Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

mercoledì 7 ottobre 2015

L’auto-conoscenza non è un vuoto (śūnya)

Michael James

22 Settembre 2015
Self-knowledge is not a void (śūnya)

In un commento a uno dei miei articoli recenti, Il termine nirviśēṣa o ‘senza caratteristiche’ indica un’esperienza assoluta ma può essere compreso concettualmente solo in un senso relativo , un amico di nome Bob ha posto diverse domande riguardanti l’idea di vuoto, spazio vuoto o nulla ed ha espresso la sua paura di una tale idea. Ha iniziato chiedendo perché tutti noi possiamo ora ricordare che ciò che abbiamo sperimentato nel sonno profondo era un nulla, o piuttosto perché non possiamo ricordare nessuna cosa tranne che esistevamo ed ha suggerito, ‘E’ questo perché la consapevolezza conoscente illusoria e dualistica [la nostra mente o ego] non può concepire il vero essere consapevolezza non-duale [?]. E’ passato poi a dire, ‘Ti starei mentendo se dicessi che arrendere me stesso […] non è pauroso. E’ molto pauroso come sono impaurito di dissolvermi nello sconosciuto. E’ come lasciarsi andare in un precipizio e cadere nel nulla, lo sconosciuto totale… il freddo vuoto assoluto’, ma poi ha chiesto, ‘è più preciso dire che il me stesso come sono realmente, l’infinito essere consapevolezza non-duale che sperimenta ogni cosa come se stesso, non è solo uno spazio vuoto o un freddo nulla ma è esattamente una realtà completamente oltre la concettualizzazione della mia mente limitata dualistica ed egoica[?]’, e ha aggiunto, ‘Questo sembra un lasciarsi andare meno spaventoso poiché non sto cadendo affatto in un freddo vuoto assoluto’.

Per chiarire ciò che stava cercando di esprimere ha anche chiesto diverse altre domande come ‘è giusto dire che l’essere consapevolezza infinito e non-duale non è uno spazio vuoto di nulla, ma è solo una realtà oltre ciò che la mente limitata può comprendere, così quando si cerca di ricordarlo dall’illusorio e dualistico stato di veglia sembra un vuoto[?]’ e ‘è giusto dire che quando sperimento me stesso come sono realmente con perfetta chiarezza di auto-consapevolezza questo, prima apparente, vuoto assoluto che una volta ho collegato al sonno profondo sarà ora l’unica vera realtà dal momento che la veglia e il sogno si saranno dissolti in esso e lo stato di sonno profondo sarà in quel momento tutto ciò che mai ci fu/c’è stato[?] Il velo di mancanza di chiarezza sarebbe sollevato per sempre’, prima di esprimere infine la sua speranza che ‘questa percezione una volta apparente di freddo spazio vuoto assoluto dello stato di sonno profondo non sarà così ma al contrario sarà una realtà di pura beatitudine… pura felicità di essere dove io sperimento ogni cosa come me stesso … essa non sarà affatto un freddo spazio vuoto’.

