Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

sabato 15 agosto 2015

Dando attenzione al nostro ego stiamo dando attenzione a noi stessi

Michael James

31 Luglio 2015
By attending to our ego we are attending to ourself

In certi contesti è sicuramente necessario distinguere il nostro ego da noi stessi come siamo realmente, perché il nostro ego non è ciò che siamo realmente, ma tracciare questa distinzione non è necessario o utile in tutti i contesti, perché ciò che sembra essere il nostro ego non è altro che noi stessi come siamo realmente. Questo paradosso apparente può essere conciliato considerando l’analogia di una corda che sembra essere un serpente. Il serpente non è ciò che la corda è realmente, ma ciò che sembra essere un serpente non è altro che la corda come è realmente.

Se camminando in un sentiero stretto nella semi oscurità ci trovassimo a vedere ciò che sembra essere un serpente sul sentiero davanti a noi, avremmo paura di procedere oltre e attenderemmo fino a che il serpente si allontani. Tuttavia, se dopo aver aspettato un po’ vedremmo che il serpente non si muove potremmo iniziare a sospettare che non sia realmente un serpente, nel qual caso ci avvicineremmo cautamente per guardarlo da vicino con attenzione. Se non fosse realmente un serpente ma solo una corda, la nostra investigazione o ispezione ravvicinata di esso ci rivelerebbe che ciò che stavamo guardando e di cui ci siamo impauriti era solo una corda, così la nostra paura di essa si dissolverebbe, e con un sospiro di sollievo continueremmo il nostro cammino lungo il sentiero.

La nostra investigazione o ispezione ravvicinata del serpente apparente inizierebbe solo dopo aver iniziato a sospettare che esso possa essere realmente non un serpente ma qualcos’altro, come una corda, così una volta che questo sospetto è sorto, smetteremmo di insistere con noi stessi che ciò che stiamo guardando è un serpente, ma invece lo considereremmo come un serpente apparente o forse una corda. Questa è simile alla nostra posizione quando iniziamo a investigate noi stessi, questo ego. Investighiamo noi stessi o guardiamo da vicino noi stessi solo perché sospettiamo che realmente possiamo non essere l’ego che ora sembriamo essere, ma invece possiamo essere completamente qualcos’altro. Ora che questo sospetto è sorto in noi, non abbiamo bisogno di continuare ad insistere con noi stessi che siamo solo un ego, ma possiamo iniziare con una mente aperta ad investigare noi stessi per scoprire se siamo questo ego o qualcos’altro.

Secondo Bhagavan ciò che siamo realmente è solo l’unica singola, indivisibile e infinita realtà, dalla quale questo ego e ogni altra cosa appare nella veglia e nel sogno e nella quale essi scompaio nel sonno, così ora stiamo investigando noi stessi per verificare di persona se siamo l’ego limitato che ora sembriamo essere o la realtà infinita che egli dice che siamo realmente. Poiché questa è la nostra posizione attuale, ovviamente non dovremmo insistere con noi stessi che ciò che stiamo investigando è solo questo ego e non noi stessi come siamo realmente, perché una tale idea rigida sarebbe opposta al vero spirito e scopo della nostra investigazione.

Stiamo investigando noi stessi solo per scoprire se siamo questo ego o qualcos’altro, così come può l’idea rigida che noi stessi che stiamo investigando siamo solo un ego e non ciò che siamo realmente aiutarci nella nostra investigazione? Sicuramente una tale idea è solo un ostacolo alla nostra investigazione. Per scoprire ciò che siamo realmente, abbiamo bisogno di mettere da parte l’idea che siamo solo questo ego e investigare noi stessi per vedere se siamo l’ego che ora sembriamo essere o meno.

Poiché ora sperimentiamo noi stessi come questo ego, quando iniziamo la nostra auto-investigazione (ātma-vicāra) sembra che stiamo investigando noi stessi come questo ego, ma se questo ego non è ciò che siamo realmente, presto o tardi scopriremo che noi stessi che stiamo investigando non siamo realmente questo ego ma solo ciò che siamo realmente. In altre parole, investigando noi stessi sperimenteremo ciò che siamo realmente e quindi ci spoglieremo della falsa esperienza di essere questo ego.

Il nostro ego è solo un’esperienza erronea di noi stessi – un’esperienza di consapevolezza di noi stessi come qualcosa diversa da ciò che siamo realmente – proprio come il serpente illusorio è solo una percezione erronea della corda. Benché esso sembra essere un serpente, ciò che è realmente è solo una corda, così se lo guardiamo attentamente vedremo che non è un serpente ma solo una corda. Ugualmente, benché ci sembra di essere questo ego limitato, ciò che siamo realmente è solo l’unica realtà infinita, così se guardiamo attentamente noi stessi vedremo che non siamo questo ego ma solo la realtà infinita.
  1. Il nostro ego è distinto dal nostro sé reale solo in misura limitata
  2. I termini ‘il sé’ e ‘il Sé’ sono un modo indiretto e confondente per riferisi a noi stessi
  3. Upadēśa Undiyār versi 24 e 25: l’unità essenziale del nostro ego e del nostro sé reale
  4. Non possiamo guardare il nostro ego senza guardare effettivamente noi stessi
  5. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 37: anche quando sperimentiamo noi stessi come questo ego, siamo effettivamente ciò che sempre siamo realmente
  6. Perché Bhagavan qualche volta dice che tutto ciò che abbiamo bisogno di investigare è solo il nostro ego?
  7. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 33: non siamo due sé, come se uno fosse un oggetto conosciuto dall’altro
  8. Upadēśa Undiyār verso 21: il nostro sé infinito è sempre il vero significato della parola ‘io’
  9. La risposta di David Godman che cita la spiegazione di Muruganar del verso 44 di Akṣaramaṇamālai
  10. Śrī Aruṇācala Akṣaramaṇamālai verso 44: riconsiderando il significato della spiegazione di Muruganar
    1. La parafrasi esplicatica (poṙippurai) di Muruganar del verso 44
    2. Le frasi iniziali del commentario (virutti-v-urai) di Muruganar
    3. La spiegazione di Muruganar di ‘se stesso’ (taṉai), il viṣaya per l’investigazione
    4. La chiarificazione di Muruganar riguardo il viṣaya per l’investigazione
    5. L’inesattezza nella traduzione di Robert di questa chiarificazione
    6. La spiegazione di Muruganar di ‘vedi quotidianamente con l’occhio interiore’ (diṉam aha-k-kaṇ kāṉ)
    7. La spiegazione di Muruganar di ‘guardare verso l’interno’ o ‘guardare verso io’ (ahamukham)
  11. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 32: quando ci viene detto ‘quello sei tu’, dovremmo investigare ‘cosa sono io?’
  12. Upadēśa Undiyār verso 19: dovremmo investigare la sorgente del nostro ego, che è ciò che siamo realmente
  13. Guru Vācaka Kōvai verso 579: il noi stessi che stiamo investigando e il noi stessi che cerchiamo di conoscere non sono differenti
  14. Guru Vācaka Kōvai verso 1094: ciò a cui dovremmo dare attenzione è la nostra svarūpa o il nostro sé reale
  15. Pādamālai: alcuni versi che non specificano se dovremmo dare attenzione al nostro ego o al nostro sé reale
  16. Pādamālai: alcuni versi che indicano che dovremmo dare attenzione a noi stessi come siamo realmente
  17. Quale fu dunque la reale visione di Muruganar?
  18. Conclusione: per quanto possa essere descritta, c’è solo una pratica corretta di auto-investigazione

1. Il nostro ego è distinto dal nostro sé reale solo in misura limitata

Dunque questo ego non è ciò che siamo realmente, ma se lo guardiamo attentamente vedremo che ciò che sembrava essere questo ego non è nient’altro che ciò che siamo realmente. Quindi dobbiamo evitare di fare l’errore di pensare all’ego e al nostro sé reale come se fossero due cose interamente differenti. Il nostro sé reale è ciò che siamo realmente, e il nostro ego è ciò che ora sembriamo essere, così in questa misura il nostro ego è distinto dal nostro sé reale, ma ciò che sembra essere questo ego è solo il nostro sé reale, così in questa misura il nostro ego non è distinto dal nostro sé reale.

Quindi benché in certi contesti Bhagavan distingueva il nostro ego da noi stessi come siamo reamente, in altri contesti egli non faceva distinzione, perché in qualche contesto la distinzione tra esse è rilevante e importante, mentre in altri contesti è irrilevante e inutile, o qualche volta anche assolutamente dannosa. Per esempio, nel caso della pratica effettiva di auto-investigazione (ātma-vicāra) non è utile e può essere dannoso classificare il sé che dobbiamo investigare come il nostro ego o il nostro sé reale, perché sebbene iniziamo investigando l’ego che ora sembriamo essere, ciò che stiamo cercando di sperimentare è noi stessi come siamo realmente.

Riguardo a questo molta confusione è stata creata nei libri Inglesi con l’uso del termine ‘il Sé’ invece dei termini più semplici e diretti come ‘se stessi o ‘noi stessi’. Nella scrittura Indiana non ci sono lettere maiuscole, e in Tamil e in Sanscrito non ci sono articoli definiti (cioè, non c’è una parola che corrisponda alla parola Inglese ‘il’), così nei linguaggi Indiani non c’è un termine che significa esattamente ‘il Sé’. Ci sono diversi problemi in Inglese creati dall’uso di questo termine.

In primo luogo, quando parliamo de ‘il Sé’ sembriamo oggettivare o almeno concretizzare noi stessi come siamo realmente, creando quindi una distinzione falsa o esagerata tra noi stessi e ‘il Sé’. Non c’è realmente un sé diverso da noi stessi, ma quando usiamo questo termine ‘il Sé’ sembra che stiamo parlando di qualcosa diversa da noi stessi, e dunque diamo origine a un apparente divario (o anche un abisso) tra noi stessi e ‘il Sé’ che stiamo cercando di sperimentare. Quando investighiamo noi stessi, non dovremmo cercare di conoscere qualche ‘Sé’ finora sconosciuto, ma dovremmo cercare di sperimentare solo noi stessi come siamo realmente.

In secondo luogo, se scriviamo in maiuscolo la ‘s’ iniziale in ‘sé’ ogni volta che ci stiamo riferendo a noi stessi come siamo realmente, questo comporta che ogni volta che essa non è maiuscola ci stiamo riferendo a noi stessi come ora sembriamo essere, vale a dire il nostro ego. Tuttavia ci sono molti casi in cui Bhagavan usa la parola ‘sé’ (o piuttosto ‘se stessi’) in un senso più generale per riferirsi a noi stessi senza voler fare una distinzione tra noi stessi come siamo realmente e noi stessi come ora sembriamo essere, così in questi casi non dovremmo ovviamente scrivere in maiuscolo la ‘s’ iniziale in ‘sé’, ma se le persone prendono ‘sé’ senza maiuscola iniziale nel significato di ego, né ‘Sé’ e neppure ‘sé’ trasmetterebbero il senso generale in cui egli stava usando il termine.

La distinzione tra il nostro ego e il nostro sé reale è sottile, perché non è una distinzione nella sostanza ma solo una distinzione nell'apparenza, come la distinzione tra il serpente e la corda. Comunque, poiché la mente umana pensa in termini dualistici, il nostro pensiero tende ad esagerare la distinzione tra il nostro ego e il nostro sé reale, come se fossero due cose completamente differenti. Scrivere in maiuscolo la ‘s’ iniziale in ‘sé’ per distinguere il nostro sé reale dal nostro ego tende a perpetuare il nostro pensiero dualistico riguardo noi stessi, che è il motivo per cui Bhagavan spesso ha dovuto ricordare alle persone che ciascuno di noi è un solo sé e non due sé separati, un ego e un sé reale completamente differenti.

In Tamil la parola che Bhagavan ha usato più spesso per indicare noi stessi è தான் (tāṉ), che è primariamente un pronome generico (come ‘uno’ in Inglese) ma quelle forme non-nominative fungono anche come pronomi riflessivi (come ‘se stesso’, ‘lui stesso’, ‘lei stessa’ o ‘esso stesso’), così nel senso in cui Bhagavan generalmente ha usato essa (o la sua base flessiva, தன் (taṉ), o qualsiasi delle sue forme come தன்னை (taṉṉai), தன்னால் (taṉṉāl), தனக்கு (taṉakku), தனது (taṉadu) o தன்னில் (taṉṉil)), è generalmente meglio tradotta in Inglese come ’se stessi’ o ‘noi stessi’ piuttosto che ‘il sé’ o ‘il Sé’.

Altri termini che egli ha usato spesso per indicare noi stessi sono ஆத்மா (ātmā), ஆன்மா (āṉmā), ஆத்மசொரூபம் (ātma-sorūpam) e சொரூபம் (sorūpam), che sono tutte parole di origine Sanscrita, e che egli generalmente (ma non sempre) ha usato per indicare noi stessi come siamo realmente. L’unico di questi termini che ha sempre usato per indicare solo il nostro sé reale è ஆத்மசொரூபம் (ātma-sorūpam) o ஆன்மசொரூபம் (āṉma-sorūpam), che è una forma Tamil del termine Sanscrito आत्मस्वरूप (ātma-svarūpa), una parola composta che significa letteralmente ‘la propria forma’ o ‘la forma di se stesso’ ma che implica ‘la propria natura essenziale’ o ‘la natura essenziale di se stesso’. ஆத்மா (ātmā) e ஆன்மா (āṉmā) sono forme Tamil del termine Sanscrito आत्मन् (ātman), che ha lo stesso significato di தான் (tāṉ) in Tamil, ma che è spesso (sebbene non esclusivamente) usato nel senso del nostro sé reale. சொரூபம் (sorūpam) è una forma Tamil di स्वरूप (svarūpa), che significa letteralmente ‘propria forma’ ma che Bhagavan spesso ha usato come un’abbreviazione di ஆன்மசொரூபம் (āṉma-sorūpam), nel qual caso l’ha usata per riferirsi al nostro sé reale. Come தான் (tāṉ), nel contesto degli insegnamenti di Bhagavan questi termini sono generalmente meglio tradotti in Inglese come ‘se stessi’ o ‘noi stessi’ piuttosto che ‘il sé’ o ‘il Sé’.

2. I termini ‘il sé’ e ‘il Sé’ sono un modo indiretto e confondente per riferisi a noi stessi

Come ho accennato prima, creando una distinzione tra ‘sé’ e ‘Sé’ e aggiungendo l’articolo definito ‘il’ prima di entrambi, sembra che stiamo oggettivando o concretizzando qualsiasi cosa è indicata da questi termini, come se ‘il sé’ o ‘il Sé’ fosse qualcosa diversa da noi stessi. Benché parliamo di ‘me stesso’, ‘tu stesso’ o ‘esso stesso’, non consideriamo che tali termini si riferiscono a qualsiasi cosa diversa da me, tu, o esso rispettivamente, perché una cosa e se stessa non sono due cose differenti. Per esempio, se dicessimo ‘biasimo me stesso’, nessuno penserebbe che il sé che sto biasimando è qualcuno o qualcosa diversa da me che lo sto biasimando, perché io e me stesso sono chiaramente una stessa persona o cosa, mentre se dicessi ‘biasimo il sé’, sembrerebbe che io stia intendendo che il sé che sto biasimando è qualcosa diversa da me che lo sto biasimando.

La parola ‘sé’ non si riferisce realmente a qualcosa diversa dalla persona o cosa di cui è il sé. Quindi quando diciamo che il nostro sé è distinto dal nostro ego, quello che intendiamo è che ciò che siamo realmente non è ciò che ora sembriamo essere, perché il termine ‘nostro sé reale’ indica ciò che siamo realmente, mentre il termine ‘nostro ego’ si riferisce a ciò che ora sembriamo essere. Nessuno di questi due termini, ‘nostro sé reale’ e ‘nostro ego’, si riferisce a qualcosa diversa da noi stessi, ma mentre uno si riferisce a noi stessi come siamo realmente, l’altro si riferisce a noi stessi come sembriamo essere.

Tuttavia, se usassimo l’articolo definito e la maiuscola iniziale e dicessimo che il Sé è distinto dal sé, sembreremmo parlare di due oggetti separati, nessuno dei quali è noi stessi senza ambiguità. Se con il termine ‘il sé’ ci stiamo riferendo a noi stessi, perché ci dovremmo riferire ad esso come ‘il sé’ invece che semplicemente ‘noi stessi’ o ‘me stesso’? Comunque, se il termine ‘il sé’ si riferisce a noi stessi, sembrerebbe allora che il termine ‘il Sé’ si riferisca a qualcos’altro – qualcosa che è diversa da noi stessi. Così usando entrambi questi termini, ‘il sé’ o ‘il Sé’, stiamo pensando a noi stessi in un modo inutilmente indiretto e confondente, mentre se usassimo semplicemente termini come ‘noi stessi’ o ‘se stessi’ staremmo pensando a noi stessi in un modo molto più diretto, immeditato e chiaro.

3. Upadēśa Undiyār versi 24 e 25: l’unità essenziale del nostro ego e del nostro sé reale

Come ho spiegato nella prima sezione, il nostro ego e il nostro sé reale non sono due cose differenti, perché in sostanza essi sono la stessa cosa, e differiscono solo in apparenza. Cioè, proprio come ciò che sembra essere un serpente è solo una corda, ciò che sembra essere questo ego è solo il nostro sé reale, così proprio come la corda è la sola sostanza del serpente illusorio, il nostro sé reale è la sola sostanza del nostro ego illusorio. Questa unità essenziale del nostro ego e del nostro sé reale è chiamata jīva-brahmaikya, l’unità di jīva (l’anima o ego) e brahman, che è spesso spiegato come il significato della grande dichiarazione (mahāvākya) ‘tat tvam asi’ o ‘tu sei quello’. Cioè, tat (esso o quello) rappresenta brahman (che è il nostro sé reale), tvam (tu) rappresenta il jīva (che è il nostro ego), e asi (sono) afferma la loro aikya o unità.

Questa unità è anche affermata e spiegata da Bhagavan nel verso 24 di Upadēśa Undiyār:
இருக்கு மியற்கையா லீசசீ வர்க
ளொருபொரு ளேயாவ ருந்தீபற
வுபாதி யுணர்வேவே றுந்தீபற.

irukku miyaṟkaiyā līśajī varga
ḷoruporu ḷēyāva rundīpaṟa
vupādhi yuṇarvēvē ṟundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: இருக்கும் இயற்கையால் ஈச சீவர்கள் ஒரு பொருளே ஆவர். உபாதி உணர்வே வேறு.

Padacchēdam (separazione delle parole): irukkum iyaṟkaiyāl īśa jīvargaḷ oru poruḷē āvar. upādhi-uṇarvē vēṟu.

Traduzione: Per la [loro] natura esistente, Dio e le anime sono solo una sostanza. Solo la [loro consapevolezza] di aggiunte è differente.
Benché Bhagavan in questo verso non si riferisce esplicitamente al nostro sé reale, in questo contesto il termine ‘Dio’ si riferisce a brahman, che è il nostro sé reale, perché nel verso successivo dice che Dio risplende come noi stessi. Quindi quando dice ‘ஈச சீவர்கள் ஒரு பொருளே ஆவர்’ (īśa jīvargaḷ oru poruḷē āvar), che significa, ‘Dio e le anime sono solo una sostanza’, intende chiaramente che il nostro sé reale e il nostro ego in sostanza sono uno. Quello che è una sostanza è indicato con le parole ‘இருக்கும் இயற்கையால்’ (irukkum iyaṟkaiyāl), che significano ‘per la natura che è’, ‘per la natura’ o ‘per la natura esistente’, e che implica che la loro unica sostanza è la loro natura essenziale, che è solo essere (sat) o ciò che è realmente (uḷḷadu).

Tuttavia, sebbene Dio o il nostro sé reale e il nostro jīva o ego non sono affatto differenti in ciò che sono realmente, essi sono differenti in ciò che sembrano essere, e ogni cosa che sembrano essere è solo una serie di aggiunte estranee o upādhis, che sono qualunque forma o caratteristica il nostro ego afferra come se stesso e qualunque forma o caratteristica esso attribuisce a Dio. Tuttavia tutte queste forme e caratteristiche esistono solo nella visione dell’ego e non nella visione di Dio come il nostro sé, così la sola differenza tra il nostro ego e il nostro sé reale è che il nostro ego ha உபாதி உணர்வு (upādhi-uṇarvu) o ‘consapevolezza di aggiunte’ mentre il nostro sé reale non ne ha.

Quindi la differenza apparente tra noi stessi come questo ego e noi stessi come siamo realmente (il nostro sé reale) non esiste nella visione di noi stessi come siamo realmente ma solo nella visione di noi stessi come questo ego, così se come questo ego vediamo noi stesi senza alcuna aggiunta, stiamo vedendo noi stessi come siamo realmente. Questo è ciò che Bhagavan intende nel verso successivo (verso 25 di Upadēśa Undiyār):
தன்னை யுபாதிவிட் டோர்வது தானீசன்
றன்னை யுணர்வதா முந்தீபற
தானா யொளிர்வதா லுந்தீபற.

taṉṉai yupādhiviṭ ṭōrvadu tāṉīśaṉ
ḏṟaṉṉai yuṇarvadā mundīpaṟa
tāṉā yoḷirvadā lundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: தன்னை உபாதி விட்டு ஓர்வது தான் ஈசன் தன்னை உணர்வது ஆம், தானாய் ஒளிர்வதால்.

Padacchēdam (separazione delle parole): taṉṉai upādhi viṭṭu ōrvadu tāṉ īśaṉ taṉṉai uṇarvadu ām, tāṉ-āy oḷirvadāl.

அன்வயம்: தானாய் ஒளிர்வதால், தன்னை உபாதி விட்டு ஓர்வது தான் ஈசன் தன்னை உணர்வது ஆம்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): tāṉ-āy oḷirvadāl, taṉṉai upādhi viṭṭu ōrvadu tāṉ īśaṉ taṉṉai uṇarvadu ām.

