo sperimentare Dio come è realmente.

7e. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 8

Questo è anche inteso da Bhagavan nel verso 8 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
எப்பெயரிட் டெவ்வுருவி லேத்தினுமார் பேருருவி
லப்பொருளைக் காண்வழிய தாயினுமம் — மெய்ப்பொருளி
னுண்மையிற்ற னுண்மையினை யோர்ந்தொடுங்கி யொன்றுதலே
யுண்மையிற் காண லுணர்.

eppeyariṭ ṭevvuruvi lēttiṉumār pēruruvi
lapporuḷaik kāṇvaṙiya dāyiṉumam — meypporuḷi
ṉuṇmaiyiṯṟa ṉuṇmaiyiṉai yōrndoḍuṅgi yoṉḏṟudalē
yuṇmaiyiṯ kāṇa luṇar
.

பதச்சேதம்: எப் பெயர் இட்டு எவ் வுருவில் ஏத்தினும் ஆர், பேர் உருவில் அப் பொருளை காண் வழி அது. ஆயினும், அம் மெய்ப் பொருளின் உண்மையில் தன் உண்மையினை ஓர்ந்து, ஒடுங்கி ஒன்றுதலே உண்மையில் காணல். உணர்.

Padacchēdam (separazione delle parole): e-p-peyar iṭṭu e-vv-uruvil ēttiṉum ār, pēr-uruvil a-p-poruḷai kāṇ vaṙi adu. āyiṉum, a-m-mey-p-poruḷiṉ uṇmaiyil taṉ uṇmaiyiṉai ōrndu, oḍuṅgi oṉḏṟudal-ē uṇmaiyil kāṇal. uṇar.

அன்வயம்: ஆர் எப் பெயர் இட்டு எவ் வுருவில் ஏத்தினும், அது அப் பொருளைப் பேர் உருவில் காண் வழி. ஆயினும், தன் உண்மையினை ஓர்ந்து, அம் மெய்ப் பொருளின் உண்மையில் ஒடுங்கி ஒன்றுதலே உண்மையில் காணல். உணர்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): ār e-p-peyar iṭṭu e-vv-uruvil ēttiṉum, adu a-p-poruḷai pēr-uruvil kāṇ vaṙi. āyiṉum, taṉ uṇmaiyiṉai ōrndu, a-m-mey-p-poruḷiṉ uṇmaiyil oḍuṅgi oṉḏṟudal-ē uṇmaiyil kāṇal. uṇar.

Traduzione: Chiunque adora in qualunque forma dando qualunque nome, quello è il modo di vedere [senza nome e senza forma] quella sostanza [l’assoluta realtà o Dio] in nome e forma. Tuttavia, solo conoscere la realtà di se stesso e [quindi] sprofondare e divenire uno con la realtà di quella vera sostanza è vedere la realtà. Sappi.
La parola che Bhagavan usa qui per riferirsi a Dio è பொருள் ( poruḷ), che è un equivalente Tamil della parola Sanscrita वस्तु ( vastu) e che può significare ogni entità o cosa ma in questo contesto significa specificatamente sostanza, essenza, realtà o ciò che esiste realmente. Nella seconda metà del verso 7 egli aveva definito ciò che è questa பொருள் ( poruḷ) o sostanza reale dicendo, ‘உலகு அறிவு தோன்றி மறைதற்கு இடன் ஆய் தோன்றி மறையாது ஒளிரும் பூன்றம் ஆம் அஃதே பொருள்’ ( ulahu aṟivu tōṉḏṟi maṟaidaṟku iḍaṉ āy tōṉḏṟi maṟaiyādu oḷirum pūṉḏṟam ām aḵdē poruḷ), che significa, ‘Solo ciò che risplende senza comparire o scomparire come la base per la comparsa e la scomparsa della mente e del mondo è poruḷ [la sostanza reale], che è pūrṇa [il tutto infinito]’, così in questo contesto பொருள் ( poruḷ) significa l’unica realtà infinita, che esiste indipendentemente dalla nostra mente o da ogni forma conosciuta da questa mente, e quindi è sia senza forma che senza nome.

Tuttavia, benché è senza nome e senza forma, è possibile attribuire ad essa un nome e una forma e adorare o meditare su di essa come tale, e se lo facciamo, questo è il modo o mezzo con cui possiamo vederla in nome e forma, come Bhagavan dice nella prima frase del verso 8. Tuttavia nella seconda frase egli indica che vederla in questo modo non è ‘vedere in realtà’, perché in qualsiasi forma può appare non è ciò che è veramente. Poiché è il fondamento senza nome e senza forma, la sorgente e la sostanza di tutto ciò che sembra esistere, incluso il nostro ego o mente, egli dice che possiamo vederlo come è realmente solo essendo uno con esso, e lo possiamo essere solo sprofondando e fondendoci in esso vedendo ciò che noi stessi siamo realmente.