Questo articolo è quindi un tentativo di rassicurare Bob che l’esperienza di vera auto-conoscenza non è paurosa come può sembrare, e che è qualcosa assai oltre ogni idea che la nostra mente limitata può avere di essa.
  1. Il vuoto, lo spazio vuoto e il nulla sono solo idee
  2. Il significato di śūnya e śūnyatā
  3. Non siamo śūnya nel senso di non esistente o nulla
  4. Upadēśa Undiyār verso 23: ciò che esiste (uḷḷadu) è ciò che è consapevole (uṇarvu)
  5. La vacuità richiede l’esistenza di qualcosa che è vacuo
  6. Suñña Lōka Suttaṁ: il mondo è ‘vuoto di se stesso o di ogni altra cosa che appartiene a se stesso’
  7. Cosa intendeva Buddha con anattā ?
  8. Upadēśa Undiyār verso 28: la vera natura di noi stessi
  9. Noi siamo pienezza, non un vuoto, perché niente altro che noi stessi esiste realmente
  10. Ēkāṉma Pañcakam verso 5: ciò che esiste sempre per luce propria è solo noi stessi
  11. Upadēśa Undiyār verso 27: noi siamo privi di conoscenza e ignoranza
  12. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 10: conoscere la non-esistenza dell’ego è vera conoscenza
  13. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 11: conoscere qualsiasi cosa diversa da noi stessi è ignoranza
  14. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 12: noi non siamo un vuoto, sebbene privi di conoscenza e ignoranza
    1. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 31: quando il nostro ego sarà distrutto, non conosceremo qualcosa diversa da noi stessi
    2. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 18: quando conosceremo noi stessi, sperimenteremo il mondo solo come il suo substrato senza forma
    3. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 4: possiamo sperimentare il mondo come forme solo se sperimentiamo noi stessi come una forma
    4. Perché la vera conoscenza è priva non solo di conoscenza ma anche di ignoranza di qualsiasi cosa diversa da noi stessi
    5. Poiché la vera conoscenza è priva di conoscenza e di ignoranza, perché Bhagavan dice che non è un vuoto?
  15. Noi soltanto siamo ciò che è pieno, intero o pūrṇa
    1. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 7: la causa e la sorgente eterna ed immutabile dell’ego e del mondo è il tutto infinito
    2. Upadēśa Undiyār verso 20: ciò che rimane come ‘io sono io’ dopo che l’ego si è dissolto è pienezza infinita
    3. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 30: ‘io sono io’ significa che noi siamo solo noi stessi, e poiché niente altro esiste noi siamo il tutto infinito
  16. Upadēśa Taṉippākkaḷ verso 12: essere consapevoli della molteplicità è ignoranza
  17. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 13: poiché noi solo siamo reali, essere consapevoli di qualsiasi altra cosa è ignoranza
  18. Perché abbiamo paura di lasciar andare ogni cosa?
    1. Perché, alla nostra mente sveglia, il sonno sembra essere stato uno spazio vuoto?


1. Il vuoto, lo spazio vuoto e il nulla sono solo idee

Benché ho scritto nella mia prima frase sopra che ‘Bob ha posto diverse domande concernenti l’idea di un vuoto, spazio vuoto o nulla e ha espresso la sua paura di un0idea come questa, non si riferiva effettivamente al vuoto, spazio vuoto o nulla come un’idea, ma questo è tutto ciò che essi sono realmente. Cioè, essi sono solo idee formate dalla nostra mente nel suo tentativo di concepire l’inconcepibile, ed avendo formato tali idee la nostra mente si impaurisce di esse. Iniziamo, quindi, esaminando queste idee per rivelare la loro vacuità.

2. Il significato di śūnya e śūnyatā

In Sanscrito c’è un aggettivo, शून्य (śūnya), che significa vuoto o vacuo, e un sostantivo astratto corrispondente, शून्यता (śūnyatā), che significa vacuità o vuotezza, e questi sono termini che giocano un ruolo importante nella filosofia Buddhista, sebbene più in alcune scuole di questa filosofia che in altre, e benché ciascuna scuola le interpreti a proprio modo. Entrambi questi termini sono in definitiva derivati dalla radice शू (śū), che è una forma debole di श्वि (śvi), un verbo che significa crescere, aumentare, ingrossare o gonfiarsi, e questa radice dà origine al sostantivo शून (śūna), che originariamente significava gonfio e così è giunto a significare cavità, vacuità, una mancanza o un’assenza, e che a sua volta ha dato origine all’aggettivo शून्य (śūnya). Quindi il significato basilare di śūnya è vuoto, vacuo o vacante, ma più tardi è arrivato a significare non-esistente, ed è anche usato come un sostantivo dal significato di zero, nullità o nulla.