Traduzione: Conoscere (o sperimentare) se stessi lasciando da parte aggiunte è conoscere Dio, perché [egli] risplende come se stessi.
Poiché la sola differenza tra noi stessi come questo ego e noi stessi come siamo realmente è la nostra உபாதி உணர்வு (upādhi-uṇarvu) o ‘consapevolezza di aggiunte’, se focalizziamo la nostra intera attenzione soltanto su noi stessi, quindi isolando noi stessi nella nostra esperienza o consapevolezza da tutte le aggiunte che ora sperimentiamo come se fossero noi stessi, sperimenteremo noi stessi come l’unica realtà infinita che sempre siamo realmente, perché quella infinita realtà esiste e risplende sempre come noi stessi.

Quindi, sebbene iniziamo la nostra auto-investigazione osservando noi stessi come questo ego per vedere ciò che siamo realmente, se osserviamo noi stessi sufficientemente da vicino, accuratamente ed esclusivamente, vedremo che non siamo l’ego che ora sembriamo essere ma siamo solo l’unica sostanza reale che sempre siamo realmente.

4. Non possiamo guardare il nostro ego senza guardare effettivamente noi stessi

Come abbiamo visto precedentemente, investighiamo noi stessi perché, sebbene ora sembriamo un ego limitato, Bhagavan ci ha spinto a sospettare che non siamo realmente questo ego che ora sembriamo essere, ma che siamo solo la sua sorgente e la sua sostanza, la base o il substrato dal quale esso sorge e nel quale sprofonda ogni volta che ci addormentiamo. Quindi investighiamo noi stessi per scoprire per esperienza propria se siamo effettivamente questo ego limitato o la sua base e sostanza infinita.

Quando investighiamo noi stessi, stiamo osservando, guardando o dando attenzione a noi stessi, a chi ora sembra essere questo ego, per vedere o sperimentare ciò che siamo realmente. Se questo ego fosse qualcosa completamente differente da ciò che siamo realmente, guardandolo staremmo guardando nella direzione sbagliata, e quindi non saremmo in grado di vedere ciò che siamo realmente. Tuttavia, poiché questo ego non è qualcosa del tutto differente da ciò che siamo realmente, ma è solo noi stessi mischiato con aggiunte che confondiamo come noi stessi, guardandolo stiamo guardando nella direzione corretta, e quindi quando vedremo oltre tutte le aggiunte estranee cercando di vedere soltanto noi stessi, saremo in grado di vedere ciò che siamo realmente.

Poiché ora sperimentiamo noi stessi come questo ego, quando guardiamo noi stessi stiamo guardando il nostro ego, ma ciò che vediamo risplendere attraverso questo ego è solo noi stessi come siamo realmente. Cioè, il nostro ego è una mescolanza della nostra auto-consapevolezza (taṉ-ṉ-uṇarvu) e la nostra consapevolezza di aggiunte (upādhi-uṇarvu), ma ciò che risplende come questo ego è solo la sua parte di auto-consapevolezza, che è ciò che siamo realmente, perché è solo questa auto-consapevolezza di base che illumina la nostra consapevolezza di aggiunte e di altre cose. Quindi finché cerchiamo di guardare solo questa parte del nostro ego risplendente o di auto-consapevolezza piuttosto che la sua parte di aggiunte, stiamo guardando ciò che siamo realmente, sebbene ancora mischiata in misura più o meno grande con aggiunte.

Questo può essere illustrato da un’analogia: supponiamo di star dormendo in una stanza con una finestra rivolta a est, che è coperta da una tenda relativamente sottile, e che ci svegliamo tardi, dopo che il sole è sorto. Nonostante la tenda possiamo vedere una sfera di luce brillante e gialla. Ciò che stiamo vedendo è effettivamente il sole, ma non lo stiamo vedendo del tutto com’è veramente, perché il suo intenso chiarore è oscurato in una certa misura dalla tenda che lo copre. Quando guardiamo il nostro ego stiamo guardando il nostro sé reale in un modo simile. Ciò che stiamo vedendo è il nostro sé reale, ma non stiamo del tutto vedendo noi stessi come siamo realmente, perché la pura auto-consapevolezza che realmente siamo è oscurata in una certa misura dalla nostra consapevolezza di aggiunte che sono ancora mischiate con essa.

Quindi quando ispezioniamo in modo ravvicinato o diamo attenzione al nostro ego, ciò che stiamo realmente guardando o a cui diamo attenzione è solo noi stessi come siamo realmente, sebbene ancora oscurati in misura più o meno grande dalle aggiunte con cui abbiamo mischiato e confuso noi stessi. Proprio come non possiamo guardare il serpente illusorio senza guardare realmente la corda, non possiamo guardare il nostro ego senza guardare effettivamente ciò che siamo realmente.

Il serpente e la corda non sono due cose differenti, perché è solo la corda che sembra essere un serpente, così non possiamo guardare il serpente e allo stesso tempo evitare di guardare la corda. Guardando il serpente stiamo guardando solo la corda. Ugualmente, il nostro ego e il nostro sé reale non sono due cose differenti, perché è solo il nostro sé reale che ora sembra essere questo ego, così non possiamo guardare il nostro ego e allo stesso tempo evitare di guardare il nostro sé reale. Guardando il nostro ego stiamo guardando solo il nostro sé reale.

Quindi sia che pensiamo di investigare il nostro ego per vedere cosa è realmente sia di investigare noi stessi per vedere ciò che siamo realmente, ciò equivale esattamente alla stessa cosa, perché quello che chiamiamo il nostro ego è solo noi stessi come ora sembriamo essere, e se guardiamo in modo ravvicinato noi stessi come ora sembriamo essere vedremo ciò che siamo realmente. Quindi non possiamo affermare che stiamo investigando il nostro ego senza investigare noi stessi, o che stiamo investigando noi stessi senza investigare il nostro ego.

Tuttavia, alcune persone non sembrano essere in grado di comprendere che ciò che sembra essere questo ego è solo noi stessi come siamo realmente, e quindi esse credono che quando investighiamo il nostro ego non stiamo investigando ciò che siamo realmente Quindi per rimuovere tale confusione, Bhagavan era solito spiegare che il nostro ego è chiamato cit-jaḍa-granthi, perché è un nodo (granthi) che lega noi stessi, che siamo pura auto-consapevolezza o coscienza (cit), insieme con un corpo, che è non-cosciente (jaḍa), come se noi e questo corpo fossimo uno, e che quando investighiamo il nostro ego, la parta di esso che dovremmo investigare è solo noi stessi, che siamo ciò che è cosciente (cit), e non il nostro corpo o qualsiasi delle nostre altre aggiunte, che sono tutte non-coscienti (jaḍa).

Una tale spiegazione data da lui è registrata nel capitolo finale di Maharshi’s Gospel(edizione 2002, pagina 89):
L’ego funge da nodo tra il Sé che è Pura Consapevolezza e il corpo fisico che è inerte e insenziente. L’ego è quindi chiamato il chit-jada granthi. Nella tua investigazione nella sorgente di aham-vritti [l’io-pensiero o ego], prendi l’aspetto essenziale chit dell’ego; e per questa ragione l’indagine deve condurre alla realizzazione della pura consapevolezza del Sé.
Ciò che egli descrive qui come ‘l’essenziale aspetto chit dell’ego’ è ciò che egli ha descritto precedentemente come ‘il Sé che è Pura Consapevolezza’ e successivamente come ‘la pura consapevolezza del Sé’, così esso significa ciò che siamo realmente. Cioè, quando investighiamo noi stessi, la sorgente dell’ego o ‘aham-vritti’, ciò a cui stiamo cercando di dare attenzione e quindi di sperimentare in completo isolamento da ogni altra cosa, è solo la pura auto-consapevolezza che realmente siamo (che è ciò che ho descritto precedentemente in questa sezione come la ‘parte risplendente o di auto-consapevolezza del nostro ego piuttosto che le sue parti aggiunte’).

In altre parole, ciò che egli descrive in questo passaggio come investigare ‘l’essenziale aspetto chit dell’ego’ è ciò che ha descritto nel verso 25 di Upadēśa Undiyār (che ho citato e discusso nella sezione precedente) come ‘தன்னை உபாதி விட்டு ஓர்வது’ (taṉṉai upādhi viṭṭu ōrvadu), che significa ‘conoscere [investigare o sperimentare] se stessi lasciando da parte le aggiunte’. Cioè, tutte le aggiunte a cui attacchiamo noi stessi per formare il nostro ego sono l'inessenziale aspetto jaḍa (non-cosciente) di esso, mentre noi stessi siamo l’aspetto essenziale chit (cosciente) di esso, così l’auto-investigazione comporta il focalizzare la nostra intera attenzione solo su noi stessi (l’essenziale aspetto cit del nostro ego), quindi lasciando da parte o ignorando tutte le nostre aggiunte (l’inessenziale aspetto jaḍa del nostro ego), per sperimentare soltanto noi stessi, in completo isolamento da ogni altra cosa.

Nella misura in cui siamo in grado di sperimentare soltanto noi stessi, il nostro ego quindi sprofonderà, perché come Bhagavan dice nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu, il nostro ego sorge, resiste e si nutre solo ‘afferrando la forma’, che significa qualsiasi cosa diversa da se stesso (ogni aggiunta), così nella misura in cui separiamo o isoliamo noi stessi da tutte le forme dando attenzione soltanto a noi stessi, il nostro ego si dissolverà in noi stessi, la sua sorgente. Quindi sebbene ciò a cui diamo attenzione quando iniziamo a investigare noi stessi è il nostro ego, che è noi stessi mischiato con aggiunte, più riusciamo ad essere consapevoli soltanto di noi stessi, più separeremo noi stessi (‘l’essenziale aspetto chit dell’ego’) dalle nostre aggiunte e quindi sprofonderemo e dimoreremo come noi stessi siamo realmente.

Dunque la vigilante auto-attentività è il mezzo con cui possiamo dissolvere il nostro ego e quindi sperimentare noi stessi come siamo realmente. Poiché il nostro ego è noi stessi (ciò che siamo realmente) più aggiunte, e ciò che siamo realmente è solo il nostro ego meno le sue aggiunte, dando attenzione solo a noi stessi, ‘l’essenziale aspetto chit dell’ego’, separeremo e distingueremo noi stessi da tutte le nostre aggiunte, e perciò il nostro ego si dissolverà e sprofonderà in noi stessi.

5. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 37: anche quando sperimentiamo noi stessi come questo ego, siamo effettivamente ciò che sempre siamo realmente

Cos’è dunque ciò a cui diamo attenzione quando investighiamo noi stessi? Benché ciò a cui diamo attenzione sembri inizialmente essere il nostro ego, più accuratamente e vigilantemente diamo attenzione ad esso, più ci dissolveremo come questo ego e quindi sperimenteremo noi stessi come siamo realmente. Nella misura in cui l’esperienza di noi stessi come questo ego si dissolve, in quella misura sperimenteremo noi stessi come siamo realmente. Naturalmente continueremo a sperimentare noi stessi come questo ego, sebbene in una forma molto attenuata, fino a che sperimenteremo soltanto noi stessi, in completo isolamento da tutte le nostre aggiunte, ma anche mentre stiamo ancora sperimentando noi stessi come questo ego, ciò che stiamo sperimentando come tale è solo noi stessi come siamo realmente, perché non siamo mai realmente qualcosa diversa da noi stessi come siamo realmente, Come Bhagavan dice nel verso 37 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
சாதகத்தி லேதுவிதஞ் சாத்தியத்தி லத்துவித
மோதுகின்ற வாதமது முண்மையல — வாதரவாய்த்
தான்றேடுங் காலுந் தனையடைந்த காலத்துந்
தான்றசம னன்றியார் தான்.

sādhakatti lēduvitañ sāddhiyatti ladduvita
mōdugiṉḏṟa vādamadu muṇmaiyala — vādaravāyt
tāṉḏṟēḍuṅ kālun taṉaiyaḍainta kālattun
tāṉḏṟasama ṉaṉḏṟiyār tāṉ
.

பதச்சேதம்: ‘சாதகத்திலே துவிதம், சாத்தியத்தில் அத்துவிதம்’ ஓதுகின்ற வாதம் அதும் உண்மை அல. ஆதரவாய் தான் தேடும் காலும், தனை அடைந்த காலத்தும், தான் தசமன் அன்றி யார் தான்?

Padacchēdam (separazione delle parole): ‘sādhakattil-ē duvitam, sāddhiyattil adduvitam’ ōdugiṉḏṟa vādam-adum uṇmai ala. adorava tāṉ tēḍum kālum, taṉai aḍainda kālattum, tāṉ dasamaṉ aṉḏṟi yār tāṉ?

Traduzione: Anche l’argomento che afferma, ‘Dualità nella pratica spirituale, non-dualità nel conseguimento’, non è vera. Sia quando uno sta cercando ardentemente sia quando uno ha trovato se stesso, chi è davvero uno se non il decimo uomo?
La parola தசமன் (dasamaṉ) significa ‘il decimo uomo’ e si riferisce a un’analogia che Bhagavan faceva spesso. Dopo aver guadato un fiume dieci uomini decisero di contarsi per assicurarsi che tutti avessero attraversato il fiume senza pericolo, ma ognuno di loro mentre contava non considerava se stesso, così tutti contavano solo nove uomini, e quindi iniziarono a dolersi, pensando che uno di loro si era perduto. Vedendoli, un passante chiese perché tutti si stavano dolendo, e quando gli dissero cosa era successo, egli vide che essi erano realmente dieci, così suggerì che ciascuno di loro contasse se stesso quando lui li toccava uno ad uno. Quando egli toccò il decimo, che debitamente disse dieci, tutti iniziarono a gioire e ringraziarono il passante per averli aiutati a trovare il loro amico mancante.

In questa analogia il decimo uomo mancante rappresenta il nostro sé reale, che pensiamo di aver perduto perché abbiamo tralasciato noi stessi, così la domanda nella riga finale di questo verso, ‘தான் தசமன் அன்றி யார் தான்?’ (tāṉ dasamaṉ aṉḏṟi yār tāṉ?), che significa, ‘chi è davvero uno se non il decimo uomo?’ significa che noi, l’ego che sta investigando noi stessi per sperimentare ciò che siamo realmente, siamo ciò che stiamo cercando di sperimentare. Finché tralasciamo noi stessi, sembriamo essere un ego auto-ignorante, ma se rivolgiamo la nostra attenzione verso noi stessi per sperimentare ciò che siamo realmente, scopriremo che questo ego che sta cercando il suo sé perduto è esso stesso il ‘perduto’ sé che sta cercando.

Tralasciamo noi stessi perché siamo più interessati a sperimentare altre cose di quanto lo siamo a sperimentare noi stessi come siamo realmente, ma se ridirigiamo il nostro interesse verso lo sperimentare noi stessi, rivolgeremo la nostra attenzione verso noi stessi per vedere chi sono io, questo ego che sembra essere auto-ignorante, e quando facciamo in tal modo questo ego scomparirà o ‘prenderà il volo’ (come Bhagavan dice nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu), perché esso non esiste realmente, e ciò che allora risplenderà al suo posto è solo il nostro infinito sé reale, che è ciò che sembrava essere questo ego.

Cioè, sembriamo essere questo ego solo finché siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, così se cerchiamo di essere consapevoli soltanto di noi stessi, questo ego si dissolverà e scomparirà, essendo nient'altro che una fantasma senza sostanza e senza forma, e quindi sperimenteremo noi stessi come l’unico tutto infinito che sempre siamo realmente. In altre parole, se guardiamo questo ego, vedremo che esso non è realmente nient'altro che il nostro sé reale, proprio come il serpente illusorio non è nient’altro che una corda.

6. Perché Bhagavan qualche volta dice che tutto ciò che abbiamo bisogno di investigare è solo il nostro ego?

In un commento al mio articolo precedente, Possiamo sperimentare ciò che siamo realmente seguendo il sentiero della devozione (bhakti mārga)?, un amico di nome Viswanathan ha scritto, ‘Ho bisogno di sottolineare qui che proprio come hai menzionato che ci sono differenti pratiche di Bakthi Marga, ci sono differenti visioni su ciò che Bhagavan intendeva realmente con Atma Vichara’, e poi ha citato un commento che David Godman ha scritto nel suo blog cinque anni fa in risposta a qualcuno che aveva citato un lungo brano dal capitolo 7 di Il Sentiero di Sri Ramana di Sadhu Om. In quel commento David aveva scritto:

Nel tuo estratto dagli scritti di Sadhu Om egli dice: In questa domanda, ‘Chi sono io?’, ‘io sono’ indica il Sé e ‘chi’ sta per l’indagine.

E’ mia opinione che questo non sia ciò che Bhagavan ha detto e insegnato. Bhagavan ha insegnato che l’‘io’ in cui stiamo indagando è l’‘io’ individuale, non il Sé. Quando fai l’indagine, ti soffermi sul sentire di ‘io’, che è la consapevolezza soggettiva dell’identità individuale. Se la pratica è ben fatta, l’‘io’ individuale sprofonda e scompare, lasciando soltanto il Sé.

Parlai con Sadhu Om riguardo a questo nei primi anni ’80 ed egli ha difeso la sua visione dicendo, ‘C’è solo un ‘io’, e quello è il Sé’. Il sottinteso sembrava essere che mantenersi sul Sé costituiva auto-indagine o auto-attenzione.

Non ero d’accordo allora e non sono d’accordo ora. Non si può soffermarsi sul Sé senza prima rimuovere l’ostacolo a una diretta consapevolezza di esso – cioè il pensiero-‘io’. Domandandosi sulla sua natura, osservando la sua origine, o semplicemente essendo consapevoli di esso continuamente, si causa il suo sprofondare e svanire.

Bhagavan ha detto che il Sé non ha bisogno di essere indagato. Tutto ciò che è richiesto è di rimuovere le sue coperture e indagare nella natura e l’origine della falsa entità che lo sta coprendo.
In risposta a Viswanathan ho scritto una serie di due commenti nei quali ho detto:
Viswanathan, non ho letto l’articolo di David a cui ti riferisci nel tuo commento, ma ho trovato il suo commento su esso che hai citato, e leggendolo vedo che la sua visione rispetto a questo non è cambiata da circa il 1977, quando lui ed io discutemmo per la prima volta di questo argomento. A quel tempo ho cercato di spiegargli che ciò che sembra il nostro ego è solo noi stessi come siamo realmente, proprio come ciò che sembra essere un serpente è solo la corda che è realmente, così quando investighiamo o osserviamo il nostro ego ciò che stiamo realmente investigando o osservando è solo noi stessi come siamo realmente, proprio come quando osserviamo il serpente ciò che stiamo realmente osservando è solo una corda.

Non ho mai capito perché non ha potuto comprendere questo fatto semplice e ovvio, ma per quanto ho cercato di spiegarglielo egli ha continuato ad insistere che in alcuni libri è riportato che quando qualcuno chiese a Bhagavan se ciò che dovremmo investigare è il nostro sé reale o il nostro ego, egli ha risposto che è il nostro ego. In risposta a questo ho cercato di spiegargli che chiunque ha fatto una tale domanda non era ovviamente in grado di comprendere che noi siamo solo uno, così è solo il nostro unico sé che sperimentiamo come se fosse questo ego, e quindi Bhagavan ha risposto in questo modo sapendo che se avesse detto a questa persona che doveva investigare ciò che è realmente, egli avrebbe detto di non sapere ciò che è realmente, così è stato più utile dirgli che sarebbe stato sufficiente se avesse investigato il proprio ego, perché se investighiamo il nostro ego scopriremo infine che ciò che abbiamo confuso con esso è solo noi stessi come siamo realmente.

Nel sedicesimo paragrafo di Nāṉ Yār? Bhagavan ha definito ātma-vicāra o auto-investigazione come segue:
சதாகாலமும் மனத்தை ஆத்மாவில் வைத்திருப்பதற்குத் தான் ‘ஆத்மவிசார’ மென்று பெயர்.

sadā-kālam-um maṉattai ātmāvil vaittiruppadaṟku-t tāṉ ‘ātma-vicāram’ eṉḏṟu peyar.

Il nome ‘ātma-vicāra’ [si riferisce] solo a mantenere sempre la mente nel [o sul] l’ātmā [se stessi].
In questa definizione egli non specifica e neppure vuole dire che ciò che intende con il termine ஆத்மா (ātmā) è solo il nostro ego e non noi stessi. Generalmente quando ha usato questo termine di origine Sanscrita piuttosto che il termine equivalente Tamil தான் (tāṉ), lo intende riferito a noi stessi come siamo realmente (il nostro sé reale o ‘il Sé’ come David abitualmente lo chiama) piuttosto che noi stessi come sembriamo essere (il nostro ego), ma in questo caso possiamo interpretarlo come riferito semplicemente a noi stessi in generale piuttosto che specificatamente a noi stessi o come siamo realmente o come sembriamo essere, perché sia che sperimentiamo noi stessi come siamo realmente sia come questo ego che ora sembriamo essere, sempre siamo lo stesso unico sé, e non c’è sé diverso da quest’unico sé.

In certi contesti è utile distinguere il nostro ego (che è noi stessi come ora sembriamo essere) dal nostro sé reale (noi stessi come siamo realmente), ma in molti contesti non è utile farlo, e in alcuni casi farlo genera confusione. Nel contesto dell’auto-investigazione o ātma-vicāra, non è necessario specificare se il ‘sé’ o ‘ātman’ che stiamo investigando o a cui stiamo dando attenzione è noi stessi come siamo realmente o noi stessi come sembriamo essere, perché sperimentiamo solo un sé o ‘io’ e ciò che stiamo cercando di scoprire e sperimentare è ciò che quest’unico sé o ‘io’ è realmente.