Nella prima frase di questo verso le parole பேருருவில் ( pēr-uruvil) possono significare ‘in nome e forma’ o ‘senza nome e senza forma’, perché la sillaba finale இல் ( il) è sia suffisso di caso locativo sia una forma abbreviata di இல்லாத ( illāda), che significa ‘che è privo di’ o ‘che è senza’. Tuttavia in questo contesto il significato principale di பேருருவில் ( pēr-uruvil) è solo ‘in nome e forma’, e ‘senza nome e senza forma’ è solo un significato secondario, perché il punto principale che Bhagavan rende in questa prima frase è che adorare la realtà in nome e forma è un mezzo per vederla solo in nome e forma e non ‘in realtà’ o come è realmente. Egli rende chiaro che questa è la sua intenzione iniziando la seconda frase con la locuzione avverbiale di contrasto ஆயினும் ( āyiṉum), che significa ‘tuttavia’, e continuando a dire che solo sprofondare e fondersi o divenire un con essa è ‘vedere in realtà’. La parola che egli usa per indicare fondersi o divenire uno è il sostantivo verbale ஒன்றுதலே ( oṉḏṟudal-ē), in cui la sillaba finale ஏ ( ē) è un suffisso intensificativo che significa ‘solo’ o ‘solamente’, che implica chiaramente che il vedere descritto nella prima frase non è ‘vedere in realtà’, in modo particolare quando letto in congiunzione con l’avverbiale di contrasto ஆயினும் ( āyiṉum) o ‘tuttavia’, che serve come collegamento logico tra queste due frasi.

Benché il contrasto tra queste due frasi è espresso così enfaticamente da sembrare ovvio, e benché esso chiaramente significa che ciò che Bhagavan intendeva con ‘பேர் உருவில் அப் பொருளை காண் வழி அது’ ( pēr-uruvil a-p-poruḷai kāṇ vaṙi adu) è solo ‘quello è il modo di vedere quella poruḷ in nome e forma’, alcuni traduttori in qualche modo non sono riusciti a riconoscere questo, e quindi hanno tradotto பேருருவில் ( pēr-uruvil) solo come ‘senza nome e senza forma’, quindi mancando il punto centrale che Bhagavan stava enfatizzando in questa prima frase. Per esempio, la traduzione di questo verso data nelle maggiori edizioni di The Collected Works of Ramana Maharshi è: ‘Sotto qualunque nome o forma noi lo adoriamo, Esso ci conduce alla conoscenza dell’Assoluto senza nome e senza forma. Nondimeno, vedere il proprio vero Sé nell’Assoluto, sprofondare in Esso ed essere uno con Esso, questa è la vera Conoscenza della Verità’.

La ragione per cui adorare Dio o la realtà assoluta in nome e forma è un mezzo per vederla solo in nome e forma è che finché ci aggrappiamo a qualche forma stiamo mantenendo il nostro ego, e finché manteniamo il nostro ego non possiamo sperimentare noi stessi come la realtà senza nome e senza forma che siamo realmente, e quindi non possiamo sperimentare Dio come la realtà senza nome e senza forma che è realmente. Questo punto è inteso chiaramente da Bhagavan sia nel verso 25 che nel verso 4 di Uḷḷadu Nāṟpadu, e diviene anche più chiaro se leggiamo questi due versi insieme. Quindi se leggiamo il verso 8 con questi due versi, sembra ovvio che ciò che egli intendeva con ‘பேர் உருவில் அப் பொருளை காண் வழி அது’ ( pēr-uruvil a-p-poruḷai kāṇ vaṙi adu) è solo ‘quello è il modo di vedere quella poruḷ in nome e forma’.

Quindi considerando ciò che Bhagavan ha detto nella prima frase del nono paragrafo di Nāṉ Yār? e in questi versi di Uḷḷadu Nāṟpadu, è chiaro che egli non considerava il meditare su un nome o una forma di Dio sufficiente come un mezzo per determinare l’annientamento della nostra mente o ego. Anche se meditiamo su un nome o una forma di Dio con un amore così intenso da essere in grado di avere visioni di lui in quel nome e quella forma, questo non è vederlo come egli è realmente ma è solo vedere una மனோமயமாம் காட்சி ( maṉōmayam-ām kāṭci), una ‘visione composta di mente’ o un ‘fenomeno mentale’, così per annientare la nostra mente o arrendere interamente noi stessi a lui dobbiamo prima o poi abbandonare la meditazione su un nome o una forma e dobbiamo invece meditare soltanto su noi stessi.

Quindi è chiaro da tutti i versi di Uḷḷadu Nāṟpadu e dai brani di Nāṉ Yār? che abbiamo considerto in questo articolo che quando Bhagavan dice nel verso 14 di Upadēśa Undiyār e Upadēśa Sāram che la mente sarà annientata solo per mezzo di ஓர் வழி ( ōr vaṙi) o एक चिन्तना ( ēka-cintanā), ciò che egli intende con questi termini è solo l’auto-investigazione.

8. E’ sbagliato dire che l’auto-investigazione è il solo mezzo con cui la mente può essere annientata?

Nelle due precedenti sezioni ho discusso per esteso che secondo Bhagavan il solo mezzo con cui la mente può essere annientata è l’auto-investigazione ( ātma-vicāra), ma alcune persone sentono sbagliato dire che l’auto-investigazione o qualche altra pratica è il solo modo, come può essere visto da alcuni dei punti di vista espressi nel commenti ad uno dei miei articoli recenti, Per comprendere l’essenza degli insegnamenti di Sri Ramana, abbiamo bisogno di studiare attentamente i suoi scritti originali, così è necessario chiarire esattamente ciò che egli intendeva quando ha insegnato che l’auto-investigazione è il solo modo.