Dunque, quando usato in un contesto metafisico o spirituale, il termine śūnya può essere interpretato in entrambi i due modi distinti, vale a dire nel significato di vuoto o vacuo o nel significato di non-esistente o nulla, così abbiamo bisogno di considerare ciascuno di questi due ampi significati separatamente. Iniziamo considerando la serie secondaria di significati, vale a dire non-esistente o nulla. Il termine ‘nulla’ non si riferisce a qualcosa che esiste realmente, ma solo a un’idea – l’idea di una non-cosa o qualcosa che non esiste. Come tale, non abbiamo bisogno di occuparci di niente, perche ciò di cui abbiamo bisogno di occuparci è solo ciò che è (uḷḷadu) e non ciò che non è (illadu).

3. Non siamo śūnya nel senso di non esistente o nulla

Ciò che stiamo cercando di sperimentare è noi stessi come siamo realmente, e noi non possiamo essere nulla, perché se fossimo nulla non esisteremmo e quindi non potremmo sperimentare o essere consapevoli di qualcosa. Il fatto che sperimentiamo e siamo consapevoli è sufficiente a provare che esistiamo – in altre parole, che siamo qualcosa e non nulla. Quindi noi non possiamo essere śūnya nel senso di non-esistenti o nulla.

Tranne noi stessi, qualsiasi altra cosa o ogni cosa che sperimentiamo potrebbe essere non-esistente, perché anche se tali cose sembrano esistere, possono non esistere realmente. Esse possono essere solo un’illusione o delle false apparenze – cose che sembrano esistere nella nostra esperienza ma non esistono realmente indipendentemente dalla nostra esperienza di esse. Quindi la sola cosa che esiste necessariamente è noi stessi, perché sebbene ogni altra cosa potrebbe essere un’illusione, noi non possiamo essere un’illusione, perché per sperimentare qualsiasi cosa, sia reale che illusoria, noi dobbiamo esistere. Dunque il nostro essere consapevoli è sufficiente a provare che esistiamo – cioè, che esistiamo realmente e non che solamente sembriamo esistere.

4. Upadēśa Undiyār verso 23: ciò che esiste (uḷḷadu) è ciò che è consapevole (uṇarvu)

Esistenza e consapevolezza sono inseparabili. La stessa idea di esistenza sorge solo perché siamo consapevoli. Se non fossimo consapevoli, non potremmo sapere che qualcosa esiste. La sola prova che qualcosa esiste è basata interamente sulla nostra consapevolezza.

Generalmente presumiamo che certe cose esistano anche se non siamo direttamente consapevoli della loro esistenza, ma la presunta esistenza di tali cose è solo un’idea, una convinzione o un’illazione che sorge nella nostra mente e che quindi dipende dalla nostra consapevolezza di essa come un’idea. Per esempio, oggigiorno si crede ampiamente che l’universo come lo conosciamo abbia avuto origine da un ‘big bang’ che avvenne circa 13.8 milioni di anni fa, ma questo ‘big bang’ è solo una teoria o un’idea che abbiamo letto o che abbiamo sentito. E ci è stato detto che essa è una teoria che gli scienziati hanno sviluppato dalle deduzioni che hanno tratto dalle loro osservazioni. Anche se avessimo compreso tutta la scienza su sui questa teoria è fondata, e anche se l’avessimo quindi giudicata plausibile, sarebbe per noi ancora solo un’idea che esiste solo quando ne siamo consapevoli.

Anche l’idea che il mondo esisteva quando eravamo addormentati, o l’idea che esso esisteva cinque minuti fa, sono solo idee che esistono ogni volta che ne siamo consapevoli. Non possiamo essere sicuri di ognuna di queste cose, e non possiamo neppure essere sicuri che qualsiasi cosa di cui siamo attualmente consapevoli (tranne noi stessi) esista realmente, perché l’esistenza apparente di tali cose potrebbe essere un’illusione. Tutto ciò che possiamo dire con certezza è che tali cose e idee sembrano attualmente esistere nella nostra consapevolezza. Quindi la sola cosa la cui reale esistenza è certa è noi stessi, la consapevolezza in cui altre cose, qualche volta, sembrano esistere.