Il termine Sanscrito आत्मन् (ātman) e il termine Tamil தான் (tāṉ) sono entrambi pronomi generici che nel contesto degli insegnamenti di Bhagavan in molti casi sono al meglio tradotti semplicemente come ‘se stesso’, ‘me stesso’ o ‘noi stessi’, perché come Bhagavan spesso usava dire, siamo solo un sé, così noi stessi siamo il solo sé che abbiamo bisogno di investigare e conoscere come è realmente. Per esempio nel verso 33 di Uḷḷadu Nāṟpadu egli dice: ‘இரு தான் உண்டோ? ஒன்று ஆய் அனைவர் அனுபூதி உண்மை ஆல்’ (iru tāṉ uṇḍō? oṉḏṟu āy aṉaivar aṉubhūti uṇmai āl), che significa, ‘ci sono due sé? Perché essere uno è la verità dell’esperienza di tutti’.
Poiché siamo solo un sé, sia che sperimentiamo noi stessi come se fossimo questo ego sia come siamo realmente, è ovviamente sufficiente se investighiamo solo questo ego, perché se facciamo così scopriremo che ciò che sembra essere questo ego è solo il nostro unico sé, che è ciò che sempre siamo realmente. Se abbiamo paura vedendo ciò che sembra essere un serpente, è sufficiente che lo osserviamo attentamente per vedere ciò che è realmente. Non abbiamo bisogno di andare in cerca di una corda, perché se osserviamo il serpente apparente sufficientemente da vicino vedremo che è solo una corda. Nello stesso modo, se immaginiamo che il nostro sé reale sia qualcosa diversa da ciò che sembra essere il nostro ego, non abbiamo bisogno di andare ovunque in cerca di esso, perché se osserviamo il nostro ego sufficientemente da vicino vedremo che è solo il nostro sé reale.

Osservando molto attentamente il nostro ego, (metaforicamente parlando) ci stiamo tenendo stretti ad esso (cioè, lo stiamo mantenendo nella nostra consapevolezza come il centro della nostra attenzione), ma poiché ciò che sembra essere questo ego è realmente solo noi stessi (il nostro unico sé, che è ciò che sempre siamo realmente), tenendoci stretti al nostro ego ci stiamo realmente tenendo stretti a noi stessi.

7. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 33: non siamo due sé, come se uno fosse un oggetto conosciuto dall’altro

David ha scritto nel suo commento citato sopra, “Non si può tenersi stretti al sé senza prima rimuovere l’ostacolo a una consapevolezza diretta di esso – cioè il pensiero-‘io’”, ma questo sembra comportare che il nostro sé reale è qualcosa di cui non siamo consapevoli. Tuttavia, se non fossimo sempre consapevoli del nostro sé reale, significherebbe che ātma-jñāna (auto-conoscenza o consapevolezza di ciò che siamo realmente) è una conoscenza o consapevolezza che acquisiremo solo in futuro, così sarebbe solo un’esperienza temporanea o limitata nel tempo, e come Bhagavan era solito dire, qualunque cosa è da poco acquisita presto o tardi sarà perduta, e qualunque cosa appare prima o poi deve scomparire. Quindi egli ha sempre insistito sul fatto che ātma-jñāna non è una nuova conoscenza che dobbiamo acquisire, ma è ciò che sperimentiamo sempre, e che ciò che è chiamato conseguimento di ātma-jñāna è realmente solo la rimozione dell’ignoranza che ora la sembra oscurare.

In altre parole, siamo sempre consapevoli di noi stessi, ma la nostra consapevolezza di noi stessi come siamo realmente ora sembra essere oscurata perché l’abbiamo mischiata e confusa con la consapevolezza di altre cose. Quindi per essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente senza alcun oscuramento, tutto ciò di cui abbiamo bisogno è mettere da parte la nostra consapevolezza di qualsiasi altra cosa cercando di essere consapevoli soltanto di noi stessi. Quando riusciamo a isolare noi stessi da qualsiasi altra cosa e quindi ad essere consapevoli soltanto di noi stessi, ci sperimenteremo come siamo realmente senza alcun oscuramento, e questo è ciò che è chiamato il conseguimento di ātma-jñāna. Quindi il conseguimento di ātma-jñāna non è il conseguimento di qualcosa che non sperimentiamo già, ma è solo la rimozione di qualsiasi altra cosa, che sembra oscurarla.

Questo è ciò che Bhagavan intende chiaramente nel verso 33 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
என்னை யறியேனா னென்னை யறிந்தேனா
னென்ன னகைப்புக் கிடனாகு — மென்னை
தனைவிடய மாக்கவிரு தானுண்டோ வொன்றா
யனைவரனு பூதியுண்மை யால்.

eṉṉai yaṟiyēṉā ṉeṉṉai yaṟindēṉā
ṉeṉṉa ṉahaippuk kiḍaṉāhu — meṉṉai
taṉaiviḍaya mākkaviru tāṉuṇḍō voṉḏṟā
yaṉaivaraṉu bhūtiyuṇmai yāl
.
பதச்சேதம்: ‘என்னை அறியேன் நான்’, ‘என்னை அறிந்தேன் நான்’ என்னல் நகைப்புக்கு இடன் ஆகும். என்னை? தனை விடயம் ஆக்க இரு தான் உண்டோ? ஒன்று ஆய் அனைவர் அனுபூதி உண்மை ஆல்.

Padacchēdam (separazione delle parole): ‘eṉṉai aṟiyēṉ nāṉ’, ‘eṉṉai aṟindēṉ nāṉ’ eṉṉal nahaippukku iḍaṉ āhum. eṉṉai? taṉai viḍayam ākka iru tāṉ uṇḍō? oṉḏṟu āy aṉaivar aṉubhūti uṇmai āl.

அன்வயம்: ‘நான் என்னை அறியேன்’, ‘நான் என்னை அறிந்தேன்’ என்னல் நகைப்புக்கு இடன் ஆகும். என்னை? தனை விடயம் ஆக்க இரு தான் உண்டோ? அனைவர் அனுபூதி உண்மை ஒன்றாய்; ஆல்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): ‘nāṉ eṉṉai aṟiyēṉ’, ‘nāṉ eṉṉai aṟindēṉ’ eṉṉal nahaippukku iḍaṉ āhum. eṉṉai? taṉai viḍayam ākka iru tāṉ uṇḍō? aṉaivar aṉubhūti uṇmai oṉḏṟu āy; āl.

Traduzione: Dire ‘io non conosco me stesso’ o ‘io conosco me stesso’ è soggetto al ridicolo. Perché? Per fare di se stesso viṣaya [un oggetto conosciuto], ci sono forse due sé? Perché essere uno è la verità dell’esperienza di tutti.
Perché è ridicolo dire ‘Io ho conosciuto me stesso’? Perché quando sperimentiamo noi stessi come siamo realmente, non sperimenteremo più noi stessi come questo ego, e quindi non ci sarà un ‘io’ separato rimasto a dire ‘io ho conosciuto me stesso’. Se diciamo ‘io ho conosciuto me stesso’, chiaramente stiamo ancora sperimentando noi stessi come un ‘io’ separato (un ego), e quindi non abbiamo ancora sperimentato noi stessi come siamo realmente. Ciò che sperimenta noi stessi come siamo realmente non è il nostro ego ma solo noi stessi come siamo realmente (il nostro sé reale), e ciò che siamo realmente non ha bisogno e non può dire ‘io ho conosciuto me stesso’, perché come tali noi soltanto esistiamo, e quindi non c’è nient’altro per noi da conoscere o da informare del fatto che conosciamo noi stessi.

Ma poiché ora sperimentiamo noi stessi come questo ego, perché è ridicolo che diciamo ‘io non conosco me stesso’? Perché anche quando sperimentiamo noi stessi come questo ego, stiamo ancora sperimentando noi stessi (il solo unico sé che esiste), sebbene è una forma distorta e oscurata come questo ego. Noi che ora sembriamo essere questo ego siamo realmente solo ciò che sempre siamo, che è l’unica realtà infinita, così proprio come ciò che stiamo realmente vedendo è solo una corda anche quando sembra essere un serpente, ciò che sempre sperimentiamo realmente come noi stessi è solo ciò che siamo realmente anche quando sembriamo essere questo ego. In altre parole, non siamo mai non-consapevoli di noi stessi (ciò che siamo realmente) anche se noi stessi, di cui siamo sempre consapevoli, ora sembriamo essere questo ego.

Come Bhagavan spesso diceva, il nostro ego non può mai completamente nascondere o celare noi stessi (ciò che siamo realmente) ma può solo far sembrare noi stessi qualcosa diversa da ciò che siamo realmente. Anche quando sperimentiamo noi stessi come ‘io sono questo corpo’, stiamo ancora sperimentando la nostra esistenza, ‘io sono’, che è tutto ciò che siamo realmente. Poiché questa auto-consapevolezza erronea ‘io sono questo corpo’ è ciò che è chiamato ego, il nostro ego non è altro che una mescolanza confusa di noi stessi come siamo realmente (che è ciò a cui essenzialmente si riferisce il termine ‘io sono’) e di aggiunte (iniziando con la nostra prima aggiunta, che è ciò che sperimentiamo come ‘questo corpo’). Come abbiamo visto prima, questo ego è anche chiamato cit-jaḍa-granthi, così ‘io sono’ è il cit essenziale o parte cosciente di esso, che è ciò che siamo realmente, mentre ‘questo corpo’ è il jaḍa non essenziale o parte non cosciente di esso, così poiché siamo sempre consapevoli che ‘io sono’, siamo sempre consapevoli di noi stessi, e quindi sarebbe ridicolo se dicessimo ‘io non conosco me stesso’.

Se diciamo ‘io non conosco me stesso’ o ‘io ho conosciuto me stesso’, intendiamo che ‘me stesso’ è un oggetto o viṣaya – qualcosa diversa da noi stessi – perché ciò che possiamo conoscere o non conosceresono solo oggetti. Poiché siamo sempre consapevoli di noi stessi, non possiamo mai non-conoscere noi stessi, così la questione di conoscere o non conoscere non può sorgere in riferimento a noi stessi. Noi non siamo un oggetto o qualsiasi cosa che potremmo conoscere come un oggetto, perché noi che siamo consapevoli di noi stessi siamo il sé di cui siamo consapevoli.

Questo è il motivo per cui Bhagavan ci chiede in questo verso, ‘தனை விடயம் ஆக்க இரு தான் உண்டோ?’ (taṉai viḍayam ākka iru tāṉ uṇḍō?), che significa, ‘Per fare di se stessi viṣaya [un oggetto conosciuto], ci sono forse due sé?’ Questa è sicuramente una domanda retorica, a cui la risposta ovvia è no, siamo solo un sé, non due, ma per enfatizzare ulteriormente questo punto egli risponde a questa domanda retorica nella frase successiva, ‘ஒன்று ஆய் அனைவர் அனுபூதி உண்மை ஆல்’ (oṉḏṟu āy aṉaivar aṉubhūti uṇmai āl), che significa, ‘Perché essere uno è la verità dell’esperienza di tutti’.

Poiché siamo solo un sé, ciò che ora sembra essere il nostro ego è solo quest’unico sé, che è ciò che siamo realmente, così non ci può mai essere un momento in cui non siamo consapevoli di noi stessi. La vera consapevolezza che ci permette di essere consapevoli di altre cose è la nostra pura auto-consapevolezza, e quella sola è ciò che siamo realmente. Quindi non c’è niente di nuovo per noi da conoscere investigando noi stessi, così il solo scopo e beneficio della nostra auto-investigazione (ātma-vicāra) è la dissoluzione e rimozione del nostro ego, che è ciò che ci fa sembrare di non conoscere noi stessi come siamo realmente.

8. Upadēśa Undiyār verso 21: il nostro sé infinito è sempre il vero significato della parola ‘io’

Dopo aver letto la mia risposta a Viswanathan (che ho riportato sopra nella sesta sezione) un altro amico di nome Sivanarul ha scritto un commento in cui ha detto:
Michael, non sono sicuro su cosa non sei d’accordo con David in questo brano che hai riportato:

E’ mia opinione che questo non sia ciò che Bhagavan ha detto e insegnato. Bhagavan ha insegnato che l’ ‘io’ in cui stiamo indagando è l’‘io’ individuale, non il Sé. Quando fai l’indagine, ti soffermi sul sentire di ‘io’, che è la consapevolezza soggettiva dell’identità individuale. Se la pratica è ben fatta, l’‘io’ individuale sprofonda e scompare, lasciando soltanto il Sé.

Ho pensato che il suddetto commento di David è un’espressione precisa dell’insegnamento di Bhagavan. Noi siamo solo consapevoli di questo ego come ‘io’ e il sentire di ‘io’. Bhagavan non usava ‘io-io’ per indicare il Sé (l’‘io’ reale)? Così durante l’indagine non stiamo lavorando con l’ego ‘io’ e come David dice, se la pratica è ben fatta, esso sprofonderà lasciando ‘io-io’?

Nello stato di veglia, poiché l’ego è il nostro mediatore di tutte le esperienze e poiché la Sadhana può essere fatta (almeno inizialmente) solo nello stato di veglia, non è l’ego il mezzo con cui lavoriamo? Sebbene il Sé e l’ego, dopo il risveglio, non saranno due cose differenti, per ora si sentono come due cose differenti e l’ego è la sola cosa visibile (nello stato di veglia).
In risposta a questo è scritto un’altra serie di due commenti nei quali ho detto:
Sivanarul, non sono in disaccordo con David quando dice che l’auto-indagine comporta l’investigare o il dare attenzione al nostro ego, ma sono in disaccordo con lui quando da questo deduce che ciò quindi non comporta l’investigare o dare attenzione a ciò che siamo realmente (il nostro sé reale), perché come ho spiegato nella prima parte della mia risposa a Viswanathan, ciò che sembra essere il nostro ego è solo ciò che siamo realmente, proprio come ciò che sembra essere un serpente è solo la corda che è realmente.

Quando David scrive, ‘Non si può tenersi stretti al Sé senza prima rimuovere l’ostacolo a una consapevolezza diretta di esso – cioè il pensiero-‘io’’, egli sembra intendere che ora non siamo direttamente consapevoli di noi stessi, che è ovviamente non corretto. L’auto-consapevolezza è la nostra vera natura, così non possiamo mai non essere consapevoli di noi stessi mischiati con la consapevolezza di un corpo che è chiamato l’ego, il pensiero chiamato ‘io’ o il cit-jaḍa-granthi.

In questo cit-jaḍa-granthi, la parte cit o cosciente è ciò che siamo realmente (il nostro sé reale) mentre la parte jaḍa o non-cosciente è il nostro corpo, che è ciò che ora sembriamo essere. Quindi quando Bhagavan ha detto (come registrato nel capitolo finale di Maharshi’s Gospel, edizione 2002, p. 89), ‘Nella nostra investigazione nella sorgente di aham-vritti [il pensiero chiamato ‘io’, l’ego], prendi l’aspetto essenziale cit [consapevolezza] dell’ego; e per questa ragione l’indagine deve condurre alla realizzazione della pura consapevolezza del Sé’, ciò che intendeva è che ciò che dobbiamo investigare o a cui dobbiamo dare attenzione è solo ‘l’aspetto essenziale cit dell’ego’, che è noi stessi come siamo realmente (il nostro sé reale), e non il suo aspetto jaḍa, che è il nostro corpo e tutte le altre aggiunte che ora confondiamo come noi stessi.

Il nostro ego (il nostro pensiero primario chiamato ‘io’) non ostruisce completamente la consapevolezza di noi stessi come siamo realmente, solo la oscura solamente, facendola sembrare qualcosa diversa da ciò che è realmente. Quindi quando il nostro ego infine sprofonda e si dissolve in noi stessi, la sorgente dalla quale è sorto, non sperimenteremo qualcosa diversa da ciò che abbiamo sempre sperimentato, vale a dire noi stessi, ma sperimenteremo solo noi stessi senza alcuna delle aggiunte oscuranti che ora sperimentiamo come se fossero noi stessi, Questo è il motivo per cui Bhagavan spesso ha detto che ātma-jñāna non è una nuova conoscenza che dobbiamo acquisire, ma è solo la rimozione dell’ignoranza che ora sembra oscurare l’ ātma-jñāna che sempre risplende all’interno di noi come noi stessi.

Riguardo il commento di David che ‘Bhagavan ha detto che il Sé non ha bisogno di essere indagato’, questo mi sembra una sottile distorsione o fraintendimento di ciò che Bhagavan intendeva. Ciò che siamo realmente (il nostro sé reale) non ha bisogno di niente, così noi come siamo realmente non abbiamo bisogno di essere investigati o di investigare qualcosa, perché noi come siamo realmente sempre sperimentiamo noi stessi come siamo realmente. Tuttavia, questo è tutto vero solo dalla prospettiva di noi stessi come siamo realmente, mentre dalla prospettiva di noi stessi come ora sembriamo essere (vale a dire questo ego), abbiamo bisogno di investigare ciò che siamo realmente per sperimentare noi stessi come siamo realmente. Questo è il motivo per cui Bhagavan era solito dire che l’auto-investigazione (ātma-vicāra) ha bisogno di essere fatta solo dal, e per il bene del nostro ego, e non dal, e per il bene del nostro sé reale.

Riguardo la tua domanda, ‘Bhagavan usava ‘io-io’ per indicare il Sé (‘io’ reale)?’, ti prego di leggere ciò che ho scritto riguardo questo termine ‘io-io’ in நான் நான் (nāṉ nāṉ) significa ‘io sono io’, non ‘io-io’. In alcuni contesti Bhagavan si riferiva alla nostra esperienza di noi stessi come siamo realmente ‘நான் நான்’ (nāṉ nāṉ), che significa ‘io sono io’, ma ovviamente da questo non dovremmo dedurre che ogni volta che ha usato il termine ‘நான்’ (nāṉ) o ‘io’ si stava riferendo solo all’ego. ‘Io’ si riferisce solo a noi stessi, sia che ci sperimentiamo come siamo realmente sia come questo ego, e nel verso 21 di Upadēśa Undiyār egli dice:
நானெனுஞ் சொற்பொரு ளாமது நாளுமே
நானற்ற தூக்கத்து முந்தீபற
நமதின்மை நீக்கத்தா லுந்தீபற.

nāṉeṉuñ coṯporu ḷāmadu nāḷumē
nāṉaṯṟa tūkkattu mundīpaṟa
namadiṉmai nīkkattā lundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: நான் எனும் சொல் பொருள் ஆம் அது நாளுமே, நான் அற்ற தூக்கத்தும் நமது இன்மை நீக்கத்தால்.

Padacchēdam (separazione delle parole): nāṉ eṉum sol poruḷ ām adu nāḷ-um-ē, nāṉ aṯṟa tūkkattu-[u]m namadu iṉmai nīkkattāl.

அன்வயம்: நான் அற்ற தூக்கத்தும் நமது இன்மை நீக்கத்தால், நான் எனும் சொல் பொருள் நாளுமே அது ஆம்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): nāṉ aṯṟa tūkkattum namadu iṉmai nīkkattāl, nāṉ eṉum sol poruḷ nāḷ-um-ē adu ām.

Traduzione: Quello è sempre il significato della parole chiamata ‘io’, a causa dell’assenza della nostra non-esistenza anche nel sonno, che è privo di ‘io’ [l’ego].
Qui ciò a cui egli si riferisce come ‘அது’ (adu) o ‘quello’ è l’unico tutto o realtà infinita che nel verso precedente ha detto che apparirà spontaneamente come ‘நான் நான்’ (nāṉ nāṉ) o ‘io sono io’ dove il nostro ego si fonde, così ciò che egli intende chiaramente in questo verso è che il nostro sé reale è sempre il vero significato del termine ‘நான்’ (nāṉ) o ‘io’.
Proprio come il nostro infinito sé reale è sempre il vero significato del termine ‘நான்’ (nāṉ) o ‘io’, esso è ugualmente sempre il vero significato del termine தான் (tāṉ), ‘se stesso’ o ‘noi stessi’, perché non c’è ‘io’ o ‘sé’ tranne che noi stessi, e noi siamo sempre ciò che siamo realmente.

Nel suo commento che ho citato sopra, David ha scritto, ‘Bhagavan insegnava che l’‘io’ in cui stiamo indagando è l’‘io’ individuale, non il Sé’, ma secondo ciò che Bhagavan ha scritto nel verso 21 di Upadēśa Undiyār, il nostro sé reale è sempre il vero significato del termine ‘io’, così sebbene l’‘io’ che stiamo investigando ora sembra essere questo ego limitato, ciò che esso è realmente è solo il nostro sé infinito. Noi non siamo due ‘io’ separati (e non abbiamo due ‘io’ separati), così c’è solo un ‘io’ o ‘sé’ che possiamo investigare, vale a dire noi stessi.

Se il nostro ‘io’ individuale e il nostro ‘Sé’ fossero due cose interamente separate, potremmo investigare uno senza investigare l’altro, ma poiché essi sono una stessa cosa, non possiamo investigare uno senza investigare contemporaneamente l’altro. Ciò che sembra essere il nostro ‘io’ individuale o ego è solo il nostro ‘Sé’ (ciò che siamo realmente), così quando Bhagavan ci consiglia di investigare il nostro ‘io’ individuale, ci sta consigliando indirettamente di investigare il nostro ‘Sé’, perché il nostro ‘Sé’ è sempre il vero significato di ‘io’, dunque quando osserviamo solo il nostro ‘io’ individuale ciò che vedremo è solo il nostro ‘Sé’.

9. La risposta di David Godman che cita la spiegazione di Muruganar del verso 44 di Akṣaramaṇamālai

Dopo aver scritto la mia risposta a Sivanarul, ho scritto un’email a David informandolo riguardo questa discussione e chiedendogli se gli sarebbe piaciuto scrivere una risposta a ciò che avevo scritto, ed egli ha risposto scrivendo il commento che segue:
Circa la questione se l’auto-indagine comprenda l’attenzione all’‘io’ individuale o al Sé, se ne è occupato Muruganar nel suo commentario al verso 44 di Akasharamanamalai:
tirumpi yakantaṉait tiṉamakak kaṇkāṇ
ṭeriyumeṉ ṟaṉaiyeṉ ṉaruṇācalā.