Innanzitutto, egli certamente non ha insegnato che altre pratiche non sono d’aiuto in qualche modo, perché come abbiamo visto sopra nell’ottavo e nono paragrafo di Nāṉ Yār? egli ha detto che benché altri metodi come prāṇāyāma, mūrti-dhyāna e mantra-japa non possono determinare l’annientamento della nostra mente ( manōnāśa), sono aiuti per trattenerla o farla quietare, e dal verso 4 al verso 8 di Upadēśa Undiyār ha classificato le varie pratiche di bhakti in ordine ascendente secondo la loro efficacia nel purificare la mente. Tuttavia egli ha insegnato che benché possiamo seguire qualsiasi altro sentiero spirituale, prima o poi dobbiamo investigare chi sta seguendo questi sentieri, perché se non investighiamo noi stessi non saremo in grado di ottenere il fine ultimo, che è sperimentare noi stessi come siamo realmente e quindi distruggere la nostra illusione fondamentale di essere questo ego o mente.

Quando discutiamo l’efficacia di altre pratiche relative a quella dell’auto-investigazione, prima abbiamo bisogno di aver chiaro qual è il nostro fine. Quando le persone parlano di altri sentieri come sufficienti a raggiungere il fine, il loro fine può non essere lo stesso che abbiamo noi, perché le persone hanno molte convinzioni differenti riguardo ciò che è il fine ultimo della pratica spirituale, così quello che alcune persone prendono come il fine ultimo può effettivamente essere solo un fine intermedio sul sentiero del fine ultimo, che secondo Bhagavan è quello di sperimentare noi stessi come siamo realmente.

Bhagavan non solo ha insegnato che questo è il fine ultimo, ma ha anche spiegato chiaramente perché esso lo è. Tuttavia non è un fine che attrae tutti gli aspiranti spirituali, perché per raggiungerlo dobbiamo pagare un prezzo, che è l’annientamento di noi stessi come l’ego che ora sembriamo essere, così molti aspiranti spirituali rifiutano l’idea che questo sia il fine ultimo, e aspirano invece a qualche altro fine, che quelli di noi che aspirano a seguire il sentiero insegnato da Bhagavan possono considerare solo come intermedio. Quindi se qualcuno afferma, per esempio, che la bhakti è il solo modo per ottenere il fine, o che cantare il nome di Dio è la più elevata delle pratiche spirituali, il suo fine può essere qualcosa di diverso dal completo annientamento dell’ego (o se tali affermazioni fossero fatte da un saggio, sarebbero presumibilmente fatte solo per il bene di coloro che aspirano solo a un tale fine minore).

Quindi dispute riguardo quale sia la pratica migliore o più adatta spesso risultano essere fondate su dispute riguardo quale sia il fine o lo scopo migliore o più adatto. Poiché le persone sostengono molte convinzioni differenti riguardo quale sia il vero fine o intento della vita umana, adottano diversi mezzi per raggiungere qualunque cosa essi credono sia il fine corretto, e questo è il motivo per cui sono diffusi così tanti tipi diversi di pratiche spirituali e religiose. Quindi prima di decidere quale pratica adotteremo, abbiamo bisogno di decidere qual è il nostro fine.

Se siamo convinti dagli insegnamenti di Bhagavan, decideremo che il nostro fine è solo sperimentare noi stessi come siamo realmente, e accetteremo che il prezzo che dobbiamo pagare per questo è l’annientamento del nostro ego e mente, perché non possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente finché ci sperimentiamo come questo ego o mente. Cioè, il nostro ego è la radice o essenza della nostra mente (come Bhagavan ci insegna nel verso 18 di Upadēśa Undiyār) e non è nient’altro che noi stessi, che sembriamo essere ciò che non siamo, così quando sperimentiamo noi stessi come siamo realmente il nostro ego sarà annientato insieme con il resto della nostra mente.

Una volta che abbiamo deciso che il nostro fine è solo sperimentare noi stessi come siamo realmente, e se abbiamo compreso chiaramente perché questo solo dovrebbe essere il nostro fine e perché il prezzo per esso deve essere l’annientamento del nostro ego e mente, ci sarà anche chiara la ragione per cui l’auto-investigazione è in definitiva il solo mezzo con cui possiamo ottenere questo fine. Cioè, per sperimentare ciò che siamo realmente, quello che abbiamo bisogno di investigare è solo noi stessi e non qualsiasi altra cosa.

Se qualcuno dubita o disputa su questo, quello che dobbiamo sottolineare loro è che il problema non è quello di decidere tra diverse tecniche o pratiche in competizione ma solo di decidere in quale direzione dobbiamo guardare per vedere ciò che aspiriamo di vedere. Se ciò che aspiriamo di vedere è solo ciò che siamo realmente, è ovvio che quello che dobbiamo guardare è solo noi stessi e non qualsiasi altra cosa.

Finché crediamo di aver bisogno di guardare qualsiasi altra cosa, o che guardare qualche altra cosa può anche essere un mezzo per vedere quello che vogliamo vedere, ovviamente non abbiamo compreso chiaramente cos’è che abbiamo bisogno di vedere. Possiamo guardare qualunque altra cosa, ma se il nostro fine è solo vedere noi stessi, è ovvio che prima o poi dovremo guardare solo noi stessi, e guardare solo noi stessi è ciò che è chiamato ātma-vicāra o auto-investigazione.