L’unità di esistenza e consapevolezza (cioè, di ciò che esiste e di ciò che è consapevole) è spiegata da Bhagavan nel verso 23 di Upadēśa Undiyār:
உள்ள துணர வுணர்வுவே றின்மையி
னுள்ள துணர்வாகு முந்தீபற
      வுணர்வேநா மாயுள முந்தீபற.

uḷḷa duṇara vuṇarvuvē ṟiṉmaiyi
ṉuḷḷa duṇarvāhu mundīpaṟa
      vuṇarvēnā māyuḷa mundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: உள்ளது உணர உணர்வு வேறு இன்மையின், உள்ளது உணர்வு ஆகும். உணர்வே நாமாய் உளம்.

Padacchēdam (separazione delle parole): uḷḷadu uṇara uṇarvu vēṟu iṉmaiyiṉ, uḷḷadu uṇarvu āhum. uṇarvē nām-āy uḷam.

அன்வயம்: உள்ளது உணர வேறு உணர்வு இன்மையின், உள்ளது உணர்வு ஆகும். உணர்வே நாமாய் உளம்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): uḷḷadu uṇara vēṟu uṇarvu iṉmaiyiṉ, uḷḷadu uṇarvu āhum. uṇarvē nām-āy uḷam.

Traduzione: A causa della non-esistenza di [ogni] uṇarvu [consapevolezza] diversa [da uḷḷadu] per conoscere uḷḷadu [ciò che esiste], uḷḷadu is uṇarvu. Uṇarvu solo esiste come noi.
உள்ளது (uḷḷadu) significa ‘ciò che è’ o ‘ciò che esiste’, e உணர்வு (uṇarvu) significa consapevolezza o coscienza, ma in questo contesto significa consapevolezza nel senso di ciò che è consapevole. Se qualcuno argomentasse che ciò che è consapevole (uṇarvu) è qualcosa diversa da ciò che è (uḷḷadu), questo implicherebbe che ciò che è consapevole non esiste, che sarebbe un assurdo. Poiché ciò che è consapevole deve esistere per essere consapevole, esso deve essere ciò che esiste realmente. Questo è il motivo per cui Bhagavan argomenta: ‘A causa della non-esistenza di [ogni] consapevolezza diversa [da ciò che è] per conoscere ciò che è, ciò che è, è consapevolezza.

Se ciò che è (uḷḷadu) non fosse consapevole, non potrebbe essere conosciuto o sperimentato, perché richiederebbe qualche consapevolezza diversa da se stesso per sperimentarlo, e ogni cosa diversa da ciò che è (uḷḷadu) sarebbe necessariamente ciò che non è (illadu), così ovviamente nessuna consapevolezza diversa da ciò che è potrebbe esistere. Quindi solo ciò che è (uḷḷadu) può essere consapevole di ciò che è, di conseguenza ciò che è (uḷḷadu) deve essere ciò che è consapevole (uṇarvu). Nello stesso modo, ciò che è consapevole (uṇarvu) deve essere ciò che è (uḷḷadu), perché per essere consapevole esso deve esistere.

Ciò che è consapevole (uṇarvu) deve esistere realmente, ma qualsiasi cosa diversa da se stesso di cui è consapevole non esiste necessariamente, perché potrebbe essere un’illusione – qualcosa che sembra esistere ma non esiste realmente. Quindi la sola cosa la cui esistenza è certa è ciò che è consapevole, e ciò che è consapevole è noi stessi, ‘io’. Noi possiamo non essere qualsiasi cosa ora sembriamo essere, ma esistiamo almeno come la cosa fondamentale che è consapevole (uṇarvu).