Traduzione parola per parola:

aruṇācalā – Arunachala!
eṉṟaṉai – Tu dissi
akam tirumpi – ‘Rivolgendosi interiormente...’
tiṉam aka kaṇ taṉai kāṇ – ‘conoscere il Sé costantemente’
ṭeriyum – ‘[Allora] esso sarà conosciuto [a te],’
eṉ – Che meraviglia è questa!

Parafrasi di Muruganar:

[Arunachala!] Rivolgendoti verso il Cuore e lontano dai fenomeni esterni per mezzo del distacco (vairagya), incessantemente e acutamente esamina e conosci il Sé attraverso il sé, con la visione rivolta interiormente che ha la forma dell’indagine “Chi sono io?” Allora tu (tu stesso) conoscerai chiaramente (come la tua vera natura, la verità delle parole, “Tu stesso, Tu solo, sei l’essenza del Reale.”). Così tu mi hai istruito, che meraviglia è questa!

Commentario di Muruganar:

akam tirumpal – ‘rivolgendosi interiormente’ significa ‘cessare di prestare attenzione a oggetti esterni’. L’eliminazione di pensieri [riguardo ad essi] nella mente è qui anche implicito. Attraverso l’osservazione di se stessi con l’occhio interiore, il velo dell’illusione è distrutto e la conoscenza del Reale risplende. Quando parliamo del Sé come l’oggetto dell'indagine, ci stiamo riferendo solo al jiva, che ha la forma dell’ego, non al Sé, alla vera natura dell’‘io’. Perché è così? Prima di tutto perché la sofferenza della nascita, che sorge dall’ignoranza, e il conseguente bisogno di indagine come uno strumento per rimuovere quella sofferenza, appartiene solo al jiva, che è legato dall'illusione ed è sconcertato, non al Sé supremo, che è eternamente presente, puro, consapevole e libero. In secondo luogo perché – quando l’ego, che è l’ostacolo alla realizzazione del Sé, è distrutto attraverso il mezzo dell’indagine – quel Sé può solo essere conosciuto dal jiva con il suo sperimentare quel Sé come la propria natura in pace perfetta (śānta vṛtti). Esso non può mai, in qualsiasi modo, foggia o forma, essere (o divenire) l’oggetto della pratica dell'indagine. Poiché il mondo con i suoi cicli di nascita e morte (saṁsāra) non esistono realmente nella Realtà suprema, ma sorgono a causa di una mancanza di consapevolezza (pramāda), che è la vera morte, indagine incessante è indispensabile fino al momento in cui il nodo-ego, che si trova alla radice di esso, è reciso permanentemente. Quindi Arunachala attraverso la sua grazia ha istruito, ‘Osserva costantemente [l’“io”] con l’occhio interiore.’ [Il significato di] akamukam – rivolto interiormente [è] ‘stabilire la mente nel Cuore, la sua sorgente, senza lasciarla deviare tra i fenomeni esterni.’
Traduzione di Robert Butler.

Penso che Muruganar sostiene la mia tesi che Bhagavan ha insegnato che l’indagine è compiuta ponendo l’attenzione sul ‘pensiero-‘io’, e non focalizzandola sul Sé che è il suo substrato.
Sono grato a David per condividere con noi la traduzione di Robert del commentario di Sri Muruganar del verso 44 di Śrī Aruṇācala Akṣaramaṇamālai, ma la traduzione di Robert sembra leggermente distorta e quindi travisa sottilmente il significato dell’originale (sebbene senza cattiva intenzione), e credo che l’idea di David che Muruganar sostiene inequivocabilmente la sua tesi è sbagliata, come discuterò nella prossima sezione.

10. Śrī Aruṇācala Akṣaramaṇamālai verso 44: riconsiderando il significato della spiegazione di Muruganar

Il verso 44 è uno dei versi più significativi di Śrī Aruṇācala Akṣaramaṇamālai, perché in esso Bhagavan riassume con cura l’essenza del suoi insegnamenti e spiega la pratica di auto-investigazione in termini molto chiari e semplici:
திரும்பி யகந்தனைத் தினமகக் கண்காண்
டெரியுமென் றனையென் னருணாசலா

tirumbi yahandaṉaid diṉamahak kaṇkāṇ
ṭeriyumeṉ ḏṟaṉaiyeṉ ṉaruṇācalā


பதச்சேதம்: ‘திரும்பி அகம் தனை தினம் அகக்கண் காண்; தெரியும்’ என்றனை என் அருணாசலா

Padacchēdam (separazione delle parole): ‘tirumbi aham taṉai diṉam aha-k-kaṇ kāṇ; ṭeriyum’ eṉḏṟaṉai eṉ aruṇācalā

அன்வயம்: அருணாசலா, ‘அகம் திரும்பி, தினம் அகக்கண் தனை காண்; தெரியும்’ என்றனை. என்!

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): aruṇācalā, ‘aham tirumbi, diṉam aha-k-kaṇ taṉai kāṇ; ṭeriyum’ eṉḏṟaṉai. eṉ!

Traduzione: Arunachala, tu hai detto: ‘Rivolgendoti all’interno, vedi te stesso quotidianamente con l’occhio interiore [o uno sguardo verso l’interno]; esso sarà conosciuto’. Che [meraviglia]!
10a. La parafrasi esplicatica (poṙippurai) di Muruganar del verso 44

Nella sua பொழிப்புரை (poṙippurai) o parafrasi esplicativa di questo verso Sri Muruganar interpreta il suo significato implicito come segue:
வைராக்கியத்தால் வெளி விஷயங்களினின்று விமுகமாக வகத்தே திரும்பி, நானாரென வினாவும் விசாரவடிவான அகமுகப் பார்வையால் ஏகாக்கிரமாகத் தன்னைத் தானே இடைவிடா தாராய்ந்து காண். (தானே தானே தத்துவமா முண்மை தன்மயமாகத் தனக்குத் தானே) நன்கு விளங்கும் என்றுபதேசித்தாய். இது வென்னோ?

vairāggiyattāl veḷi viṣayaṅgaḷiṉiṉḏṟu vimukham-āha v-ahattē tirumbi, nāṉ-ār-eṉa viṉāvum vicāra-vaḍivāṉa ahamukha-p pārvaiyāl ēkāggiram-āha-t taṉṉai-t tāṉē iḍaiviḍādu ārāyndu kāṇ. (tāṉē tāṉē tattuvam-ām uṇmai taṉmayam-āha-t taṉakku-t tāṉē) naṉgu viḷaṅgum eṉḏṟupadēśittāy. idu v-eṉṉō!

‘Rivolgendoti all’interno, guardando lontano dai viṣaya [fenomeni] esterni per [mezzo di] vairāgya [assenza di desiderio], investiga incessantemente te stesso e vedi te stesso accuratamente per [mezzo di] uno sguardo rivolto interiormente [o verso se stesso], che è la forma di vicāra [investigazione] che esamina chi sono io. (La verità che è [espressa come] ‘tāṉē tāṉē tattuvam’ [solo se stesso, se stesso certamente, è ciò che è reale] esso, a te stesso come composto di quello) risplenderà chiaramente’ – così hai insegnato. Che [meraviglia] è questa!
Le parole ‘தானே தானே தத்துவம்’ (tāṉē tāṉē tattuvam) sono le parole di apertura del verso precedente, così in questo verso Sri Muruganar interpreta la parola தெரியும் (ṭeriyum), che significa ‘esso sarà conosciuto’, come riferimento a quelle parole nel verso precedente. Cioè, ciò che sarà conosciuto se ci rivolgiamo all’interno e vediamo incessantemente noi stessi è la verità espressa da ‘தானே தானே தத்துவம்’ (tāṉē tāṉē tattuvam).

தானே (tāṉē) è una forma intensificata di தான் (tāṉ), che significa ‘se stesso’, e che può anche essere usata come un intensificativo nel senso di ‘esso stesso’, ‘solo’ o ‘certamente’, così in questo caso la prima தானே (tāṉē) significa ‘soltanto se stesso’ o ‘solo se stesso’ e la seconda தானே (tāṉē) intensifica o enfatizza la prima ancora di più, così ‘தானே தானே’ (tāṉē tāṉē) significa ‘solo se stesso, se stesso certamente’ o qualcosa a quell’effetto.

Altrimenti la seconda தானே (tāṉē) può essere interpretata come una ripetizione della prima per enfatizzarla, nel qual caso ‘தானே தானே’ (tāṉē tāṉē) significa ‘solo se stesso, solo se stesso’, o queste due parole possono essere interpretate come una proposizione con il significato di ‘se stesso soltanto è se stesso’ (o ‘io sono solo io’), intendendo quindi che ciò che siamo realmente è solo noi stessi e nient’altro che noi stessi. தத்துவம் (tattuvam) è una forma Tamil della parola Sanscrita तत्त्व (tattva), che significa letteralmente ‘quelloità’ o ‘essoità’, ma che in questo caso significa ciò che è reale o vero. Così ‘தானே தானே தத்துவம்’ (tāṉē tāṉē tattuvam) è un modo molto enfatico per dire che solo se stesso è ciò che è reale, o che ciò che è vero è solo che se stesso è solo se stesso e nient’altro che se stesso.

Bhagavan ci ha insegnato che il solo modo per sperimentare questa verità che noi stessi siamo la sola cosa che è reale, e che ciò che siamo realmente è solo noi stessi e nient’altro che noi stessi, è rivolgere la nostra attenzione all’interno e cercare costantemente di vedere o sperimentare soltanto noi stessi per mezzo di un’attenzione acutamente interiorizzata o rivolta verso se stessa, e in questo verso egli dice che questo è ciò che gli fu insegnato da Arunachala. Tuttavia, poiché Arunachala è il nostro sé reale, e poiché la sua forma esteriore è una montagna, essa non può insegnare questo in parole, così l’implicazione è che questo è ciò che Arunachala ci sta sempre insegnando nel silenzio. Questa è l’implicazione della parola என் (eṉ), che può significare sia ‘mio’ che ‘quale’, ma che Muruganar interpreta nel secondo senso come un’esclamazione di meraviglia.

Come è spesso il caso in questi versi di Akṣaramaṇamālai, Bhagavan usa questa parola என் (eṉ) per esprimere due significati. In primo luogo egli la usa per esprimere la sua meraviglia per ciò che Arunachala gli ha insegnato nel silenzio, semplicemente per mezzo del suo pensare ad essa da lontano, e in secondo luogo egli la usa per esprimere la sua intimità con essa, ‘mia Arunachala’.

Nella mia traduzione della parafrasi esplicativa di Muruganar ho cercato di tradurre ciascuna parola più letteralmente e fedelmente possibile, ma non è possibile trasmettere la piena forza e la sottile implicazione di tutte le parole che egli usa, in modo particolare il suo uso ripetuto della parola தான் (tāṉ), ‘se stesso’ o ‘tu stesso’, e varie forme di esso, come la sua forma accusativa தன்னை (taṉṉai) e la sua forma dativa தனக்கு (taṉakku). Il modo in cui egli usa queste e altre parole come அகத்தே (ahattē), che significa ‘all’interno’ nel senso di ‘all’interno di te stesso’ o ‘nel tuo cuore’, e அகமுகப் பார்வையால் (ahamukha-p pārvaiyāl), che significa ‘con sguardo rivolto all’interno [o verso se stesso]’, enfatizza fortemente l’immediatezza e l’intimità di ciò che stiamo investiando, vale a dire noi stessi.

Nel verso தினம் (diṉam) è un sostantivo che significa ‘giorno’, ma è anche spesso usato come un avverbio che significa ‘quotidianamente’ ma secondo Muruganar in questo contesto ciò che esso significa è இடைவிடாது (iḍaiviḍādu), che significa ‘incessantemente’ o ‘costantemente’. அகக்கண் (aha-k-kaṇ) significa letteralmente ‘occhio interiore’, che intende la nostra attenzione o consapevolezza, ma Muruganar lo interpreta nel significato di அகமுகப் பார்வையால் (ahamukha-p pārvaiyāl), ‘per [mezzo di] uno sguardo rivolto all’interno [o verso se stesso], e che intende ‘con auto-attentività’ o ‘guardando dentro te stesso’.

Interpretando questo verso Muruganar separa அகந்தனை (ahandaṉai) come due parole, அகம் (aham), che in questo caso significa ‘dentro’ o ‘all’interno’, e தனை (taṉai), che è una forma contratta di தன்னை (taṉṉai), la forma accusativa di தான் (tāṉ), che significa ‘se stesso’ o in questo caso ‘tu stesso’ Tuttavia, poiché தன்னை (taṉṉai) e altre forme di தான் (tāṉ) possono essere usate come un suffisso che segna il caso di qualunque sostantivo a cui è apposto, அகந்தனை (ahandaṉai) può altrimenti essere interpretata come una forma accusativa di அகம் (aham), nel qual caso significherebbe ‘io’, e ‘திரும்பி அகந்தனை தினம் அகக்கண் காண்’ (tirumbi ahan-daṉai diṉam aha-k-kaṇ kāṇ) significherebbe allora ‘girarsi indietro, vedere ‘io’ quotidianamente con l’occhio interiore’. Tuttavia poiché in questo contesto sia ‘tu stesso’ che ‘io’ si riferiscono solo a noi stessi, questa interpretazione alternativa ha essenzialmente lo stesso significato dell’interpretazione di Muruganar.

10b. Le frasi iniziali del commentario (virutti-v-urai) di Muruganar

La prima parola di questo verso, திரும்பி (tirumbi), è un participio verbale che significa ‘voltarsi’, ‘voltarsi indietro’ o ‘ritornare’, e அகம் (aham) è sia una parola di origine Tamil che significa ‘dentro’, ‘all’interno’, ‘cuore’, ‘mente’ o ‘casa’, sia una parola di origine Sanscrita che significa ‘io’, così secondo l’interpretazione di Muruganar திரும்பி அகம் (tirumbi aham) significa ‘voltarsi all’interno’ o ‘ritornare all’interno’. Tuttavia egli inizia il suo commentario (virutti-v-urai) di questo verso elaborando su questa interpretazione, spiegando prima di tutto che essa comporta ‘புறவிடயச் சுட்டறுத்தல்’ (puṟa-viḍaya-c cuṭṭaṟuttal), che significa ‘tagliare [terminare o sradicare] l’attenzione ai viṣayas [fenomeni] esterni’, e poi aggiungendo ‘அகத்தே விக்ஷேபங்களை விலக்கலும் உபலக்ஷணத்தா லுடன் கொள்க’ (ahattē vikṣēpaṅgaḷai vilakkalum upalakṣaṇattāl uḍaṉ koḷga), che significa ‘per connessione prendi insieme con [quello] anche il prevenire vikṣēpas [spargimenti, dispersioni, movimenti, attività o distrazioni] all’interno [o nella mente]’. In altre parole, ciò che Muruganar spiega è che திரும்பி அகம் (tirumbi aham) implica il volgere la nostra attenzione lontano non solo da tutti i fenomeni esterni (fenomeni fisici) ma anche da tutti i generi di fenomeni interni (fenomeni mentali).

Muruganar poi spiega, தன்னை அகக்கண்ணாற் காண்டலால் ஆவரணமழித்து தத்வஜ்ஞான தர்சன முண்டாம்’ (taṉṉai aha-k-kaṇṇāl kāṇḍalāl āvaraṇam-aṙittu tatva-jñāṉa darśaṉam uṇḍām), che significa ‘vedendo se stesso per mezzo del [proprio] occhio interiore [o sguardo rivolto all’interno] tattva-jñāṉa-darśaṉa [esperienza di conoscenza di ciò che è reale] sorgerà distruggendo āvaraṇa [‘copertura’ o auto-ignoranza]. Il termine āvaraṇa significa letteralmente coprire o velare, ed è un termine usato per descrivere l’auto-ignoranza, il potere fondamentale di māyā o auto-illusione, con il quale oscuriamo misteriosamente la nostra conoscenza di noi stessi come siamo realmente. Il potere secondario di māyā è chiamato vikṣēpa, che significa letteralmente spargimento o dispersione, e che è il potere con cui proiettiamo o fabbrichiamo la molteplicità (l’apparenza di tutti i fenomeni, sia mentali che apparentemente fisici). Mentre vikṣēpa è manifesto solo nella veglia e nel sogno ma sprofonda nel sonno, āvaraṇa resiste in tutti questi tre stati e può essere distrutta solo per mezzo dell’auto-conoscenza, che è ciò che Muruganar descrive qui come tattva-jñāṉa-darśaṉa, il vedere o l’esperienza di conoscenza di ciò che è reale.

Dunque l’implicazione di questa frase e di quella precedente è che mentre possiamo evitare vikṣēpa solamente volgendo la nostra attenzione lontano da tutti i fenomeni (come facciamo quando ci addormentiamo), possiamo distruggere āvaraṇa solo vedendo noi stessi con il nostro occhio interiore o sguardo rivolto interiormente. Vikṣēpa è come l’immagine proiettata sullo schermo di un cinema, mentre āvaraṇa è come l’oscurità di fondo in cui queste immagini appaiono. Che immagini siano proiettate o meno, āvaraṇa resiste e può essere distrutta solo dalla luce di pura auto-consapevolezza che sorge solo quando guardiamo esclusivamente e soltanto noi stessi.

10c. La spiegazione di Muruganar di ‘se stesso’ (taṉai), il viṣaya per l’investigazione

La frase successiva nel commentario di Muruganar è quella che Robert ha tradotto come: “Quando parliamo del sé come l’oggetto dell’indagine, ci stiamo riferendo solo al jiva, che è la forma dell’ego, non al Sé, la vera natura dell’‘io’”. Quando ho letto questo commento di David, mi sono chiesto quale termine Tamil Robert ha tradotto come ‘l’oggetto dell’indagine’, perché strettamente parlando non c’è un oggetto nell’auto-investigazione, poiché il termine ‘oggetto’ comporta qualcosa diversa dal soggetto sperimentante, mentre l’auto-investigazione è solo il nostro investigare noi stessi, che sembriamo essere il soggetto finché sperimentiamo qualsiasi oggetto (qualsiasi cosa diversa da noi stessi), ma che realmente siamo la base da cui appaiono sia il soggetto che l’oggetto.

Quando ho controllato questa frase nell’originale, ho scoperto che il termine usato da Muruganar che Robert aveva tradotto come ‘l’oggetto dell’indagine’ era ‘விசாரத்துக்கு விஷயம்’ (vicārattukku viṣayam), che significa letteralmente ‘l’ambito a [o per] l’investigazione’ (o la sfera, il territorio, il dominio o l’estensione per l’investigazione) nel senso del limite a ciò che deve essere investigato, o che potrebbe anche essere interpretato nel significato di ‘il soggetto per l’investigazione’ nel senso del soggetto o questione che deve essere investigata. Benché in alcuni contesti விஷயம் (viṣayam) può significare un oggetto nel senso di un oggetto di percezione, questo non è il senso in cui è usato in questo contesto.

Ciò che Muruganar ha scritto realmente in questa frase è:
விசாரத்துக்கு விஷயமாகத் தன்னைக் கூறியதில் ‘தன்னை’ என்றது அகந்தை வடிவான ஜீவனையே யன்றி அகம்சொரூபமான ஆன்மாவை யன்றாம்.

vicārattukku viṣayamāha-t taṉṉai-k kūṟiyadil ‘taṉṉai’ eṉḏṟadu ahandai vaḍivāṉa jīvaṉaiyē y-aṉḏṟi aham-sorūpam-āṉa āṉmāvai y-aṉḏṟām.

Nel dichiarare se stesso come il viṣaya [l’ambito o soggetto] per l’investigazione, ciò che è detto [o descritto] come ‘se stesso’ non è ātman, che è aham-svarūpa [la forma propria di io], ma solo il jīva, che è la forma dell’ego.
A prima vista sembra che ciò che Sri Muruganar intende dicendo questo è che ciò che abbiamo bisogno di investigare non è qualcosa presumibilmente sconosciuta come l’ātman, che è la vera natura di io (noi stessi), ma solo noi stessi come questo ego o jīva (anima o sé limitato). Cioè, non abbiamo bisogno di preoccuparci di investigare qualcosa che immaginiamo di non conoscere già, ma possiamo limitare la sfera o l’ambito della nostra investigazione solo all’ego o jīva che ora sperimentiamo come noi stessi.

Tuttavia se consideriamo più attentamente il significato della congiunzione அன்றி (aṉḏṟi), che ho tradotto qui come ‘ma solo’, ma per la quale non c’è realmente un esatto equivalente Inglese, emerge un’implicazione più profonda e più sfumata. Benché in frasi di questa struttura è spesso tradotto come ‘ma solo’, che è appropriato solo quando si parla di due cose o due tipi di cose che sono mutualmente esclusive o chiaramente distinte, come quando si dice ‘non ci sono cani ma solo gatti’, ma non quando si parla di cose che non sono così esclusive o distinte, come quando si dice ‘non ci sono colori eccetto il rosso’, nel qual caso அன்றி (aṉḏṟi) dovrebbe essere tradotto come ‘eccetto’ o ‘tranne’. Quindi, poiché l’ ātman e l’ego o jīva non sono due cose del tutto differenti o mutualmente esclusive ma solo la stesa cosa sperimentata differentemente, in questo caso sarebbe senza dubbio più appropriato tradurre அன்றி (aṉḏṟi) come ‘eccetto’ o ‘tranne’ piuttosto che come ‘ma solo’.