Dunque c’è una chiara connessione logica tra il nostro fine (vale a dire sperimentare noi stessi come siamo realmente) e il mezzo con cui possiamo ottenerlo (vale a dire investigare o osservare molto attentamente noi stessi), al punto che è ovvio che il nostro fine non può essere possibilmente ottenuto con ogni altro mezzo. Altri mezzi possono essere aiuti indiretti, ma nessuno di essi può essere in se stesso adeguato, perché a meno che essi ci spingano a guardare noi stessi accuratamente e molto attentamente, essi non possono aiutarci a vedere ciò che siamo realmente. Quindi in definitiva l’auto-investigazione deve essere il solo mezzo con cui possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente.

Perciò quando Bhagavan ci insegna che il solo modo in cui possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente e dunque annientare il nostro ego e mente è praticare l’auto-investigazione – cioè, cercare di vedere o di essere consapevoli soltanto di noi stessi – che è non solo perfettamente ragionevole e logico, ma anche indiscutibile, perché se non guardiamo noi stessi non saremo mai in grado di vedere ciò che siamo realmente. Altre pratiche possono essere utili ed efficaci per altri scopi, come purificare o pulire la nostra mente dalle sue impurità più grossolane (cioè, i suoi desideri e attaccamenti più grossolani), ma se il nostro fine è liberare completamente noi stessi da questa mente, dobbiamo prima o poi investigare noi stessi – chi sono io che ora sembro essere questa mente – perché se non guardiamo noi stessi non saremo in grado di vederci come siamo realmente, e se non vediamo ciò che siamo realmente la nostra mente non sarà annientata.

9. Il prāṇāyāma non è sufficiente né necessario

Nelle tre sezioni precedenti ho divagato lontano dal nostro argomento originale, che è l’efficacia del prāṇāyāma, ma ho fatto questo per stabilire che quello che Bhagavan intendeva con il termine ஓர் வழி ( ōr vaṙi) nel verso 14 di Upadēśa Undiyār e con il termine corrispondente एक चिन्तना ( ēka-cintanā) nel verso 14 di Upadēśa Sāram era solo auto-investigazione e non qualche altro sentiero o pratica. Sperando di aver considerato ragioni sufficienti per noi tutti per accettare che questa interpretazione è quella corretta, ritorniamo ora al soggetto del prāṇāyāma.

Come abbiamo visto, nella frase finale dell’ottavo paragrafo di Nāṉ Yār? Bhagavan ha stabilito inequivocabilmente che il prāṇāyāma è solo un aiuto ma non determinerà l’annientamento della nostra mente ( manōnāśa), così non è chiaramente un mezzo sufficiente per permetterci di ottenere il nostro fine, ma ciò che ora abbiamo bisogno di considerare è se esso è o meno un aiuto necessario. Iniziamo la nostra considerazione di questo interrogativo ritornando ancora una volta al verso 14 di Upadēśa Undiyār, in cui Bhagavan ha detto: ‘Solo quando [uno] spinge la mente, che diviene calma quando [uno] trattiene il respiro, sull’investigante sentiero la sua forma perirà’. Ciò che egli indica in questo verso riguardo il prāṇāyāma (trattenimento del respiro) è che esso può essere un aiuto all’auto-investigazione essendo un mezzo con cui possiamo rendere la nostra mente relativamente calma, così il nostro interrogativo può essere ora diviso in due parti: è un aiuto realmente necessario per calmare la nostra mente, e se così è il prāṇāyāma l’aiuto più adatto per questo intento?

Un aiuto per calmare la nostra mente sarebbe necessario solo se l’auto-investigazione non potesse rendere la nostra mente sufficientemente calma. Ovviamente per andare in profondità all’interno di noi stessi per sperimentarci come siamo realmente la nostra mente ha bisogno di essere perfettamente calma, ma essa non può divenire perfettamente calma se non andiamo in profondità all’interno di noi. Attendere che la nostra mente divenga perfettamente calma prima di cercare di rivolgere la nostra attenzione verso noi stessi sarebbe come attendere che la superficie dell’oceano divenga perfettamente calma prima di immergerci in esso per trovare la perla che giace nelle sue profondità – questo non succederà mai, perché la natura della superficie dell’oceano è quella di essere costantemente in movimento e quindi di creare le onde. Ugualmente la natura della nostra mente è quella di essere costantemente in movimento e di produrre pensieri, così finché essa non sprofonda completamente non diventerà perfettamente calma.

Le onde disturbano la superficie dell’oceano e l’acqua più vicino alla superficie, ma se ci immergiamo sufficientemente in profondità nell’oceano scopriremo che lì esso è relativamente indisturbato dalle onde della sua superficie o dall’agitazione vicino alla sua superficie. Ugualmente, più penetriamo in profondità all’interno di noi stessi, meno saremo disturbati da qualche pensiero o agitazione. Nel sonno andiamo in profondità all’interno di noi, così in quel momento non siamo disturbati da alcun pensiero fino a che la nostra mente sorge nuovamente nella veglia o nel sogno, ma poiché non entriamo nel sonno con auto-attentività, la nostra mente non è annientata. Per annientare la nostra mente abbiamo bisogno di andare in profondità all’interno di noi con auto-attentività.

I pensieri sono prodotti solo quando diamo attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi, così ciò che chiamiamo pensieri sono realmente solo l’attenzione che paghiamo a qualsiasi cosa diversa da noi stessi. Quindi il modo più efficace di calmare la nostra mente è quello di cercare di essere esclusivamente auto-attentivi. Quando diamo attenzione soltanto a noi stessi, la nostra attenzione rimane come pura auto-consapevolezza, che è ciò che siamo realmente, così essa diviene pensieri solo quando diamo attenzione ad altre cose.