Cioè, poiché ciò che si intende qui con il termine ātman è noi stessi come siamo realmente, mentre ciò che si intende con il termine ego o jīva è noi stessi come sembriamo essere, potremmo tradurre அன்றி (aṉḏṟi) come ‘eccetto come’, nel qual caso il significato di questa frase sarebbe:
Nel dichiarare se stesso come il viṣaya [l’ambito o soggetto] per l’investigazione, ciò che è detto [o descritto] come ‘se stesso’ non è ātman, che è aham-svarūpa [la forma propria di io], eccetto come jīva, che è la forma dell’ego.
Così l’implicazione più profonda è che ciò che è descritto come ‘se stesso’ (il viṣaya per l’investigazione) non è ātman eccetto come jīva, o in altre parole, non è ātman come è ma solo ātman come jīva. Cioè, non è noi stessi come siamo realmente ma solo noi stessi come questo jīva o ego. Poiché non sperimentiamo noi stessi come siamo realmente, non possiamo investigare direttamente noi stessi come siamo realmente, ma possiamo solo investigare noi stessi come attualmente sembriamo essere, vale a dire questo ego. Quindi in questa frase Muruganar non intende escludere ātman (noi stessi come siamo realmente) interamente dalla nostra investigazione, ma solo intende dire che il viṣaya (ambito o soggetto) per l’investigazione non è ātman come ātman ma solo ātman come jīva.

10d. La chiarificazione di Muruganar riguardo il viṣaya per l’investigazione

Dopo aver fatto questa dichiarazione, Muruganar ha scritto ‘என்னை?’ (eṉṉai?), che è un pronome interrogativo che Robert ha tradotto come ‘perché così?’ ma che significa più precisamente ‘cosa?’ e che in questo contesto è usato nel senso di ‘cosa si intende dicendo questo?’, così nella frase successiva egli ha chiarificato ciò che intendeva:
அவிச்சை விளைவான பிறவித் துன்பமும் அதன் நீக்கத்துக் குபாயமான விசாரத்துக் காவசியகமும் மோகத்தாற் கட்டுண்டு கலங்கும் ஜீவனுக்கன்றி அநாதியே நித்த சுத்த புத்த முக்தமான ஆன்மாவுக் கின்மையாலும், அவ் வான்மாதான், ஆன்மஸாக்ஷாத்காரத்துக்குப் பிரதிபந்தமான அகந்தை அவ்விசாரத்தின் பயனாக அழியவே, ஜீவனுக்கு அவன் சொரூபமேயாக நின்று சாந்த விருத்தியாற் றன்மயமாக அவனா லறிந்தனுபவிக்கப் படலன்றி, என்றும் எவ்விதத்திலும் அவன் சாதன விசாரத்துக்குச் சற்றும் அஃது விஷயம் அன்மையாலும் (ஆகாமையாலும்) எங்க.

aviccai viḷaivāṉa piṟavi-t tuṉbamum adaṉ nīkkattuk kupāyam-āṉa vicārattuk kāvaśiyakamum mōhattāl kaṭṭuṇḍu kalaṅgum jīvaṉukkaṉḏṟi anādiyē nitta śuddha buddha muktam-āṉa āṉmāvuk kiṉmaiyālum, a-vv-āṉmā-dāṉ, āṉma-sākṣātkārattukku-p piratibandhamāṉa ahandai a-v-vicārattiṉ payaṉ-āha aṙiyavē, jīvaṉukku avaṉ sorūpamē-y-āha niṉḏṟu śānta-viruttiyāl taṉmayam-āha avaṉāl āṟindaṉubhavikka-p-paḍal-aṉḏṟi, eṉḏṟum evvidhattilum avaṉ sādhaṉa vicārattukku-c caṯṟum aḵdu viṣayam aṉmaiyālum (āhāmaiyālum) eṅga.

Ciò possa essere detto perché la miseria della nascita, che è il risultato dell’ignoranza, e la necessità di vicāra [investigazione], che è il mezzo per la rimozione di quella [ignoranza], non esistono per l’ātman, che senza alcun inizio è eterna, pura, risvegliata e liberata, ma solo per il jīva, che è legato e confuso [o agitato] dall’illusione, e perché essa [ātman] non è (e non diviene [o non è adatta ad essere]) mai o in ogni modo l’ambito anche minimamente per vicāra, la sua sādhana [del jīva], tranne che quando l’ego, che è l’ostacolo a ātma-sākṣātkāra [esperienza diretta di ātman], è distrutto come risultato di quella vicāra, per il jīva quella stessa ātman rimarrà come solo la sua svarūpa [forma propria] e sarà conosciuta e sperimentata da lui come tanmaya [composto di quello] per mezzo di śānta-vṛtti [lo stato di pace].
Benché le due proposizioni ‘perché’ che formano questa frase possono farla apparire come una spiegazione di ciò che egli scrisse nella frase precedente, vale a dire che il viṣaya (ambito o soggetto) per l’auto-investigazione è se stesso non come ātman ma solo come jīva o ego, ciò che Muruganar ha scritto in questa frase è una chiarificazione di ciò che intendeva piuttosto che una spiegazione di perché lo ha detto.

Questa è una frase relativamente lunga e complessa, così per comprendere correttamente la connessione logica tra le varie idee che egli esprime in essa è necessario comprendere la sua struttura grammaticale. Il verbo principale della frase è la sua parola finale, l’ottativo எங்க (eṅga), che significa ‘possa essere detto’, e che si collega a ciascuna delle due proposizioni ‘perché’ che formano la struttura principale della frase.

Queste due proposizioni ‘perché’ sono più precisamente due proposizioni ‘per’ (in cui ‘per’ è usato nel senso di ‘come risultato di’ o ‘a causa di’), perché in ciascun caso la particella (o morfema) che ho tradotto come ‘perché’ è il suffisso ஆல் (āl), che è il segnatore di caso strumentale, e che in entrambe le proposizioni è collegato a un sostantivo verbale. Quindi benché ho tradotto la struttura basilare della prima proposizione come ‘perché la miseria della nascita e la necessità di vicāra non esistono per l’ātman ma solo per il jīva’, una traduzione più letterale di esso sarebbe ‘per [o come risultato de] la miseria della nascita e la necessità di vicāra non esistenti per l’ātman ma solo per il jīva’. Nello stesso modo, benché ho tradotto la struttura basilare della seconda proposizione come ‘perché essa [ātman] non è (e non diviene [o non è adatta ad essere]) l’ambito per vicāra, la sua sādhana [del jīva]’, una traduzione più letterale di essa sarebbe ‘per [o come risultato di] essa [ātman] non essendo (e non divenendo [o non essendo adatta ad essere]) l’ambito per vicāra, la sua sādhana [del jīva]’.

In ciascuna di queste due proposizioni ‘per’ o 'perché’ la parte principale è preceduta da una proposizione d’eccezione, che è collegata ad essa dalla congiunzione அன்றி (aṉḏṟi), che significa ‘tranne’, ma che ho tradotto come ‘ma solo’ nella prima proposizione ‘perché’. Sebbene in Tamil ciascuna di queste proposizioni d’eccezione viene prima della parte principale della propria rispettiva proposizione ‘perché’, e benché la sua congiunzione அன்றி (aṉḏṟi) viene alla fine di essa, per trasmettere il significato di ciascuna proposizione Tamil in Inglese è necessario rovesciare quest’ordine, prima con la parte principale di ciascuna proposizione ‘perché’, seguita dalla congiunzione e poi dal resto della proposizione d’eccezione.

Nella prima proposizione ‘perché’ la sua proposizione d’eccezione e la parte principale condividono lo stesso soggetto, vale a dire ‘அவிச்சை விளைவான பிறவித் துன்பமும் அதன் நீக்கத்துக் குபாயமான விசாரத்துக் காவசியகமும்’ (aviccai viḷaivāṉa piṟavi-t tuṉbamum adaṉ nīkkattuk kupāyam-āṉa vicārattuk kāvaśiyakamum), che significa ‘la miseria della nascita, che è il risultato dell’ignoranza, e la necessità di vicāra, che è il mezzo per la rimozione di quella [ignoranza]’. Questo è seguito dalla proposizione d’eccezione, vale a dire ‘மோகத்தால் கட்டுண்டு கலங்கும் ஜீவனுக்கு அன்றி’ (mōhattāl kaṭṭuṇḍu kalaṅgum jīvaṉukku aṉḏṟi), che significa ‘tranne [o ma solo] per il jīva, che è legato e confuso [o agitato dall’illusione]’, e più la parte principale di essa, vale a dire ‘அநாதியே நித்த சுத்த புத்த முக்தமான ஆன்மாவுக்கு இன்மையாலும்’ (anādiyē nitta śuddha buddha muktam-āṉa āṉmāvukku iṉmaiyālum), che significa ‘perché [miseria e necessità di vicāra] non esistono per l’ātman, che senza alcun inizio è eterna, pura, risvegliata e liberata’. Così il significato basilare di questa prima proposizione è ‘perché miseria e la necessità di vicāra non esistono per l’ātman ma solo per il jīva’.

La seconda proposizione ‘perché’ è più complessa della prima, e la sua proposizione d’eccezione è una divisione di essa più distinta, così benché la sua proposizione d’eccezione e la sua parte principale condividono lo stesso soggetto, vale a dire ‘அவ் வான்மாதான்’ (a-vv-āṉmā-dāṉ), che significa ‘la stessa ātman’, nella parte principale questo soggetto è rappresentato dal pronome அஃது (aḵdu), che significa ‘esso’ o ‘quello’. La parte principale di questa proposizione è la sua ultima parte, vale a dire ‘என்றும் எவ்விதத்திலும் அவன் சாதன விசாரத்துக்குச் சற்றும் அஃது விஷயம் அன்மையாலும் (ஆகாமையாலும்)’ (eṉḏṟum evvidhattilum avaṉ sādhaṉa vicārattukku-c caṯṟum aḵdu viṣayam aṉmaiyālum (āhāmaiyālum)), che significa ‘perché essa [quell’ātman] non è (e non diviene [o non è adatta ad essere]) mai o in ogni modo l’ambito anche minimamente per vicāra, la sua sādhana [del jīva]’, ma benché questa è una dichiarazione inequivocabile ed enfatica se presa da sola, il suo significato è significativamente e considerevolmente qualificato dalla proposizione d’eccezione che la precede.

La proposizione d’eccezione è ‘அவ் வான்மாதான், ஆன்மஸாக்ஷாத்காரத்துக்குப் பிரதிபந்தமான அகந்தை அவ்விசாரத்தின் பயனாக அழியவே, ஜீவனுக்கு அவன் சொரூபமேயாக நின்று சாந்த விருத்தியால் தன்மயமாக அவனால் அறிந்து அனுபவிக்கப்படல் அன்றி’ (a-vv-āṉmā-dāṉ, āṉma-sākṣātkārattukku-p piratibandhamāṉa ahandai a-v-vicārattiṉ payaṉ-āha aṙiyavē, jīvaṉukku avaṉ sorūpamē-y-āha niṉḏṟu śānta-viruttiyāl taṉmayam-āha avaṉāl āṟindu aṉubhavikka-p-paḍal aṉḏṟi), che significa ‘tranne che quando l’ego, che è l’ostacolo a ātma-sākṣātkāra [diretta esperienza dell’ātman] è distrutto come risultato di quella vicāra, per il jīva quella stessa ātman rimarrà solo come la sua svarūpa [propria forma] e sarà da lui conosciuta e sperimentata come tanmaya [composta di quello] per mezzo di śānta-vṛtti [lo stato di pace]’. Questa proposizione d’eccezione è una parte molto importante di questa frase, perché aiuta a chiarificare esattamente ciò che Muruganar intendeva e non intendeva.

Cioè, quando Muruganar ha scritto che il viṣaya (ambito o soggetto) per l’auto-investigazione è se stessi non come ātman ma solo come jīva o ego, egli non intende negare che il jīva o l’ego sia realmente solo l’ ātman, ma intendeva solo indicare che non possiamo conoscere questo per esperienza finché il nostro ego non è stato distrutto come risultato della nostra vicāra, così il vero ambito o soggetto per la nostra investigazione è solo noi stessi come ora ci sperimentiamo, vale a dire come il jīva o l’ego. Egli non intendeva negare che quando stiamo dando attenzione al nostro ego ciò a cui stiamo realmente dando attenzione e l’ātman (anche se non stiamo attualmente sperimentando noi stessi come ātman), proprio come quando guardiamo un serpente illusorio ciò che stiamo realmente guardando è una corda (anche se in quel momento non la vediamo come una corda), ma solo intendeva indicare che poiché ora non sperimentiamo noi stessi come ātman, l’ambito o soggetto immediato della nostra investigazione può solo essere il nostro jīva o ego, che è la forma illusoria in cui ora sperimentiamo noi stessi.

10e. L’inesattezza nella traduzione di Robert di questa chiarificazione

Sfortunatamente questo significato non è stato messo chiaramente in evidenza da Robert nella sua traduzione di questa frase, perché egli l’ha divisa in tre frasi separate e non ha tradotto la cruciale congiunzione அன்றி (aṉḏṟi) nella seconda metà di essa, così non è quindi riuscito a trasmettere la connessone logica tra le varie proposizioni all’interno di essa. Può essere estremamente difficoltoso tradurre complesse frasi Tamil in Inglese, perché la sintassi e la struttura della frase Tamil è così radicalmente differente dalla sintassi e dalla struttura della frase Inglese, così è spesso allettante dividere queste frasi in Inglese in due o più frasi più semplici, ma questo può causare la perdita di alcune delle connessioni logiche contenute nelle frasi originali. Se Robert avesse diviso questa frase in solo due frasi in Inglese, contenendo ciascuna una delle sue proposizioni ‘perché’, forse non avrebbe perso troppo la sua struttura logica, ma dividendo la seconda preposizione ‘perché’ in due frasi, non è riuscito a trasmettere il vero scopo. Non solo non ha tradotto la congiunzione அன்றி (aṉḏṟi), ma ha anche collegato la parola ‘perché’ alla metà sbagliata di questa seconda proposizione, vale a dire alla sua proposizione d’eccezione, facendo sembrare quindi che Muruganar intendeva questa proposizione d’eccezione non come una qualificazione di ciò che aveva detto nella prima frase (vale a dire che l’ambito o il soggetto per vicāra non è ātman ma solo jīva o l’ego) ma come una ragione per dirlo.

(Tuttavia, benché Robert non ha tradotto questa frase in modo sufficientemente preciso e quindi ha inavvertitamente oscurato e distorto il suo significato, nondimeno mi piacerebbe dire quanto apprezzo tutto il lavoro che ha fatto traducendo i testi di Bhagavan e di Muruganar, perché conosco per esperienza personale quanto può essere difficile tradurre questi scritti profondi e sfumati dal Tamil all’Inglese, e comprendo anche con quale amore per il soggetto Robert ha imparato il Tamil e quanto è riuscito a diventarne esperto.)

10f. La spiegazione di Muruganar di ‘vedi quotidianamente con l’occhio interiore’ (diṉam aha-k-kaṇ kāṉ)

Nella frase successiva Sri Muruganar scrive:
பரமார்த்தத்தில் இன்றாகவும், உண்மையில் மரணமேயான பிரமாதத்தால் விளைந்ததே ஜனனமரண ரூப சம்சாரமாதலால், அதற்கு மூலமான அகங்காரக் கிரந்தி அத்யந்தம் நாசமாகும் பரியந்தம் இடைவிடா விசாரம் ஒருவற் கின்றியமையாமையின் ‘தின மகக்கண் கான்’ என்று அருணாசலனா லருளப் பெற்றது.

paramārtthattil iṉḏṟāhavum, uṇmaiyil maraṇamē-y-āṉa piramādattāl viḷaindadē jaṉaṉa-maraṇa-rūpa samsāram-ādalāl adaṟku mūlam-āṉa ahaṅkāra-g giranthi atyantam nāśam-āhum pariyantam iḍaiviḍā vicāram oruvaṟ kiṉḏṟiyamaiyāmaiyiṉ ‘diṉam aha-k-kaṇ kāṉ’ eṉḏṟu aruṇācalaṉāl aruḷa-p-peṯṟadu.

Benché non esistente in paramārtha [realtà suprema], poiché ciò è il risultato di pramāda [auto-disattenzione o non attentività], che in verità è la morte stessa, è soltanto samsāra, la forma di nascita e morte, circa la necessità assoluta per uno [di fare] incessante vicāra finché il nodo-ego, che è la radice di esso [samsāra], è completamente distrutto, è stato benignamente rivelato da Arunachala: ‘diṉam aha-k-kaṇ kāṉ’ [quotidianamente vedi con ‘occhio interiore].
Avendo spiegato nelle due frasi precedenti ciò che Bhagavan intendeva in questo verso con la parola ‘தனை’ (taṉai), ‘se stesso’ o ‘tu stesso’, in questa frase Muruganar spiega le tre parole successive, ‘தினம் அகக்கண் காண்’ (diṉam aha-k-kaṇ kāṉ), che significano letteralmente ‘quotidianamente vedi [con il tuo] occhio interiore’. Benché தினம் (diṉam) significa letteralmente ‘quotidianamente’, Muruganr spiega che esso sottintende incessantemente, e in questa frase spiega perché un’incessante vicāra è assolutamente necessaria finché il nostro ego è distrutto completamente. Cioè, il samsāra (il ciclo perpetuo di nascita e morte) e tutti i problemi sperimentati in esso sono causati solamente da pramāda, auto-disattenzione o mancanza di auto-attentività, perché è solo a causa di pramāda che ora sperimentiamo noi stessi come questo ego, che è la radice del samsāra, essendo quello che solo lo sperimenta. Quindi, poiché la causa di tutti i nostri problemi è il nostro pramāda o mancanza di auto-attentività, l’unica soluzione radicale e permanente ad essi è l’opposto di pramāda, vale a dire vicāra o incessante auto-attentività.

10g. La spiegazione di Muruganar di ‘guardare verso l’interno’ o ‘guardare verso io’ (ahamukham)

Poi nella frase finale del suo commentario a questo verso Muruganar dice:
மனத்தை வெளிவிஷயங்களில் விடாமல் அதன் மூலமான இதயத்தி லிருப்பித்தலே அகமுக மென்பதாம்.

maṉattai veḷi-viṣayaṅgaḷil viḍāmal adaṉ mūlam-āṉa idayattil iruppittalē ahamukham eṉbadām.
Far rimanere la mente nel cuore, che è la sua sorgente, senza lasciare [o spingere] essa in [o su] viṣaya esterni [fenomeni], è ciò che è detto [o descritto] come ahamukham [rivolgersi all’interno o verso io].

Poiché nella sua பொழிப்புரை (poṙippurai) parafrasi esplicativa di questo verso Muruganar ha interpretato il termine அகக்கண் (aha-k-kaṇ), che significa letteralmente ‘occhio interiore’, nel significato அகமுகப் பார்வையால் (ahamukha-p pārvaiyāl), che significa ‘con sguardo rivolto all’interno [o verso se stesso]’, in questa frase finale egli nuovamente ci ricorda ciò che si intende con il termine அகமுகம் (ahamukham), che significa letteralmente ‘rivolto interiormente’ o ‘rivolto verso io’.

11. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 32: quando ci viene detto ‘quello sei tu’, dovremmo investigare ‘cosa sono io?’

Come spiegato nella sezione precedente, ciò che Muruganar intendeva chiaramente quando ha scritto ‘விசாரத்துக்கு விஷயமாகத் தன்னைக் கூறியதில் ‘தன்னை’ என்றது அகந்தை வடிவான ஜீவனையே யன்றி அகம்சொரூபமான ஆன்மாவை யன்றாம்’ (vicārattukku viṣayamāha-t taṉṉai-k kūṟiyadil ‘taṉṉai’ eṉḏṟadu ahandai vaḍivāṉa jīvaṉaiyē y-aṉḏṟi aham-sorūpam-āṉa āṉmāvai y-aṉḏṟām), ‘Nel dichiarare se stessi come il viṣaya [l’ambito o soggetto] per l’investigazione, ciò che è detto [o descritto] come ‘se stessi’ non è ātman, che è aham-svarūpa [la forma propria di io], ma solo il jīva, che è la forma dell’ego’, è che ciò che abbiamo bisogno di investigare non è qualcosa che crediamo di non conoscere già o che sembra essere diverso da noi stessi, vale a dire l’unico ātman infinito, ma solo noi stessi, che ora sembriamo essere questo jīva o ego limitato.

Ciò che egli non intende in questa frase è ciò che David ha dedotto da essa, vale a dire che “Bhagavan ha insegnato che l’indagine è fatta mettendo attenzione sul pensiero-‘io’, e non focalizzandosi sul Sé che è il suo substrato”. Di fatto questa deduzione fatta da David è chiaramente in conflitto con ciò che Muruganar dice nella proposizione d’eccezione nella seconda metà della frase successiva, in cui egli afferma che ciò sperimenteremo come risultato della nostra vicāra è che ātman è realmente la svarūpa o ‘propria forma’ del jīva, che chiaramente implica che quando mettiamo la nostra attenzione su noi stessi, questo jīva, ego o pensiero-‘io’, ciò a cui stiamo realmente dando attenzione o che stiamo guardando, è solo la nostra svarūpa, che è ātman, il substrato di questo ego, anche se quell’ātman ora sembra essere questo ego.

Tutto ciò che Muruganar intendeva trasmettere in queste due frasi è che non abbiamo bisogno di investigare qualcosa diversa dall’ego o jīva che ora sperimentiamo come noi stessi. Cosa infine ci scopriremo essere come risultato della nostra investigazione non ci deve interessare ora, così tutto ciò che abbiamo bisogno di investigare in questo momento è chi sono io, questo ego o jīva. Se immaginiamo di aver bisogno di investigare qualsiasi altra cosa, la nostra attenzione sarà sviata lontano dal nostro immediato sé verso la nostra idea di qualunque altra cosa pensiamo di essere o pensiamo di aver bisogno per investigare, come ātman o brahman, così Muruganar enfatizza qui che il viṣaya o ambito della nostra investigazione dovrebbe essere ristretto a ciò che ora sperimentiamo come noi stessi, vale a dire questo ego o jīva.

La logica dietro questo argomento di Muruganar può essere compreso considerando sia il concetto di jīva-brahmaikya, l’unità di jīva e brahman, che ho discusso prima nella terza sezione, e anche il fine dell’affermazione ‘tat tvam asi’ o ‘tu sei quello’. Cioè, se il jīva è brahman (che è un altro nome di ātman), investigare noi stessi, questo jīva, è sufficiente, perché investigando noi stessi stiamo in effetti investigando brahman o ātman, perché quello è ciò che siamo realmente. Tuttavia, se invece di investigare solo noi stessi cerchiamo di investigare brahman o ātman, ciò che staremo investigando non è brahman o ātman ma solo la nostra idea di esso. Così finché pensiamo che brahman o ātman è qualsiasi cosa diversa da noi stessi, è solo un’idea nella nostra mente e quindi non ciò che siamo realmente.

Finché pensiamo a brahman o ātman come qualcosa diversa da noi stessi, stiamo cercando nella direzione sbagliata, e questa è la ragione per cui i Veda ci dicono ‘tat tvam asi’ — ‘tu sei quello’. Cioè, il solo fine di questa affermazione è ridirigere la nostra ricerca o investigazione lontano dalla sola idea di brahman o ātman e indietro verso noi stessi, perché se siamo realmente quello, ciò che abbiamo bisogno di investigare è solo noi stessi e non qualsiasi altra cosa. Questo è ciò che è chiaramente inteso da Bhagavan nel verso 32 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
அதுநீயென் றம்மறைக ளார்த்திடவுந் தன்னை
யெதுவென்று தான்றேர்ந் திராஅ — ததுநா
னிதுவன்றென் றெண்ணலுர னின்மையினா லென்று
மதுவேதா னாயமர்வ தால்.

adunīyeṉ ḏṟammaṟaiga ḷārttiḍavun taṉṉai
yeduveṉḏṟu tāṉḏṟērn dirāa — dadunā
ṉiduvaṉḏṟeṉ ḏṟeṇṇalura ṉiṉmaiyiṉā leṉḏṟu
maduvētā ṉāyamarva dāl
.

பதச்சேதம்: ‘அது நீ’ என்று அம் மறைகள் ஆர்த்திடவும், தன்னை எது என்று தான் தேர்ந்து இராது, ‘அது நான், இது அன்று’ என்று எண்ணல் உரன் இன்மையினால், என்றும் அதுவே தான் ஆய் அமர்வதால்.

Padacchēdam (separazione delle parole): ‘adu nī’ eṉḏṟu a-m-maṟaigaḷ ārttiḍavum, taṉṉai edu eṉḏṟu tāṉ tērndu irādu, ‘adu nāṉ, idu aṉḏṟu’ eṉḏṟu eṇṇal uraṉ iṉmaiyiṉāl, eṉḏṟum aduvē tāṉ-āy amarvadāl.

அன்வயம்: ‘அது நீ’ என்று அம் மறைகள் ஆர்த்திடவும், அதுவே தான் ஆய் என்றும் அமர்வதால், தன்னை எது என்று தான் தேர்ந்து இராது, ‘அது நான், இது அன்று’ என்று எண்ணல் உரன் இன்மையினால்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): ‘adu nī’ eṉḏṟu a-m-maṟaigaḷ ārttiḍavum, adu-v-ē tāṉ-āy eṉḏṟum amarvadāl, taṉṉai edu eṉḏṟu tāṉ tērndu irādu, ‘adu nāṉ, idu aṉḏṟu’ eṉḏṟu eṇṇal uraṉ iṉmaiyiṉāl.

Traduzione: Quando i Vēda dichiarano ‘quello sei tu’, invece di conoscere ed essere se stessi, ciò che [io sono], pensare ‘io non sono quello, non questo’ è dovuto alla non-esistenza di forza, perché quello esiste sempre come se stessi.

Traduzione elaborata: Quando i Vēda dichiarano ‘quello [brahman] sei tu’, invece di conoscere ed essere se stessi [investigando] ciò che [io sono], pensare ‘io sono quello, non questo [corpo]’ è dovuto alla non-esistenza di forza [o di chiarezza di comprensione], perché quello esiste sempre come se stessi.
Quando ci viene detto ‘quello sei tu’, la nostra risposta immediata dovrebbe essere investigare ‘cosa sono io?’. In altre parole, una volta che ci è stato detto che brahman o ātman è noi stessi, dovremmo comprendere che per conoscere o sperimentare brahman o ātman tutto quello che abbiamo bisogno di fare è investigare ciò che siamo realmente. Non abbiamo più bisogno di occuparci nel cercare di conoscere cos’è brahman o ātman, ma dovremmo concentrare tutto il nostro interesse e lo sforzo nel cercare di conoscere ciò che noi stessi siamo.

Benché la pratica che Bhagavan critica esplicitamente in questo verso è l’idea ‘io sono quel brahman, non questo corpo’, ciò che dice si applica ugualmente bene alla pratica di investigare o cercare di conoscere cos’è brahman o ātman, perché se cerchiamo di conoscere brahman o ātman senza investigare ciò che noi stessi siamo, questo significherebbe che prendiamo brahman o ātman come qualcosa diverso da noi stessi. Questo è il motivo per cui Muruganar ha enfatizzato che tutto quello che abbiamo bisogno di investigare o che dovremmo investigare è solo noi stessi come ora ci sperimentiamo.

Tuttavia, anche se ora sperimentiamo noi stessi come questo ego, un jīva limitato, se investighiamo noi stessi scopriremo che ciò che siamo realmente è solo l’infinito brahman or ātman, perché come Bhagavan dice in questo verso, ‘என்றும் அதுவே தான் ஆய் அமர்வதால்’ (eṉḏṟum aduvē tāṉ-āy amarvadāl), che significa ‘poiché quello stesso sempre esiste come se stessi’. Poiché siamo sempre quello, benché sembriamo investigare il nostro ego quando investighiamo noi stessi, ciò che stiamo realmente investigando è solo ātman or brahman, che solo è ciò che ora sembra essere questo ego.

Quindi non c’è assolutamente conflitto tra il dire da una parte che il viṣaya (ambito o soggetto) per la nostra investigazione non è ātman ma solo noi stessi come questo ego o jīva, come Muruganar ha spiegato, e nel dire d’altra parte che benché noi stessi, che stiamo investigando, ora sembriamo essere questo ego o jīva, ciò che siamo realmente – e quindi ciò che stiamo realmente investigando – è solo ātman or brahman, come scopriremo se perseveriamo nell’investigare soltanto noi stessi.

12. Upadēśa Undiyār verso 19: dovremmo investigare la sorgente del nostro ego, che è ciò che siamo realmente

Nella sua risposta che è citata nella sezione nove, David termina dichiarando che la sua tesi è che ‘Bhagavan ha insegnato che l’indagine è fatta mettendo attenzione sul pensiero-‘io’, e non focalizzandola sul Sé che è il suo substrato’, ma benché sia d’accordo con lui che Bhagavan ci ha insegnato che dovremmo investigare il nostro ego, questo è solo uno dei diversi modi in cui egli ha descritto ciò che intendeva con il termine ātma-vicāra o auto-investigazione. Egli l’ha anche descritta spesso come investigare la sorgente del nostro ego o il luogo dal quale sorgiamo come questo ego, come ha fatto per esempio nel verso 19 di Upadēśa Undiyār:
நானென் றெழுமிட மேதென நாடவுண்
ணான்றலை சாய்ந்திடு முந்தீபற
ஞான விசாரமி துந்தீபற.

nāṉeṉ ḏṟeṙumiḍa mēdeṉa nāḍavuṇ
ṇāṉḏṟalai sāyndiḍu mundīpaṟa
jñāṉa vicārami dundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: நான் என்று எழும் இடம் ஏது என நாட உள், நான் தலைசாய்ந்திடும். ஞான விசாரம் இது.

Padacchēdam (separazione delle parole): nāṉ eṉḏṟu eṙum iḍam ēdu eṉa nāḍa uḷ, nāṉ talai-cāyndiḍum. jñāṉa-vicāram idu.

அன்வயம்: நான் என்று எழும் இடம் ஏது என உள் நாட, நான் தலைசாய்ந்திடும். இது ஞான விசாரம்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): nāṉ eṉḏṟu eṙum iḍam ēdu eṉa uḷ nāḍa, nāṉ talai-sāyndiḍum. idu jñāṉa-vicāram.

Traduzione: Quando si investiga all’interno qual è il luogo dal quale esso sorge come ‘io’, l'‘io’ morirà. Questa è jñāna-vicāra.
Il termine ஞான விசாரம் (jñāna-vicāram) significa letteralmente ‘conoscenza-investigazione’, ma in questo contesto jñāna o ‘conoscenza’ si riferisce solo alla nostra auto-consapevolezza basilare, la nostra conoscenza di noi stessi, così jñāna-vicāra ha lo stesso significato di ātma-vicāra. Quindi ciò che egli descrive nella prima frase di questo verso è la pratica e il risultato di ātma-vicāra o auto-investigazione.

Il risultato dell’auto-investigazione è ciò che egli descrive nella proposizione principale di questa frase, che è la seconda riga del verso, ‘நான் தலைசாய்ந்திடும்’ (nāṉ talai-sāyndiḍum), che significa letteralmente ‘io piegherà la testa’ ma che implica ‘io morirà’, perché il verbo தலைசாய் (talai-sāy) o ‘piegare la testa’ è usato in modo colloquiale per significare ‘morire’. Ciò a cui egli si riferisce qui come ‘நான்’(nāṉ)è il nostro ego o pensiero chiamato ‘io’, che è l’‘io’ che sorge (come opposto al nostro sé reale, che è l’‘io’ che è veramente).

La pratica di auto-investigazione è ciò che egli descrive nella prima riga di questo verso, ‘நான் என்று எழும் இடம் ஏது என நாட உள்’ (nāṉ eṉḏṟu eṙum iḍam ēdu eṉa nāḍa uḷ), che significa ‘quando si investiga all’interno [se stesso] qual è il luogo dal quale esso sorge come io’. Qui l’‘esso’ implicato nel verbo di terza persona singolare எழும் (eṙum), che significa ‘esso sorge’, si riferisce al nostro ego o pensiero chiamato ‘io’, che Bhagavan ha discusso nel verso precedente, dicendo che è la radice di tutti gli altri pensieri e quindi il significato essenziale di ciò che è chiamata ‘mente’. Poiché il ‘luogo’ o sorgente dalla quale questo ego sorge è solo noi stessi come siamo realmente, ciò a cui Bhagavan si riferisce indirettamente come ‘நான் என்று எழும் இடம்’ (nāṉ eṉḏṟu eṙum iḍam) o ‘il luogo dal quale esso sorge come io’ è solo il nostro sé reale, così il significato di questo verso è che ātma-vicāra comporta l’investigare cos’è il nostro sé reale.

Questa è anche l’implicazione del verso 28 di Uḷḷadu Nāṟpadu, in cui egli dice ‘எழும்பும் அகந்தை எழும் இடத்தை […] கூர்ந்த மதியால் […] அறிய வேண்டும்’ (eṙumbum ahandai eṙum […] kūrnda matiyāl […] aṟiya vēṇḍum), che significa ‘è necessario conoscere […] con una mente affilata […] il luogo dove sorge l’ego sorgente’, e del verso 29 di Uḷḷadu Nāṟpadu, in cui dice ‘உள் ஆழ் மனத்தால் நான் என்று எங்கு உந்தும் என நாடுதலே ஞான நெறி ஆம்’ (uḷ āṙ maṉattāl nāṉ eṉḏṟu eṅgu undum eṉa nāḍudalē jñāṉa-neṟi ām), che significa ‘solo investigare con una mente che sprofonda interiormente dove esso sorge come io è il sentiero di jñāna’.

Il nostro ego non può ovviamente essere il luogo o la sorgente da cui esso sorge, così la sua sorgente non può essere qualcosa diversa da noi stessi come siamo realmente, e quindi ciò che Bhagavan intende in ciascuno di questi versi è che ciò che dovremmo investigare e conoscere è il nostro sé reale, la sorgente dalla quale il nostro ego sorge come ‘io’. Tuttavia, benché egli insegna in questo modo che dovremmo investigare ciò che siamo realmente, spesso ha spiegato che il solo modo in cui possiamo investigare ciò che siamo relamente è osservare attentivamente il nostro ego, perché quando lo osserviamo esclusivamente, esso sprofonderà in noi stessi, la sua sorgente.

Questo è il motivo per cui qualche volta egli ha detto che il nostro ego è come l’odore che un cane segue per trovare il suo ‘padrone’ o amico umano. Finché il cane si mantiene su quell’odore, sarà infallibilmente condotto da esso alla sua sorgente (dell’odore), che è la persona che esso sta cercando. Nello stesso modo mantenendoci in modo vigilante sull’osservazione del nostro ego, saremo condotti infallibilmente indietro alla sua sorgente, che è il nostro sé reale.

Tuttavia, nel caso di una persona e del suo odore, essi sono effettivamente due cose differenti, mentre nel caso del nostro ego e del nostro sé reale, essi non sono realmente due cose differenti ma una cosa sola, perché è soltanto il nostro sé reale che ora sembra essere questo ego. Quindi un’analogia ancora più precisa è che guardare il nostro ego è come osservare da vicino un serpente illusorio, Se osserviamo il serpente abbastanza attentamente, vedremo che è solo una corda. Nello stesso modo, se osserviamo il nostro ego abbastanza attentamente, vedremo che è solo il nostro sé reale.

Quindi investigare il nostro ego e investigare la sua sorgente non sono due pratiche di auto-investigazione differenti, ma solo due modi differenti di descrivere esattamente la stesa pratica, come ho spiegato in uno dei mie articoli precedenti, Dare attenzione al nostro ego è dare attenzione alla sua sorgente, noi stessi. Bhagavan ha descritto questa unica pratica in così tanti modi differenti, usando termini come ātma-vicāra (auto-investigazione), svarūpa-dhyāna (meditazione sul proprio sé), svarūpa-smaraṇa (auto-ricordo), ātma-cintanā (pensare a noi stessi), ātma-niṣṭhā (auto-dimora), ahamukham (guardare interiormente o guardare verso ‘io’) and ananya-bhāva (meditazione su ciò che non è altro), per citarne solo alcuni, ma tutte le sue descrizioni di essa sono solo indizi che ci dirigono nella direzione in cui dovremmo rivolgere la nostra attenzione, vale a dire verso noi stessi e noi stessi soltanto (sia che noi stessi sia descritto come ‘l’ego’, ‘il pensiero-io’, ‘il jīva’, ‘la sorgente dell’ego’, ‘il luogo di nascita dell’ego’, ‘il luogo da cui l’ego sorge’, ‘l’ātman’ o ‘il Sé’).

Tutte le differenze appaiono reali solo nella visione della nostra mente, ma quando rivolgiamo la nostre mente interiormente per investigare soltanto noi stessi, esse si dissolveranno e scompariranno insieme con il loro creatore, la nostra mente. Quindi se vogliamo andare all’interno in profondità per sperimentare noi stessi come siamo realmente, dobbiamo mettere da parte tutte le idee riguardo qualsiasi differenza tra ‘l’ego’ e ‘il Sé’ (o tra ‘jīva’ e ‘ātman’) e solo dare attenzione a noi stessi come siamo realmente.

13. Guru Vācaka Kōvai verso 579: il noi stessi che stiamo investigando e il noi stessi che cerchiamo di conoscere non sono differenti

In supporto alla sua tesi che ‘Bhagavan ha insegnato che l’indagine è fatta mettendo l’attenzione sul pensiero-‘io’, e non focalizzandola sul Sé che è il suo substrato’ David ha citato la spiegazione che Muruganar ha dato della parola ‘தனை’ (taṉai), ‘se stesso’ o ‘tu stesso’, usato da Bhagavan nel verso 44 di Śrī Aruṇācala Akṣaramaṇamālai, ma benché Muruganar ha spiegato che in quel contesto questa parola significa primariamente solo noi stessi come l’ego o jīva che ora sembriamo essere piuttosto che noi stessi come l’ ātman che siamo realmente, in molti altri contesti nei suoi scritti Muruganar ha sorvolato questa distinzione e ha chiaramente inteso che ciò che dovremmo investigare è semplicemente noi stessi in generale o noi stessi come siamo realmente, perché l’apparente differenza tra il nostro ego e il nostro sé reale è solo superficiale, poiché più in profondità (sotto le aggiunte che sovrapponiamo su noi stessi per formare il nostro ego), essi sono una cosa sola.

Ci sono molti versi in Guru Vācaka Kōvai che illustrano questo, ma uno che è sempre presente nella mia mente è il verso 579, nelle ultime due righe del quale egli registra enfaticamente che Bhagavan ha detto che non c’è differenza tra il fine che stiamo cercando e il mezzo con cui possiamo raggiungerlo, perché entrambi sono solo noi stessi:
உபேயமுந் தானே யுபாயமுந் தானே
யபேதமாக் காண்க வவை.

upēyamun dāṉē yupāyamun dāṉē
yabhēdamāk kāṇka vavai
.

பதச்சேதம்: உபேயமும் தானே, உபாயமும் தானே. அபேதமா காண்க அவை.

Padacchēdam (separazione delle parole): upēyam-um tāṉē, upāyam-um tāṉē. abhēdam-ā kāṇga avai.

Traduzione: L’upēya [il fine o lo scopo] è solo noi stessi e l’upāya [il mezzo o sentiero] è solo noi stessi. Vedi [o conosci] essi come non-differenti (abhēda).
In questo contesto ciò che è inteso dalla parola தானே (tāṉē) o ‘se stesso soltanto’ è ovviamente non il nostro ego, perché l’upēya o fine che stiamo cerando di conseguire non è il nostro ego ma solo noi stessi come siamo realmente, e poiché egli ha detto che essi sono non-differenti, implicando non solo che l’upēya e l’upāya sono non-differenti, ma anche che il se stesso che è il solo upēya e il se stesso che il solo upāya sono non-differenti. Quindi in questo contesto dobbiamo prendere தான் (tāṉ) nel significato o di noi stessi come siamo realmente e noi stessi in generale (senza specificarlo come il nostro ego o come ciò che siamo realmente).

Anche se la prendiamo nel secondo senso, in effetti è uguale a prenderla nel primo senso, perché il nostro upēya o scopo è solo noi stessi come siamo realmente, e Bhagavan ci chiede di vedere l’upāya o mezzo per raggiungerlo come non-differente da esso. La chiara implicazione è che proprio come il nostro fine o scopo è di sperimentare noi stessi come siamo realmente, il solo mezzo per sperimentare noi stessi come siamo realmente è cercare di sperimentare noi stessi come siamo realmente, cosa che possiamo fare solo cercando di sperimentare soltanto noi stessi, in completo isolamento da ogni altra cosa.

Sebbene possiamo iniziare il nostro tentativo di sperimentare soltanto noi stessi solo osservando accuratamente o dando attenzione all’ego che ora sperimentiamo come noi stessi, ciò che stiamo cercando di osservare in questo ego è solo noi stessi e non alcuna delle aggiunte che comunemente confondiamo come noi stessi, così facendo questo perfezioneremo gradualmente il nostro potere di osservazione e saremo quindi in grado di isolare noi stessi per esperimentare soltanto noi stessi, senza alcuna mescolanza con aggiunte. Quindi anche quando stiamo dando attenzione al nostro ego, ciò a cui stiamo cercando di dare attenzione in questo ego è solo noi stessi, che siamo il suo ‘aspetto essenziale cit’, come Bhagavan ci descrive nel brano del Maharshi’s Gospel che ho citato nella quarta sezione.

Questo è il motivo per cui non è realmente necessario specificare se dobbiamo investigare noi stessi come questo ego o noi stessi come siamo realmente, perché per quanto lo immaginiamo, ciò a cui stiamo cercando di dare attenzione è solo noi stessi, l’auto-consapevolezza fondamentale che forma il centro o l’essenza del nostro ego, che è ciò che siamo realmente. Questo è anche il motivo per cui Bhagavan, Muruganar e Sadhu Om hanno descritto l’auto-investigazione in vari modi differenti: qualche volta come investigare il nostro ego, qualche volta come investigare la sua sorgente, qualche volta come investigare ciò che siamo realmente, e spesso solo come investigare noi stessi in generale senza specificare se il nostro ego, la nostra sorgente o noi stessi come siamo realmente.

14. Guru Vācaka Kōvai verso 1094: ciò a cui dovremmo dare attenzione è il nostro svarūpa o il nostro sé reale

Ci sono molti altri versi in Guru Vācaka Kōvai che implicano che dovremmo investigare ciò che siamo realmente, ma la maggior parte di essi non sono freschi nella mia memoria (che è il motivo per cui non cito più spesso versi da Guru Vācaka Kōvai), così considererò proprio uno di questi versi, che ho selezionato perché mi è stato ricordato da un commento al mio articolo precedente, che ha accesso una vivace discussione su questo argomento. In quel commento Sanjay Lohia ha citato il verso 1094 come tradotto da T.V. Venkatasubramanian e Robert Butler e redatto da David:
Essere-consapevolezza, che è autentica beatitudine, e che risplende nel Cuore, dovrebbe essere presa come obiettivo della tua attenzione in ogni momento. Attraverso un acuto buddhi-yoga [fusione della mente] adoralo nel cuore, senza dimenticanza, e quindi dimora fermamente come Quello. Soltanto questo è il compimento della tua vita.
Poiché ‘essere-consapevolezza’ è un termine che è usato generalmente come una traduzione del termine Sanscrito sat-cit, esso si riferisce invariabilmente a noi stessi come siamo realmente, così questa traduzione implica chiaramente che dovremmo prendere il nostro sé reale come l’obiettivo della nostra attenzione, e dunque esso scalza la tesi di David che ‘Bhagavan ha insegnato che l’indagine è fatta mettendo attenzione sul pensiero-‘io’, e non focalizzandola sul Sé che è il suo substrato’. Tuttavia, questa non è una traduzione esatta del verso originale Tamil, così prima di concludere che questo verso è in conflitto con la tesi di David, consideriamo ciò che Muruganar ha scritto realmente in esso:
குறிக்கொண் டொழுகக் குலவுவது சுத்தத்
துறக்கமாம் போத சொரூபம் — மறக்கமிலா
வோர்மையா லுள்ளத் துபாசித்துத் தானதுவா
நேர்மையுறல் வாழ்க்கை நிறைவு.

kuṟikkoṇ ḍoṙukak kulavuvadu śuddhat
tuṟakkamām bōdha sorūpam — maṟakkamilā
vōrmaiyā luḷḷat tupāsittut tāṉaduvā
nērmaiyuṟal vāṙkkai niṟaivu
.