Secondo Bhagavan, qualsiasi cosa che sperimentiamo diversa da noi stessi è solo un pensiero, perché quando egli usa le parole Tamil che significano pensiero o idea, come நினைவு ( niṉaivu) o எண்ணம் ( eṇṇam), ciò che intende è ogni tipo di fenomeno mentale, e ogni cosa che sperimentiamo diversa da noi stessi è solo un fenomeno mentale. Questo è il motivo per cui egli ha spesso detto (per esempio nel quarto e quattordicesimo paragrafo di Nāṉ Yār?) che il mondo non è nient’altro che pensieri. Poiché il nostro corpo e il respiro sono parte di questo mondo, essi sono anche solo pensieri, così se pratichiamo prāṇāyāma o meditiamo su qualsiasi cosa diversa da noi stessi stiamo dando attenzione ai pensieri, e quindi non stiamo penetrando in profondità all’interno di noi. Quindi qualunque calma possiamo raggiungere praticando prāṇāyāma o meditando su qualsiasi cosa diversa da noi stessi è solo una calma parziale o relativa, così è solo dando attenzione soltanto a noi stessi che possiamo sperimentare la calma perfetta.

Anche per rendere la nostra mente parzialmente o relativamente calma, il mezzo più efficace è quello di cercare di dare attenzione soltanto a noi stessi. Naturalmente la nostra mente si ribellerà quando cercheremo di farlo, perché essa comprende intuitivamente che se riusciamo anche per un momento, essa sarà distrutta dalla risultante perfetta chiarezza di pura auto-consapevolezza. Tuttavia, non importa se la nostra mente si ribella, a condizione che continuiamo a cercare ripetutamente di dare attenzione soltanto a noi stessi. Anche se non riusciamo perfettamente (che nessuno di noi ha ancora fatto, perché se lo avessimo fatto non sperimenteremmo più qualcosa diversa dall’infinita e immutabile auto-consapevolezza), il nostro sforzo di farlo è proficuo, perché ogni momento di auto-attentività parziale indebolirà gradualmente le nostre viṣaya-vāsanā (i nostri desideri di sperimentare qualcosa diversa da noi stessi) e rinforza la nostra sat-vāsanā (il nostro amore solo per essere, sperimentando niente altro che noi stessi), così esso ci porta un passo più vicino al nostro fine.

Anche se calmassimo la nostra mente per mezzo del prāṇāyāma o della meditazione su qualsiasi cosa diversa da noi stessi e cercassimo allora di essere auto-attentivi, la nostra mente si ribellerebbe tanto quanto lo farebbe se non si fosse calmata con tali mezzi, perché la forza della sua ribellione è determinata dalla forza delle nostre viṣaya-vāsanā. Poiché le nostre viṣaya-vāsanā causano la ribellione della nostra mente, la sua ribellione può essere effettivamente contrapposta solo dalla nostra sat-vāsanā, che è ciò che è chiamata svātma-bhakti o amore per il nostro sé. Quindi la misura in cui riusciamo nel nostro sforzo di essere esclusivamente auto-attentivi – cioè, essere consapevoli soltanto di noi stessi, escludendo tutta la consapevolezza di qualsiasi altra cosa – è determinata solo dalla forza della nostra bhakti o amore di sperimentare soltanto noi stessi e la nostra corrispondente vairāgya o libertà dal desiderio di sperimentare qualsiasi altra cosa, e queste bhakti e vairāgya possono essere coltivate e rinforzate solo dai nostri tentativi persistenti di essere il più possibile auto-attentivi.

Quindi se cerchiamo sinceramente di essere il più possibile auto-attentivi, nessun altro aiuto è necessario. Qualunque beneficio possiamo ottenere praticando prāṇāyāma o meditando su qualsiasi cosa diversa da noi stessi lo otterremo più velocemente ed efficacemente cercando di essere auto-attentivi. Anche un piccolo sforzo di essere auto-attentivi vale di più di qualunque sforzo possiamo fare per praticare prāṇāyāma o per meditare su qualsiasi altra cosa.

Questo è il motivo per cui Bhagavan non ha mai spontaneamente consigliato la pratica del prāṇāyāma. Ciò che ha scritto dal verso 11 al verso 14 di Upadēśa Undiyār era solo per il beneficio di coloro che già stavano praticando prāṇāyāma, e per tali persone l’insegnamento più importante che egli ha dato in quei versi è quello che dice nel verso 14, vale a dire che essi dovrebbero utilizzare la calma relativa che raggiungono per mezzo del prāṇāyāma come una condizione favorevole per cercare di spingere la loro mente su questo impareggiabile sentiero di auto-investigazione.

Se qualcuno che non si era già addestrato nella pratica del prāṇāyāma avesse detto a Bhagavan di volerlo praticare per calmare la propria mente in modo da poter praticare poi la pratica di essere auto-attentivi, egli avrebbe dato generalmente il consiglio che questo non era necessario, perché sarebbe stato sufficiente cercare di essere auto-attentivi senza confidare in alcun altro aiuto. Tuttavia, se costui si fosse ostinato a dire di voler praticare il prāṇāyāma perché altrimenti la sua mente sarebbe stata troppo agitate per praticare auto-investigazione, egli avrebbe detto qualche volta che gli elaborati esercizi del prāṇāyāma non erano necessari, perché avrebbe potuto avere lo stesso beneficio semplicemente osservando il movimento naturale del respiro.

Il motivo per cui egli suggeriva questo è che se osserviamo il nostro respiro senza cercare di trattenerlo in qualche modo, questo avrà un effetto calmante sulla nostra mente, e allora possiamo seguire il consiglio che ha dato nel verso 14 di Upadēśa Undiyār, vale a dire di riportare la nostra mente sul sentiero dell’auto-investigazione. Tuttavia, egli spesso era solito dire che anche osservare il respiro non è necessario, perché il modo più efficace per calmare la nostra mente è cercare di essere auto-attentivi, e ha spiegato che il problema nell’osservare il respiro o nel confidare su qualche altro aiuto è che una volta che abbiamo abituato la nostra mente a dare attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi, quando cerchiamo di dare attenzione a noi stessi la nostra attenzione tenderà a ritornare alla nostra respirazione o a qualsiasi altra cosa su cui siamo abituati a meditare.

Quindi secondo Bhagavan il prāṇāyāma non è sufficiente né necessario, mentre l’auto-investigazione ( ātma-vicāra) è sia necessaria che sufficiente, come dice, per esempio, nell’undicesimo paragrafo di Nāṉ Yār?. Nelle prime due frasi di quel paragrafo egli dice che è necessario:
மனத்தின்கண் எதுவரையில் விஷயவாசனைக ளிருக்கின்றனவோ, அதுவரையில் நானா ரென்னும் விசாரணையும் வேண்டும். நினைவுகள் தோன்றத் தோன்ற அப்போதைக்கப்போதே அவைகளையெல்லாம் உற்பத்திஸ்தானத்திலேயே விசாரணையால் நசிப்பிக்க வேண்டும்.

maṉattiṉgaṇ edu-varaiyil viṣaya-vāsaṉaigaḷ irukkiṉḏṟaṉavō, adu-varaiyil nāṉ-ār eṉṉum vicāraṇai-y-um vēṇḍum. niṉaivugaḷ tōṉḏṟa-t tōṉḏṟa appōdaikkappōdē avaigaḷai-y-ellām uṯpatti-sthāṉattilēyē vicāraṇaiyāl naśippikka vēṇḍum.

Finché nella mente esistono viṣaya-vāsanā [propensioni, inclinazioni, impulsi o desideri a sperimentare qualsiasi cosa diversa da noi stessi], fino ad allora l’investigazione chi sono io è necessaria. Come e quando sorgono i pensieri, allora e lì è necessario annientarli tutti per mezzo di vicāraṇā [auto-investigazione] proprio nel luogo dal quale sorgono.
E in una frase successiva egli dice anche che è sufficiente:
ஒருவன் தான் சொரூபத்தை யடையும் வரையில் நிரந்தர சொரூப ஸ்மரணையைக் கைப்பற்றுவானாயின் அதுவொன்றே போதும்.

oruvaṉ tāṉ sorūpattai y-aḍaiyum varaiyil nirantara sorūpa-smaraṇaiyai-k kai-p-paṯṟuvāṉ-āyiṉ adu-v-oṉḏṟē pōdum.

Se ci si aggrappa fermamente all’ininterrotto svarūpa-smaraṇa [auto-ricordo] finché si ottiene svarūpa [il proprio sé essenziale], quello solo sarà sufficiente.
Quando egli dice che solo l’auto-investigazione è sufficiente, questo significa che niente altro è necessario se cerchiamo con persistenza di essere auto-attentivi, così questa è un’ulteriore prova che egli non considerava necessario il prāṇāyāma o ogni altra pratica.

10. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 28: il calmarsi del respiro è un effetto dell’auto-investigazione

Quando diciamo che secondo Bhagavan il prāṇāyāma non solo è insufficiente ma è anche non necessario, alcune persone obiettano, discutendo che nel verso 28 di Uḷḷadu Nāṟpadu egli sembra voler dire che è necessario. Ciò che egli dice realmente in quel verso è:
எழும்பு மகந்தை யெழுமிடத்தை நீரில்
விழுந்த பொருள்காண வேண்டி — முழுகுதல்போற்
கூர்ந்தமதி யாற்பேச்சு மூச்சடக்கிக் கொண்டுள்ளே
யாழ்ந்தறிய வேண்டு மறி.

eṙumbu mahandai yeṙumiḍattai nīril
viṙunda poruḷkāṇa vēṇḍi — muṙuhudalpōṯ
kūrndamati yāṯpēccu mūccaḍakkik koṇḍuḷḷē
yāṙndaṟiya vēṇḍu maṟi
.

பதச்சேதம்: எழும்பும் அகந்தை எழும் இடத்தை, நீரில் விழுந்த பொருள் காண வேண்டி முழுகுதல் போல், கூர்ந்த மதியால் பேச்சு மூச்சு அடக்கிக் கொண்டு உள்ளே ஆழ்ந்து அறிய வேண்டும். அறி.

Padacchēdam (separazione delle parole): eṙumbum ahandai eṙum iḍattai, nīril viṙunda poruḷ kāṇa vēṇḍi muṙuhudal pōl, kūrnda matiyāl pēccu mūccu aḍakki-k-koṇḍu uḷḷē āṙndu aṟiya vēṇḍum. aṟi.