பதச்சேதம்: குறிக்கொண்டு ஒழுக குலவுவது சுத்த துறக்கம் ஆம் போத சொரூபம். மறக்கம் இலா ஓர்மையால் உள்ளத்து உபாசித்து, தான் அதுவா நேர்மை உறல் வாழ்க்கை நிறைவு.

Padacchēdam (separazione delle parole): kuṟi-k-koṇḍu oṙuka kulavuvadu śuddha tuṟakkam ām bōdha sorūpam. maṟakkam ilā ōrmaiyāl uḷḷattu upāsittu, tāṉ adu-v-ā nērmai uṟal vāṙkkai niṟaivu.

Traduzione: Ciò che risplende [perché si] prenda rispettosamente come l’obiettivo [della propria attenzione] è svarūpa [la propria forma o sé reale], la bōdha [conoscenza o consapevolezza] che è pura felicità. Adorare [essa] nel cuore con unità [o consapevolezza] priva di dimenticanza, essere direttamente come ‘se stesso è quello’ è pienezza [appagamento o perfezione] della vita.
Il significato della frase குறிக்கொண்டு ஒழுக குலவுவது (kuṟi-k-koṇḍu oṙuka kulavuvadu), che è il soggetto della prima frase in questo verso, è relativamente chiaro in Tamil, ma è difficile tradurlo precisamente in Inglese, perché ciascuna parola in essa implica più di quanto possa essere trasmesso in una singola parola in Inglese. குறி (kuṟi) è un verbo che significa pensare a, meditare su, riferirsi a o ambire a, e anche un sostantivo che significa uno scopo o obiettivo, e கொண்டு (koṇḍu) è un participio verbale che significa impadronirsi, ricevere, prendere, tenere o avere, ma come una parola composta குறிக்கொண்டு (kuṟi-k-koṇḍu) significa afferrare, impugnare, concentrarsi su o fissare la propria mente su. ஒழுக (oṙuka) è la forma infinita di un verbo che significa fluire, procedere, comportarsi in modo appropriato o fare il proprio dovere, e குலவுவது (kulavuvadu) è un sostantivo di participio che significa ‘ciò che risplende’, così il significato implicito di questa intera frase è ‘ciò che risplende perché noi rispettosamente lo afferriamo, lo impugniamo, meditiamo su di esso o lo prendiamo come obiettivo della nostra attenzione’.

Ciò a cui dovremmo dare attenzione o su cui dovremmo meditare è descritto dalla frase சுத்த துறக்கம் ஆம் போத சொரூபம்’ (śuddha tuṟakkam ām bōdha sorūpam). Il sostantivo principale in questa frase è சொரூபம் (sorūpam), che è una forma Tamil della parola Sanscrita स्वरूप (svarūpa), che significa letteralmente ‘propria forma’ e intende il proprio sé reale o natura essenziale. Ogni volta che Bhagavan ha usato questo termine senza specificarlo come svarūpa di qualche cosa particolare, ciò a cui si stava riferendo è solo il nostro sé reale, così questa intera frase è una descrizione del nostro svarūpa o sé reale. போத (bōdha) è una parola di origine Sanscrita che significa conoscenza, vigilanza, consapevolezza o coscienza, particolarmente nel senso di vera conoscenza o pura auto-consapevolezza, così போத சொரூபம் (bōdha sorūpam) implica ‘il proprio sé, che è pura auto-consapevolezza’. துறக்கம் (tuṟakkam) significa letteralmente paradiso, ma in questo contesto intende felicità o beatitudine, così சுத்த துறக்கம் ஆம் (śuddha tuṟakkam ām) è una proposizione relativa che significa ‘che è pura felicità’, e che descrive போத சொரூபம் (bōdha sorūpam). Quindi il chiaro significato di questa prima frase, ‘குறிக்கொண்டு ஒழுக குலவுவது சுத்த துறக்கம் ஆம் போத சொரூபம்’ (kuṟi-k-koṇḍu oṙuka kulavuvadu śuddha tuṟakkam ām bōdha sorūpam), è che ciò a cui dovremmo dare attenzione o su cui dovremmo meditare è il nostro svarūpa è sé reale, che è sia pura felicità che pura consapevolezza.

Nella seconda frase di questo verso la proposizione principale è தான் அதுவா நேர்மை உறல் வாழ்க்கை நிறைவு (tāṉ adu-v-ā nērmai uṟal vāṙkkai niṟaivu), che significa “essere direttamente come ‘se stesso è quello’ è pienezza [appagamento o perfezione] della vita”, e la sua altra proposizione è மறக்கம் இலா ஓர்மையால் உள்ளத்து உபாசித்து (maṟakkam ilā ōrmaiyāl uḷḷattu upāsittu), che è una proposizione avverbiale che descrive il modo in cui o il mezzo con cui si può essere direttamente come ‘se stesso è quello’. உபாசித்து (upāsittu) è un participio verbale che significa venerare o adorare, che è un modo metaforico per dire ‘dare amorevolmente attenzione a’. Ciò a cui dovremmo dare amorevolmente attenzione non è specificato in questa proposizione, ma in questo contesto l’implicazione è che dovremmo dare amorevolmente attenzione al nostro svarūpa nel nostro உள்ளம் (uḷḷam), che è una parola che significa cuore o più interno centro di noi stessi.

In questa proposizione avverbiale la parola ஓர்மை (ōrmai) può essere interpretata in due modi. Può significare unità, nel qual caso implicherebbe acutezza o essere uno con la nostra svarūpa, o può significare consapevolezza, nel qual caso implicherebbe auto-consapevolezza, perché ஓர் (ōr) non solo significa uno ma è anche un verbo che significa investigare, osservare attentivamente, conoscere o essere consapevoli di. மறக்கம் இலா (maṟakkam ilā) significa privo di dimenticanza, e in questo contesto implica privo di pramāda (auto-disattenzione o non attentività), così மறக்கம் இலா ஓர்மையால் உள்ளத்து உபாசித்து (maṟakkam ilā ōrmaiyāl uḷḷattu upāsittu) implica il dare amorevolmente attenzione a noi stessi nel nostro cuore per mezzo di ōrmai (acuta attentività o auto-consapevolezza) priva di dimenticanza o pramāda. Così il significato di questa seconda frase è che la pienezza o perfezione della vita è solo dimorare come il nostro sé reale dando amorevolmente attenzione a noi stessi nel nostro cuote con acuta auto-consapevolezza e senza alcuna auto-disattenzione o non attentività.

La traduzione di questo verso fornita nel libro pubblicato da David non è una traduzione esatta di esso, ma è una traduzione parzialmente dello stesso verso e parzialmente del கருத்துரை (karutturai), riassunto o essenza di esso scritto da Muruganar, che è pubblicato in un libro dal titolo அநுபூதி வெண்பா (Anubhūti Veṇbā), in cui questo verso è incluso come verso 671. Ciò che egli ha scritto in questo karutturai è:
கவனித் தொழுகக் கடவதாக உள்ளத்திலொளிர்வது சற்போதமான சொரூபமே யாதலால், ஏகாக்கிரமான புத்தி யோகத்தால் அயர்ப்பின்றி அதனை யுபாசித்து, அதுவே தானாக நேர்பட்டு நிற்றலே வாழ்க்கை நிறைவெனல்.

gavaṉittu oṙuka-k kaḍavadāha uḷḷattil-oḷirvadu saṯ-bōdham-āṉa sorūpamē y-ādalāl, ēkāggiram-āṉa buddhi yōgattāl ayarppiṉḏṟi adaṉai y-upāsittu, aduvē tāṉ-āha nērpaṭṭu niṯṟalē vāṙkkai niṟaiveṉal.

[Il verso] dice che poiché ciò che risplende nel cuore come ciò a cui si dovrebbe rispettosamente dare attenzione è solo svarūpa, che è sat-bōdha [consapevolezza di ciò che è], adorandolo senza dimenticanza con ēkāgra-buddhi-yōga [lo yōga di un mente acuta o concentrata], [e quindi] congiungersi e dimorare come ‘quello solo è me stesso’ è pienezza [appagamento o perfezione] della vita.
Dunque sia in questo verso sia nel suo karutturai Muruganar dichiara chiaramente che ciò a cui dovremmo dare attenzione è solo il nostro sé reale o svarūpa, la natura del quale è pura auto-consapevolezza e felicità. Quindi se accettiamo che questo verso riporta fedelmente un insegnamento dato da Bhagavan, è sufficiente per confutare la tesi di David che ‘Bhagavan ha insegnato che l’indagine è fatta mettendo attenzione sul pensiero-‘io’, e non focalizzandola sul Sé che è il suo substrato’.

15. Pādamālai: alcuni versi che non specificano se dovremmo dare attenzione al nostro ego o al nostro sé reale

Guru Vācaka Kōvai non è il solo testo in cui Sri Muruganar ha registrato gli insegnamenti orali di Sri Ramana, sebbene è certamente il più importante. Un altro prezioso testo in cui Muruganar ha citato molti dei suoi insegnamenti è பாதமாலை (Pādamālai), che forma la parte maggiore del nono ed ultimo volume di ஸ்ரீ ரமண ஞான போதம் (Śrī Ramaṇa Jñāṉa Bōdham) e consiste di 3.059 distici, ciascuno dei quali finisce con la parola பாதம் (pādam), che significa ‘piede’ o ‘piedi’, sia letteralmente che figurativamente (così è anche usato nel senso della base o supporto di ogni cosa, come nei piedi di una montagna o di un albero), ma che in questo contesto si riferisce a Bhagavan, sia nel senso che egli è una personificazione dei ‘piedi divini’ sia nel senso che egli è la suprema base o supporto di tutte le cose.

Più di metà di questi versi terminano con ‘என் பாதம்’ (eṉ pādam) o ‘எனும் பாதம்’ (eṉum pādam), che entrambi significano ‘dice Pādam’ o ‘Pādam che dice’, e che implica che ciò che precede è qualcosa che Bhagavan ha detto, ma molti degli altri versi possono anche essere citazioni dei suoi insegnamenti. Come molti degli altri versi in Śrī Ramaṇa Jñāṉa Bōdham, i versi di Pādamālai furono scritti casualmente in momenti differenti e non in ordine particolare, ma mentre i versi dei primi volumi furono tutti classificati in modo accurato secondo il soggetto e messi in ordine di significato da Sadhu Om, i versi di Pādamālai non lo furono, perché egli morì prima di completare la redazione degli ultimi pochi volumi, e quindi essi furono pubblicati più o meno nell’ordine in cui egli li ha lasciati.

Molti dei versi di Pādamālai sono stati tradotti in Inglese da T.V. Venkatasubramanian e Robert Butler e redatti da David, e questi furono pubblicati nel 2004 in un libro chiamato Padamalai. Non ho letto tutto questo libro, ma occasionalmente mi riferisco ad esso, e ogni volta che un verso in esso mi interessa particolarmente confronto la loro traduzione di esso con l’originale per comprendere esattamente cosa ha scritto Muruganar. Recentemente mentre confrontavo in questo modo alcune delle loro traduzioni ho notato che in alcuni casi, dove la loro traduzione fa sembrare che Bhagavan stesse dicendo che dovremmo dare attenzione al nostro sé reale, come sottinteso dal loro uso della ‘S’ maiuscola in ‘Sé’, l’originale si riferisce effettivamente a noi stessi in generale piuttosto che specificatamente a noi stessi come ego o a noi stessi come siamo realmente, mentre in altri casi l’originale intende chiaramente che egli si stava riferendo specificatamente noi stessi come siamo realmente.

In questa sezione considererò due versi che nella loro traduzione sembrano riferirsi specificatamente al nostro sé reale ma che nell’originale si riferiscono solo a noi stessi in generale, mentre nella sezione successiva considererò quattro altri versi che nell’originale si riferiscono chiaramente in modo specifico a noi stessi come siamo realmente. Tutti i versi furono inclusi da David nel capitolo che ha chiamato ‘Il Sé’ e sono stampati in questo libro tra pagina 71 e pagina 77, e quando citerò la traduzione di ciascuno di essi userò il numero che egli ha assegnato ad esso.
  1. Solo l’attenzione diretta verso il Sé, un cercare senza cercare, ti unirà con quell’entità primaria la cui natura mai cambia.
Questa è una traduzione del verso 275 dall’originale:
நாடாது நாடுமக நாட்டமே தன்னுருவிற்
கோடாத செம்பொருளைக் கூட்டுமெனும் பாதம்.

nāḍādu nāḍumaha nāṭṭamē taṉṉuruviṟ
kōḍāda semporuḷaik kūṭṭumeṉum pādam.
.

பதச்சேதம்: நாடாது நாடும் அகநாட்டமே தன் உருவில் கோடாத செம்பொருளை கூட்டும் எனும் பாதம்.

Padacchēdam (separazione delle parole): nāḍādu nāḍum aha-nāṭṭamē taṉ-ṉ-uruvil kōḍāda sem-poruḷai kūṭṭum eṉum pādam.

Traduzione: Solo l’auto-investigazione, che è investigare senza investigare, unirà l’immutabile sem-poruḷ [vera sostanza] nella propria forma, dice Pādam.
Il termine che è stato tradotto come ‘solo l’attenzione diretta verso il Sé’ nella traduzione redatta da David è esattamente அகநாட்டமே (aha-nāṭṭamē), che significa realmente auto-investigazione o auto-attentività, così esso non specifica che il sé che dobbiamo investigare o a cui dobbiamo dare attenzione è ciò che siamo realmente (il nostro sé reale) piuttosto che ciò che sembriamo essere (il nostro ego). Tuttavia, poiché siamo solo l’unico sé o io (aham) che possiamo investigare, non è sbagliato interpretare அகநாட்டமே (aha-nāṭṭamē) come ‘solo l’attenzione al nostro sé reale’, benché farlo sembra non necessario, perché sarebbe più semplice e più chiaro interpretarlo come ‘solo l’attenzione a noi stessi’ senza fare alcuna distinzione non necessaria in questo contesto tra il nostro sé reale e il nostro ego. Quindi tradurreo il termine அகம் (aham) in அகநாட்டமே (aha-nāṭṭamē) come ‘il Sé’ (quindi intendendo il nostro sé reale) piuttosto che semplicemente come ‘io’, ‘se stessi’ o ‘auto-‘ è interpretare questo termine in questo contesto come necessario o giustificato.

In questo verso அகநாட்டம் (aha-nāṭṭam) o auto-investigazione è meravigliosamente descritto nella proposizione relativa che lo precede come ‘நாடாது நாடும்’ (nāḍādu nāḍum), che significa ‘che è investigare senza investigare’, ‘che è esaminare senza esaminare’, ‘che è esplorare senza esplorare’, ‘che è cercare senza cercare’, ‘che è scrutare senza scrutare’ o ‘che è dare attenzione senza dare attenzione’, e che indica che sebbene esso sia descritto come investigazione (nāṭṭam or vicāra) è un’investigazione del tutto dissimile da ogni altra investigazione, perché non è un’investigazione di qualche oggetto o fenomeno ma solo di noi stessi, la consapevolezza che sperimenta tutti gli oggetti e i fenomeni.

Nella seconda riga il termine செம்பொருள் (sem-poruḷ) significa la buona, pura, eccellente, grande, imparziale, armoniosa o vera sostanza o realtà, ed è un termine che è spesso usato per descrivere la realtà suprema o Dio. Il participio relativo che lo precede è கோடாத (kōḍāda), che significa letteralmente ‘che non curva’ o ‘che non devia’, ma che in questo contesto significa ‘che non cambia’, così l’ho tradotto come ‘immutabile’.

தன்னுருவில் (taṉ-ṉ-uruvil) è la forma locativa di தன்னுரு (taṉ-ṉ-uru), che significa ‘la propria forma’ o ‘la forma si se stesso’, e செம்பொருளை (sem-poruḷai) è la forma accusativa di செம்பொருள் (sem-poruḷ), così ‘அகநாட்டமே தன்னுருவில் செம்பொருளை கூட்டும்’ (aha-nāṭṭamē taṉ-ṉ-uruvil sem-poruḷai kūṭṭum) significa letteralmente ‘solo l’auto-investigazione unirà sem-poruḷ nella propria forma’, ma ciò che questo implica è ‘solo l’auto-investigazione unirà uno con sem-poruḷ’.
  1. Se uno dimora aggrappandosi al Sé, allora, attraverso quello stato di pace, tutti gli altri attaccamenti si staccheranno, e solo il tuo stato naturale, la liberazione, rimarrà.
Questa è una traduzione del verso 1842 dall’originale:
தனைப்பற்றி நிற்கினுப சாந்தநிலை யான்மற்
றெனைப்பற்று நீங்கவியல் வீடதுவாம் பாதம்.

taṉaippaṯṟi niṟkiṉupa śāntanilai yāṉmaṯ
ṟeṉaippaṯṟu nīṅgaviyal vīḍaduvām pādam
.

பதச்சேதம்: தனை பற்றி நிற்கின் உபசாந்த நிலையான் மற்று எனை பற்று நீங்க இயல் வீடு அது ஆம் பாதம்.

Padacchēdam (separazione delle parole): taṉai paṯṟi niṟkiṉ upaśānta nilaiyāṉ maṯṟu eṉai paṯṟu nīṅga iyal vīḍu adu ām pādam.

Traduzione: Se uno si mantiene reggendo se stesso, quando tutti gli altri attaccamenti sono rimossi con [quello] stato di tranquillità, quella è liberazione, [che è la propria] natura, Pādam.
La proposizione che è stata tradotta come ‘se uno dimora aggrappandosi al Sé’ nella traduzione redatta da David è ‘தனைப் பற்றி நிற்கின்’ (taṉai-p paṯṟi niṟkiṉ), che significa letteralmente ‘se [uno] si mantiene [rimane o dimora] reggendosi [afferrando o aggrappandosi a] se stesso’, così in essa non c’è una parola che significa specificatamente ‘il Sé’ come opposto all’ego, né il contesto giustifica l’interpretare தனை (taṉai) nel significato di ‘il Sé’ (il nostro sé reale) piuttosto che il nostro ego o noi stessi in generale. Benché non è sbagliato interpretarlo qui nel significato di nostro sé reale, non è necessario farlo, e sarebbe più semplice e più chiaro interpretarlo nel significato di solo noi stessi in generale senza fare alcuna distinzione non necessaria tra il nostro sé reale e il nostro ego, perché noi stessi siamo comunque il solo sé a cui possiamo aggrapparci.

Nella prima riga di questo verso பற்றி (paṯṟi) è un participio verbale che significa reggersi, afferrare, abbracciare, aggrapparsi a, aderire a o attaccare se stessi a, e nella seconda riga பற்று (paṯṟu) è un sostantivo derivato dallo stesso verbo, così significa attaccamento o aderenza della mente, perciò la bellezza in questo verso è che in esso Muruganar indica che (come Bhagavan spesso ha esplicitamente insegnato) il solo modo per abbandonare tutto l’attaccamento a qualsiasi cosa diversa da noi stessi è reggersi o attaccare noi stessi solo a noi stessi, in altre parole, dare attenzione e cercare di essere consapevoli soltanto di noi stessi.

Poiché ora sperimentiamo noi stessi come questo ego, quando iniziamo, cercando di dare attenzione solo a noi stessi, stiamo dando attenzione a noi stessi come questo ego, ma più acutamente e vigilantemente cerchiamo di essere consapevoli soltanto di noi stessi, più il nostro attaccamento alle nostre aggiunte e a ogni altra cosa sarà indebolito, fino a che finalmente saremo consapevoli soltanto di noi stessi, completamente distaccati e quindi isolati da ogni altra cosa. Questo è perché ciò che siamo realmente è solo il nostro sé reale, che è pura auto-consapevolezza, così anche quando stiamo dando attenzione a noi stessi come questo ego, ciò a cui stiamo essenzialmente dando attenzione è il nostro sé reale, che è ‘l’essenziale aspetto cit’ o parte di auto-consapevolezza del nostro ego.

Quindi nella maggioranza dei casi non è necessario specificare se il noi stessi a cui dovremmo dare attenzione è noi stessi come questo ego o noi stessi come siamo realmente, perché siamo solo un sé, che è ciò che siamo realmente anche se temporaneamente sembriamo essere questo ego. Questo è il motivo per cui Bhagavan e Muruganar spesso descrivono l’auto-investigazione semplicemente come தன்னைப் பற்றுதல் (taṉṉai-p-paṯṟudal) o தன்னை நாடுதல் (taṉṉai nāḍudal), ‘mantenere stessi’ o ‘investigare se stessi’, senza specificare se in questo contesto தன்னை (taṉṉai) o ‘se stessi’ significa noi stessi come questo ego o noi stessi come siamo realmente.

I due versi che abbiamo considerato in questa sezione sono esempi di questo, mentre quelli che considereremo nella sezione successiva sono esempi di casi in cui essi indicano specificatamente che dovremmo dare attenzione a noi stessi come siamo realmente – sebbene ovviamente possiamo farlo solo attraverso il nostro ego finché questo è ciò che sperimentiamo come noi stessi. Come ho spiegato sopra nella quarta sezione, questo è simile a guardare il sole attraverso una tenda relativamente fine. Finché la tenda interviene, non possiamo vedere il sole com’è realmente, ma ciò che stiamo guardando è il sole reale, nondimeno, ciò a cui stiamo dando attenzione è solo il nostro vero sé, sebbene velato e parzialmente oscurato dalle aggiunte che ora sperimentiamo mischiate e confuse con noi stessi.

16. Pādamālai: alcuni versi che indicano che dovremmo dare attenzione a noi stessi come siamo realmente

Come ho spiegato nella sezione precedente, in questa sezione considererò quattro versi da Pādamālai che sono stati tradotti da T.V. Venkatasubramanian e Robert Butler e redatti da David, e che sono inclusi nel libro Inglese Padamalai dal verso 71 al verso 77. In ciascuno di questi versi è chiaramente inteso che dovremmo cercare di investigare o dare attenzione a noi stessi come siamo realmente.
  1. Non lasciare dimorare la tua mente su qualsiasi cosa diversa dalla tua swarupa, perché oltre questa, non c’è altra verità.
Questa è una traduzione del verso 740 dall’originale:
ஈதலா லுண்மைவே றில்லை சொரூபத்தின்
மீதலாற் சிந்தை விடாதியெனும் பாதம்.

īdalā luṇmaivē ṟillai sorūpattiṉ
mīdalāṟ cintai viṭātiyeṉum pādam
.

பதச்சேதம்: ஈது அலால் உண்மை வேறு இல்லை. சொரூபத்தின்மீது அலால் சிந்தை விடாது எனும் பாதம்.

Padacchēdam (separazione delle parole): īdu alāl uṇmai vēṟu illai. sorūpattiṉmīdu alāl cintai viḍādu eṉum pādam.

Traduzione: Tranne questo non c’è altra verità. Non lasciare [o mandare] la [tua] mente tranne che su svarūpa dice Pādam.
Benché questo verso consiste di due frasi separate, e benché il collegamento logico tra esse non è esplicito, l’implicazione è che il pronome ஈது (īdu), che significa ‘questo’ o ‘esso’, nella prima frase si riferisce al sostantivo சொரூபம் (sorūpam) nella seconda, così il collegamento logico implicito è ‘poiché’ o ‘perché’. Cioè, poiché non c’è altra verità tranne சொரூபம் (sorūpam), non dovremmo permettere alla nostra mente di andare verso o dimorare su qualsiasi altra cosa.

Come abbiamo visto precedentemente (nelle sezioni prima e quattordicesima), சொரூபம் (sorūpam) è una forma Tamil della parola Sanscrita स्वरूप (svarūpa), che significa letteralmente ‘propria forma’, ma che Bhagavan generalmente ha usato per riferirsi alla propria natura essenziale o sé reale (tranne quando l’ha usata per riferirsi specificatamente alla natura essenziale di qualsiasi altra cosa). Quindi quando Muruganar la cita qui dicendo che non dovremmo permettere alla nostra mente di andare verso o dimorare su qualsiasi cosa tranne svarūpa, ciò che s’intende è che non dovremmo dare attenzione a qualsiasi cosa diversa dal nostro sé reale. Questa implicazione è confermata dalla prima frase, in cui egli dice che non c’è altre verità eccetto questa, intendendo che ciò che è vero o reale è solo svarūpa. Dunque le parole di Bhagavan registrate in questo verso intendono inequivocabilmente che non dovremmo permettere alla nostra mente di andare verso o dimorare su qualsiasi cosa diversa dalla nostra svarūpa, perché è la sola realtà.
  1. Con la tua consapevolezza tieniti saldo e mai abbandonare il substrato, la tua reale natura, il supremo che non può essere tenuto né lasciato.
Questa è una traduzione del verso 473 dall’originale:
பற்றவிட வொண்ணாப் பரமான நின்சொரூபப்
பற்றைவிடா துன்னறிவாற் பற்றுதியென் பாதம்.

paṯṟaviḍa voṇṇāp paramāṉa niṉsorūpap
paṯṟaiviḍā tuṉṉaṟivāṟ paṯṟudiyeṉ pādam
.

பதச்சேதம்: பற்ற விட ஒண்ணா பரமான நின் சொரூபப் பற்றை விடாது உன் அறிவால் பற்றுதி என் பாதம்.

Padacchēdam (separazione delle parole): paṯṟa viḍa oṇṇā param-āṉa niṉ sorūpa-p-paṯṟai viḍādu uṉ aṟivāl paṯṟudi eṉ pādam.

Traduzione: Con la tua consapevolezza tieniti saldo senza lasciare andare la tua presa sul [tuo] svarūpa, che è il supremo, che non può essere tenuto né lasciato, dice Pādam.
La parola che è stata tradotta come ‘substrato’ nella traduzione redatta da David è பற்றை (paṯṟai), la forma accusativa di பற்று (paṯṟu), che non significa realmente substrato ma presa, stretta, attaccamento o supporto (nel senso di un bastone o qualcosa a cui ci si aggrappa come supporto). In questo caso பற்றை (paṯṟai) è parte di una parola composta, நின் சொரூபப்பற்றை (niṉ sorūpam-p-paṯṟai), che significa o ‘la tua presa su svarūpa’ o ‘la presa sul tuo svarūpa’, così நின் சொரூபப்பற்றை விடாது உன் அறிவால் பற்றுதி (niṉ sorūpam-p-paṯṟai viḍādu uṉ aṟivāl paṯṟudi) significa ‘con la tua consapevolezza tieniti saldo senza lasciare andare la tua presa sul [tuo] svarūpa’. Il fatto che il ‘tuo svarūpa’ qui significa solo il tuo sé reale è reso chiaro dalla proposizione relativa பற்ற விட ஒண்ணா பரமான (paṯṟa viḍa oṇṇā param-āna), che significa, ‘che è il supremo, che non può essere tenuto o lasciato’. Quindi le parole di Bhagavan registrate in questo verso ancora una volta implicano inequivocabilmente che dovremmo tenerci o aggrapparci fermamente al nostro sé reale o svarūpa, che è la realtà ultima e suprema.
  1. Pensare al Sé è dimorare come quella tranquilla consapevolezza. Padam, il vero swarupa, non può essere ricordato né dimenticato.
Questa è una traduzione del verso 228 dall’originale:
தனைக்கருத லாவதுப சாந்தவறி வேயா
நினைக்கமறக் கொண்ணா நிஜசொரூபப் பாதம்.

taṉaikkaruda lāvadupa śāntavaṟi vēyā
niṉaikkamaṟak koṇṇā nijacorūpap pādam
.

பதச்சேதம்: தனை கருதல் ஆவது உபசாந்த அறிவே ஆம். நினைக்க மறக்கு ஒண்ணா நிஜ சொரூபப் பாதம்.

Padacchēdam (separazione delle parole): taṉai karudal-āvadu upaśānta aṟivē ām. niṉaikka maṟakku oṇṇā nija-sorūpa-p-pādam.

Traduzione: Pensare a se stessi è solo tranquilla consapevolezza. Pādam, il proprio innato [o vero svarūpa, non può essere pensato o dimenticato.
தனைக் கருதல் (taṉai-k karudal) significa ‘pensare a se stessi’ o ‘meditare su se stessi’, ma diversamente da ‘pensare’ e ‘meditare’, கருதல் (karudal) è un sostantivo verbale che non richiede alcuna preposizione come ‘di’ o ‘su’ per collegarlo al suo oggetto diretto, così l’immediatezza di தனைக் கருதல் (taṉai-k karudal) può essere trasmessa più precisamente traducendolo usando in Inglese un verbo non preposizionale, come ‘contemplare se stessi’, ‘ponderare se stessi’ o ‘considerare se stessi’. ஆவது (āvadu) è un sostantivo participiale che significa letteralmente ‘ciò che è’, ma è spesso apposto a un sostantivo o frase per indicare che ciò che segue è una definizione di esso, così la prima frase di questo verso è una definizione di ciò che si intende con il termine தனைக் கருதல் (taṉai-k karudal), ‘pensare a se stessi’ o ‘contemplare se stessi’. La definizione di esso è espressa come ‘உபசாந்த அறிவே ஆம்’ (upaśānta aṟivē ām), che signifca ‘è solo tranquilla conoscenza [o consapevolezza]’, ma che in questo contesto implica ‘è solo [essere o dimorare come] tranquilla consapevolezza’, in cui il termine அறிவே (aṟivē) o ‘solo consapevolezza’ implica ‘solo auto-consapevolezza’. In altre parole, la prima riga definisce ‘pensare a se stessi’ o ‘contemplare se stessi’ come semplicemente essere la pura auto-consapevolezza che sempre siamo realmente.

Solo nel contesto di questa prima riga, la parola தனை (taṉai) significa semplicemente se stessi in generale, e non si riferisce specificatamente a noi stessi come siamo realmente o noi stessi come questo ego. Tuttavia, nel contesto dell’intero verso, l’implicazione è che தனை (taṉai) si riferisce qui specificatamente a noi stessi come siamo realmente, perché nella seconda riga Muruganar scrive che Pādam, il proprio innato [o vero] svarūpa, non può essere pensato o dimenticato, che implica che la ragione per cui pensare a se stessi è definito come è nella prima riga, è che non possiamo effettivamente pensare o contemplare il nostro sé reale nello stesso modo in cui possiamo pensare o contemplare altre cose.

நிஜசொரூபப்பாதம் (nija-sorūpa-p-pādam) è un sostantivo composto, in cui நிஜ (nija) è una parola di origine Sanscrita che significa permanente, innato o proprio, ma che in Tamil è usata generalmente nel senso di ciò che è vero o certo, così ciò che questo sostantivo composto significa è che Pādam (Bhagavan) è il nostro நிஜசொரூபம் (nija-sorūpam) o nostro innato e vero svarūpa o sé essenziale. Dunque l’implicazione di questo verso è che poiché Bhagavan non è un fenomeno oggettivo ma solo il nostro sé essenziale, di cui siamo sempre consapevoli, non possiamo pensarlo o dimenticarlo, così il solo modo per ‘pensare’ a lui è di essere attentivamente auto-consapevoli.
  1. Reggendosi saldamente all’immobile Sé, prendendolo come proprio supporto, la mente diverrà libera da agitazione.
Questa è una traduzione del verso 569 dall’originale:
அலங்கலின் றானதன் னாலம் பனத்தாற்
கலங்கலின் றாகுங் கருத்தெனும் பாதம்.

alaṅgaliṉ ḏṟāṉataṉ ṉālam baṉattāṟ
kalaṅgaliṉ ṟāhuṅ karutteṉum pādam.
.

பதச்சேதம்: அலங்கல் இன்று ஆன தன் ஆலம்பனத்தால் கலங்கல் இன்று ஆகும் கருத்து எனும் பாதம்.

Padacchēdam (separazione delle parole): alaṅgal iṉḏṟu āṉa taṉ ālambaṉattāl kalaṅgal iṉḏṟu āhum karuttu eṉum pādam.

Traduzione: Con il supporto di se stesso, che è privo di movimento, la mente diverrà priva di agitazione [o confusione] dice Pādam.
La frase ‘தன் ஆலம்பனத்தால்’ (taṉ ālambaṉattāl) significa letteralmente ‘con il supporto di se stesso’, ma implica attaccarsi a o reggersi su. Poiché ‘se stesso’ qui è descritto come ‘அலங்கல் இன்று ஆன’ (alaṅgal iṉḏṟu āṉa), che significa ‘che [o chi] è privo di movimento’, questo verso intende chiaramente che ciò a cui dovremmo reggerci è solo il nostro sé reale, che, solo, mai si muove, e che reggendosi a noi stessi la nostra mente diverrà priva di agitazione o confusione. In altre parole, ciò a cui dovremmo dare attenzione o di cui dovremmo essere consapevoli è solo il nostro sé reale, perché facendo questo tutta l’attività della nostra mente sprofonderà nella perfetta immobilità che siamo realmente.

17. Quale fu dunque la reale visione di Muruganar?

Come abbiamo visto nella sezione dieci (particolarmente nella sottosezione 10c), nel suo commentario al verso 44 di Śrī Aruṇācala Akṣaramaṇamālai Muruganar ha spiegato che ‘விசாரத்துக்கு விஷயம்’ (vicārattukku viṣayam), l’‘ambito e soggetto per l’investigazione’, non è ātman (che è il noi stessi come siamo realmente), ma solo il jīva o l’ego (che è il noi stessi che sembriamo essere), sebbene come abbiamo visto dalla sezione 13 alla 16, in molti dei suoi versi in Guru Vācaka Kōvai e Pādamālai non ha avuto esitazione nell’intendere che dovremmo dare attenzione o reggerci sul nostro svarūpa o il nostro sé reale. Benché questa può superficialmente sembrare una contraddizione, in effetti non lo è, come possiamo vedere se comprendiamo esattamente ciò che intendeva con il termine ‘விசாரத்துக்கு விஷயம்’ (vicārattukku viṣayam).

Ciò che intendeva con questo termine è stato da lui chiarito in una frase susseguente nel suo commentario al verso 44 di Śrī Aruṇācala Akṣaramaṇamālai, vale a dire nella proposizione in cui ha scritto ‘அவ் வான்மாதான், ஆன்மஸாக்ஷாத்காரத்துக்குப் பிரதிபந்தமான அகந்தை அவ்விசாரத்தின் பயனாக அழியவே, ஜீவனுக்கு அவன் சொரூபமேயாக நின்று சாந்த விருத்தியாற் றன்மயமாக அவனா லறிந்தனுபவிக்கப் படலன்றி, என்றும் எவ்விதத்திலும் அவன் சாதன விசாரத்துக்குச் சற்றும் அஃது விஷயம் அன்மையாலும் (ஆகாமையாலும்)’ (a-vv-āṉmā-dāṉ, āṉma-sākṣātkārattukku-p piratibandham-āṉa ahandai a-v-vicārattiṉ payaṉ-āha aṙiyavē, jīvaṉukku avaṉ sorūpamē-y-āha niṉḏṟu śānta-viruttiyāl taṉmayam-āha avaṉāl āṟindaṉubhavikka-p-paḍal-aṉḏṟi, eṉḏṟum evvidhattilum avaṉ sādhaṉa vicārattukku-c caṯṟum aḵdu viṣayam aṉmaiyālum (āhāmaiyālum)), che significa: ‘e poiché esso [ātman] non è (e non diviene [o non è adatto ad essere]) mai o in ogni modo il viṣaya [ambito o soggetto] anche minimamente per vicāra, la sua [del jīva] sādhana, tranne che quando l’ego, che è l’ostacolo a ātma-sākṣātkāra [esperienza diretta dell’ātman], è distrutta come risultato di quella vicāra, per il jīva quell’ātman stessa rimarrà solo come sua svarūpa [propria forma] e sarà conosciuto e sperimentato da lui come tanmaya [composto di quello] per mezzo di śānta-vṛtti [lo stato di pace]’.

La chiave per comprendere esattamente ciò che egli intendeva con il termine ‘விசாரத்துக்கு விஷயம்’ (vicārattukku viṣayam) sta nella proposizione d’eccezione all’interno di questa proposizione, vale a dire, nella mia traduzione, la parte di essa da ‘eccetto che’ fino alla fine. Quello che possiamo dedurre da ciò che scrive in questa proposizione d’eccezione è che poiché il nostro ego è ‘ஆன்மஸாக்ஷாத்காரத்துக்குப் பிரதிபந்தம்’ (āṉma-sākṣātkārattukku-p piratibandham), che significa ‘l’ostacolo (pratibandha) a ātma-sākṣātkāra [esperienza diretta di ātman]’, non possiamo sperimentare direttamente l’ ātman (noi stessi come siamo realmente) finché sperimentiamo noi stessi come questo ego, così anche se l’ātman è realmente la nostra forma o svarūpa (e quindi la forma propria o svarūpa del nostro ego), attualmente sperimentiamo il nostro ātman o svarūpa solo indirettamente attraverso la mediazione di noi stessi come questo ego. Quindi è solo attraverso la mediazione del nostro ego che possiamo investigare o dare attenzione all’ātman, così l’ambito o soggetto immediato della nostra auto-investigazione (ātma-vicāra) non è noi stessi come ātman ma solo noi stessi come ego.

Quindi ciò che Muruganar intendeva con il termine ‘விசாரத்துக்கு விஷயம்’ (vicārattukku viṣayam) è l’ambito o soggetto immeditato per l’investigazione, così quando ha scritto che il viṣaya per la vicāra non è l’ātman ma solo l’ego, egli non intendeva negare che possiamo investigare o dare attenzione all’ātman ma intendeva solo spiegare che possiamo investigare o dare attenzione all’ātman solo indirettamente attraverso la mediazione del nostro ego. Questa è la stessa idea che ho cercato di spiegare nella sezione quarta per mezzo dell’analogia di vedere il sole attraverso la mediazione di una tenda relativamente fine. Poiché la tenda vela e quindi oscura parzialmente il sole dalla nostra vista, non possiamo vederlo come è realmente finché interviene la tenda, sebbene è nondimeno il sole reale quello che stiamo vedendo attraverso la mediazione della tenda. Ugualmente, poiché il nostro ego (o piuttosto le sue aggiunte) vela e quindi oscura parzialmente il nostro ātman (noi stessi come siamo realmente) dalla nostra esperienza, non possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente finché interviene la tenda del nostro ego mischiato ad aggiunte, sebbene è nondimeno il nostro sé reale o ātman quello che stiamo sperimentando attraverso la mediazione del nostro ego.

Quindi ogni volta che Muruganar intendeva in Guru Vācaka Kōvai, Pādamālai o ognuna delle sue altre opere che dovremmo dare attenzione o reggerci al nostro svarūpa o sé reale, non contraddisse mai la sua spiegazione che ‘விசாரத்துக்கு விஷயம்’ (vicārattukku viṣayam), l’ambito o soggetto immediato per l’investigazione, non è ātman ma solo l’ego. Poiché ora sperimentiamo l’ātman in una forma distorta come questo ego, la forma immediata in cui possiamo investigare o dare attenzione all’ātman è solo questo ego, così solo questo ego è il viṣaya per la nostra investigazione.

18. Conclusione: per quanto possa essere descritta, c’è solo una pratica corretta di auto-investigazione

La discussione che ho commentato in questo articolo e che è continuata nei commenti al mio articolo precedente, è stata iniziata dal commento in cui Viswanathan ha scritto, ‘Ho bisogno di sottolineare qui che proprio come hai menzionato che ci sono differenti pratiche di Bakthi Marga, ci sono differenti punti di vista su ciò che Bhagavan intendeva realmente con Atma Vichara’, e poi ha citato un commento scritto da David in cui egli diceva di essere in disaccordo con la spiegazione fornita da Sadhu Om riguardo la pratica di auto-investigazione (ātma-vicāra), perché egli credeva che la pratica corretta comporta il dare attenzione solo al nostro ego e non al nostro sé reale. L’implicazione in ciò che Viswanathan ha scritto è che egli presuppone che poiché ātma-vicāra è qualche volta descritta come investigare il nostro ego e qualche volta come investigare ciò che siamo realmente, questi sono due metodi differenti o modi distinti in cui possiamo praticare l’auto-investigazione.

Tuttavia, questo non è ovviamente il caso. Benché sotto il grande ombrello del bhakti mārga (il sentiero della devozione) ci sono molte pratiche differenti, secondo Bhagavan c’è solo una pratica corretta di jñāna mārga (il sentiero della conoscenza), vale a dire l’auto-investigazione, come egli ha indicato, per esempio, nel verso 29 di Uḷḷadu Nāṟpadu dicendo ‘உள் ஆழ் மனத்தால் நான் என்று எங்கு உந்தும் என நாடுதலே ஞான நெறி ஆம்’ (uḷ āṙ maṉattāl nāṉ eṉḏṟu eṅgu undum eṉa nāḍudalē jñāṉa-neṟi ām), che significa ‘solo investigare per mezzo di una mente che sprofonda all’interno dove essa sorge come io è il sentiero di jñāna’. In questa frase il suffisso intensificativo ஏ (ē) che egli ha apposto a நாடுதல் (nāḍudal), che significa ‘investigare’, implica che solo questa investigazione è ஞான நெறி (jñāṉa-neṟi), il sentiero di jñāna.

Sebbene Bhagavan ha descritto questa pratica di auto-investigazione (ātma-vicāra) in vari modi differenti, ha reso chiaro che queste sono solo varie descrizioni dell’unica e sola pratica. Quindi sia che egli l’abbia descritta come investigare il nostro ego, investigare la sorgente dalla quale questo ego sorge, o investigare ciò che siamo realmente, la pratica che descriveva in ciascun caso era la stessa, perché siamo solo un sé, così sebbene ora sembriamo essere questo ego limitato, ciò che siamo realmente è la sorgente e la sostanza di questo ego, che è l’unica realtà infinita, all’infuori del quale niente esiste. Possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente solo investigando, osservando molto attentamente o dando accuratamente attenzione a noi stessi, e poiché siamo solo un sé, non ci può essere più di un modo in cui possiamo investigare noi stessi.

Poiché ora sembriamo essere questo ego, abbiamo bisogno di investigare questo ego per vedere ciò che siamo realmente, ma poiché siamo ciò che ora sembra essere questo ego, non possiamo guardare il nostro ego senza guardare effettivamente noi stessi (ciò che siamo realmente), proprio come non possiamo guardare un serpente illusorio senza guardare effettivamente la corda che esso è realmente. Quindi se qualcuno pensa che l’auto-investigazione comporti il guardare solo il nostro ego e non guardare il nostro sé reale, si sta solo aggrappando ad un modo particolare di concettualizzare questa singola pratica, escludendo altri modi di concettualizzarla. Tuttavia, finché cerchiamo di dare attenzione soltanto a noi stessi, non importa realmente se concettualizziamo questa pratica come dare attenzione al nostro ego, dare attenzione al nostro sé reale o dare attenzione ad entrambi, perché quando cerchiamo realmente di farlo abbiamo bisogno di mettere da parte tutti i concetti mentali e cercare di sperimentare solo noi stessi, la sola sorgente di tutti i concetti, chi ora sembra esserne lo sperimentatore, anche se non siamo realmente toccati da essi.

Parlando generalmente è meglio se la nostra comprensione di questa pratica non è troppo rigida o limitata ad idee fisse, perché la rigidità di comprensione è creata dall’attaccamento a idee particolari o a punti di vista limitati e può soffocare la vera investigazione, che è un processo aperto e fluido di scoperta interiore, che è aiutato al meglio da una comprensione sfumata in grado di vedere l’intento reale dietro qualunque parola possa essere usata per descriverlo.

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