அன்வயம்: நீரில் விழுந்த பொருள் காண வேண்டி [பேச்சு மூச்சு அடக்கிக் கொண்டு] முழுகுதல் போல், எழும்பும் அகந்தை எழும் இடத்தை கூர்ந்த மதியால் பேச்சு மூச்சு அடக்கிக் கொண்டு உள்ளே ஆழ்ந்து அறிய வேண்டும். அறி.

Anvayam (parole ridisposte secondo ordine naturale di prosa): nīril viṙunda poruḷ kāṇa vēṇḍi [pēccu mūccu aḍakki-k koṇḍu] muṙuhudal pōl, eṙumbum ahandai eṙum iḍattai kūrnda matiyāl pēccu mūccu aḍakki-k-koṇḍu uḷḷē āṙndu aṟiya vēṇḍum. aṟi.

Traduzione: Come immergersi per vedere un oggetto che è caduto nell’acqua, tuffarsi all’interno trattenendo la parola e il respiro con una mente acuta è necessario per conoscere il luogo da dove sorge l’ego sorgente. Sappi.
Ciò che abbiamo bisogno di conoscere è descritto qui come எழும்பும் அகந்தை எழும் இடத்தை ( eṙumbum ahandai eṙum iḍattai), che significa, ‘il luogo da dove sorge l’ego sorgente’ o ‘il luogo-sorgente dell’ego sorgente’.

இடத்தை ( iḍattai) è la forma accusativa di இடம் ( iḍam), che significa letteralmente ‘luogo’ ma che Bhagavan spesso ha usato metaforicamente per indicare noi stessi. Per esempio, nel sesto paragrafo di Nāṉ Yār? dice, ‘நான் என்னும் நினைவு கிஞ்சித்து மில்லா விடமே சொரூபமாகும்’ ( nāṉ eṉṉum niṉaivu kiñcittum illā v-iḍam-ē sorūpam āhum), che significa ‘Il luogo in cui il pensiero chiamato ‘io’ non esiste anche un po’ è svarūpa [la nostra ‘propria forma’ o sé essenziale]’. In questo verso எழும் இடத்தை ( eṙum iḍattai) o ‘luogo-sorgente’ significa la sorgente o origine del nostro ego, e poiché il nostro ego ha origine o sorge solo da noi stessi, queste parole si riferiscono solo a noi stessi come siamo realmente.

Le parole காண வேண்டி ( kāṇa vēṇḍi) significano letteralmente ‘volendo vedere’ o avendo bisogno di vedere’, ma le ho tradotte come ‘per vedere’ perché sebbene வேண்டி ( vēṇḍi) significhi letteralmente ‘volendo’ o ‘avendo bisogno’ è spesso usata nel senso di ‘per il bene di’ o ‘per, allo scopo di’. Poiché il significato di base di காண ( kāṇa) è ‘vedere’, essa può anche significare ‘trovare’, ‘scoprire’ o ‘cercare’. Poiché வேண்டி ( vēṇḍi) è un participio di வேண்டும் ( vēṇḍum), che significa ‘è necessario’ o ‘è richiesto’ nell’analogia di immergersi per trovare qualcosa che è caduto nell’acqua queste parole காண வேண்டி ( kāṇa vēṇḍi) o ‘per vedere [cercare o trovare]' corrispondono alle parole அறிய வேண்டும் ( aṟiya vēṇḍum) o ‘è necessario conoscere’ nella frase principale di questo verso.

Se qualcosa è caduta nell’acqua, sappiamo approssimativamente dove si trova, così sappiamo dove cercarla, ma per recuperarla abbiamo bisogno di immergerci nell’acqua. Nello stesso modo, sappiamo che esistiamo, anche se abbiamo perso di vista ciò che siamo realmente, così sappiamo dove cercare per vedere ciò che siamo realmente, ma per vedere noi stessi come siamo realmente dobbiamo immergerci in profondità all’interno di noi, lasciandoci alle spalle ogni altra cosa.

Così usando questa analogia di immergerci nell’acqua per trovare qualcosa che ci è caduta dentro, Bhagavan sta enfatizzando la natura di ricerca o indagine dell’auto-investigazione. Non stiamo cercando qualcosa che già non conosciamo, ma per conoscerla come è realmente dobbiamo, per così dire, cercare una visione chiara di essa. Ciò che stiamo cercando di conoscere è solo noi stessi come siamo realmente, così quando investighiamo noi stessi stiamo cercando una visione chiara di noi stessi per vederci come siamo realmente.

Ciò che sta attualmente ostruendo la nostra visione di noi stessi è solo la nostra consapevolezza di altre cose, perché finché siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, ci confondiamo sperimentandoci come un corpo, che è una tra le molte altre cose di cui siamo attualmente consapevoli. Quindi per avere una visione di noi stessi chiara e non ostruita, abbiamo bisogno di essere consapevoli soltanto di noi stessi, e perciò abbiamo bisogno di escludere ogni altra cosa dalla nostra consapevolezza o esperienza. Divenire consapevoli soltanto di noi stessi ed escludere ogni altra cosa dalla nostra consapevolezza è ciò che è descritto metaforicamente come immergersi o tuffarsi in profondità all’interno di noi, perché quando siamo consapevoli soltanto di noi stessi siamo immersi profondamente nella pura auto-consapevolezza.

Per essere consapevoli soltanto di noi stessi dobbiamo focalizzare la nostra intera attenzione su di noi, così questa auto-attentività acutamente focalizzata è ciò che Bhagavan descrive qui come கூர்ந்த மதி ( kūrnda mati), che significa letteralmente una ‘mente acuta’ o un ‘fine intelletto’. Cioè, கூர்ந்த ( kūrnda) significa acuto, fine, aguzzo o penetrante, e மதி ( mati) significa mente, intelletto o potere di discernimento. மதியால் ( matiyāl) è la forma strumentale di மதி ( mati), così கூர்ந்த மதியால் ( kūrnda matiyāl) significa ‘per mezzo [o con] una mente [intelletto o potere di discernimento] acuta [fine, aguzza o penetrante]’ ed implica ‘con una mente che è acutamente focalizzata’ o ‘con la propria mente acutamente focalizzata su se stesso’.

Queste parole கூர்ந்த மதியால் ( kūrnda matiyāl) si applicano a ciascuno dei tre verbi successivi, vale a dire அடக்கிக்கொண்டு ( aḍakki-k-koṇḍu), che significa ‘trattenendo’ o ‘facendo sprofondare’, ஆழ்ந்து ( āṙndu), che significa ‘affondare’, ‘tuffarsi’ o ‘immergersi’, e அறிய ( aṟiya), che significa ‘conoscere’. Così ciò che Bhagavan intende qui è che dovremmo trattenere la parola e il respiro focalizzando acutamente la nostra mente su noi stessi, immergerci all’interno focalizzando acutamente la nostra mente su noi stessi e conoscere il luogo-sorgente o fonte del nostro ego focalizzando acutamente la nostra mente su noi stessi.

Cioè, poiché egli dice che dovremmo tuffarci all’interno e conoscere la sorgente del nostro ego con una கூர்ந்த மதி ( kūrnda mati), ciò che egli intende con una கூர்ந்த மதி ( kūrnda mati) o ‘mente acuta’ deve essere una mente che è acutamente focalizzata su noi stessi, perché una mente che è diretta verso qualsiasi altra cosa non ci permetterebbe di immergerci all’interno di noi stessi o di conoscere la sorgente del nostro ego. Quindi quando dice che dovremmo trattenere la parola e il respiro con la stessa mente acuta o fine, intende che dovremmo trattenerli focalizzando acutamente la nostra mente interamente su noi stessi.

Quindi quando egli dice ‘பேச்சு மூச்சு அடக்கிக் கொண்டு’ ( pēccu mūccu aḍakki-k-koṇḍu), che significa ‘trattenere la parola e il respiro’, immediatamente dopo கூர்ந்த மதியால் ( kūrnda matiyāl), ciò che intende non è che dovremmo deliberatamente cercare di trattenere la parola e il respiro, ma solo che, focalizzando acutamente la nostra mente su noi stessi, automaticamente li tratteneremo. In altre parole, egli si sta semplicemente riferendo a quel fatto che quando la nostra intera attenzione è focalizzata soltanto su noi stessi, sia la parola sia il respiro giungeranno a un arresto.

Se facessimo uno sforzo deliberato per trattenere la parola e il respiro, la nostra attenzione sarebbe deviata lontano da noi stessi, così la nostra mente non sarebbe in una condizione கூர்ந்த ( kūrnda) (cioè, non sarebbe focalizzata acutamente o finemente), ma sarebbe divisa tra il cercare di trattenere la parola e il respiro e cercare di dare attenzione a noi stessi per immergersi all’interno di noi stessi e conoscere ciò che siamo realmente. Solo quando focalizziamo la nostra intera mente soltanto su noi stessi essa sarà veramente கூர்ந்த ( kūrnda): acuta, fine, aguzza o penetrante.

Quindi contrariamente a ciò che alcune persone suppongono, in questo verso Bhagavan non intende che abbiamo bisogno di praticare prāṇāyāma o di cercare deliberatamente di trattenere il respiro. Come egli dice nell’ottavo paragrafo di Nāṉ Yār?, ‘மன மடங்கும்போது பிராணனும், பிராண னடங்கும்போது மனமு மடங்கும்’ ( maṉam aḍaṅgum-pōdu pirāṇaṉ-um, pirāṇaṉ aḍaṅgum-pōdu maṉamum aḍaṅgum), che significa, ‘quando la mente sprofonda anche il prāṇa [sprofonda], [e] quando il prāṇa sprofonda anche la mente sprofonda’, così se facciamo sprofondare la nostra mente focalizzandola acutamente soltanto su noi stessi, il nostro respiro sprofonderà automaticamente anche senza che ce ne accorgiamo.

Quando stiamo cercando di essere esclusivamente auto-attentivi, se cerchiamo di vedere se il nostro respiro si è fermato, la nostra attenzione sarà deviata lontano da noi stessi, così la nostra mente sorgerà di nuovo e di conseguenza il nostro respiro ritornerà alla sua normale attività. Quindi dovremmo cercare di focalizzare la nostra mente su noi stessi così acutamente da neppure notare se il nostro respiro sta fluendo o è temporaneamente cessato.

Così è chiaro che secondo Bhagavan il prāṇāyāma non è solo inadeguato come un mezzo per annientare la nostra mente, ma non è neppure necessario come un aiuto per l’auto-investigazione, che è il solo mezzo adeguato con cui la nostra mente può essere annientata.

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