Nella frase finale di questo verso egli conclude, ‘உணர்வே நாமாய் உளம்’ (uṇarvē nām-āy uḷam), che significa, ‘Ciò che è consapevole (uṇarvu) solo esiste come noi’, e che in questo contesto implica anche che solo ciò che è (uḷḷadu) esiste come noi. In questo frase l’entità assoluta o unità di consapevolezza e noi stessi è enfatizzata in due modi. Prima di tutto il suffisso ஏ (ē) che è apposto a உணர்வு (uṇarvu) è un intensificatore che trasmette il senso di ‘solo’ o ‘certamente’, di conseguenza comporta non solo che noi siamo ciò che è consapevole ma che noi siamo solo ciò che è consapevole – in altre parole, non siamo nient’altro che ciò che è consapevole. In secondo luogo, benché il soggetto di questa frase sia உணர்வே (uṇarvē), che significa ‘consapevolezza solo’ o ‘solo consapevolezza’, e benché ci aspetteremmo normalmente che esso sia trattato grammaticalmente come una terza persona, Bhagavan lo tratta come la prima persona, perché il verbo உளம் (uḷam), che è un’abbreviazione poetica di உள்ளம் (uḷḷam) e che significa ‘esistiamo’ o ‘siamo’, è una forma in prima persona plurale di உள் (uḷ), che significa essere o esistere.

Tuttavia, benché உளம் (uḷam) è un verbo di prima persona plurale, Bhagavan non intendeva che la consapevolezza (uṇarvu) è plurale ma solo che è la prima persona, ‘io’. La ragione per cui egli usa questa forma di prima persona plurale del verbo è che in questo contesto (come spesso ha fatto) sta usando il pronome di prima persona plurale நாம் (nām), che significa ‘noi’ in un senso inclusivo, come un pronome generico che si riferisce a noi stessi, così esso rappresenta realmente il pronome di prima persona singolare ‘io’. Quindi benché உள்ளம் (uḷḷam) o உளம் (uḷam)è grammaticalmente una forma plurale, in questo contesto esso rappresenta realmente la forma di prima persona singolare உள்ளேன் (uḷḷēṉ), che significa ‘sono’, dunque possiamo parafrasare il significato di questa frase finale in questo modo: ‘Ciò che è consapevole உள்ளேன் (uḷḷēṉ), sono soltanto come io’. In altre parole, ciò che è consapevole è solo ‘io’, noi stessi.

Poiché noi siamo solo ciò che è consapevole, e poiché ciò che è consapevole è ciò che è, ciò che questo verso implica è che noi siamo sia ciò che è consapevole (uṇarvu) sia ciò che esiste realmente (uḷḷadu), e che non siamo nient'altro – cioè, non siamo nient'altro che l’unica realtà, che è ciò che esiste e ciò che è consapevole. Quindi poiché noi esistiamo e siamo consapevoli della nostra esistenza, certamente non siamo śūnya nel senso di non-esistenti o nulla.

5. La vacuità richiede l’esistenza di qualcosa che è vacuo

Consideriamo ora la serie principale dei significati di questa parola śūnya, vale a dire vacuo o vuoto. Il primo punto da notare riguardo l’idea di vacuità o vuotezza è che il nulla non può essere vuoto, poiché non esiste, così la vacuità implica l’esistenza di qualcosa che è vacuo. Quindi quando i termini ‘vacuo’ o ‘vuoto’ sono usati in un senso metaforico, non implicano un nichilismo assoluto, come farebbe il termine ‘nulla’ o ‘non-esistente’.

Un altro punto da notare riguardo l’idea di vacuità è che è un concetto relativo, perché non ci può essere una cosa come la vacuità assoluta, poiché anche se niente altro fosse presente in qualunque cosa fosse detta vacua, almeno lo spazio sarebbe presente. In un contesto fisico, la cosa più vicina a un vuoto sarebbe uno spazio oscuro che non contiene particelle subatomiche, radiazioni, campi magnetici, gravità o qualcosa del genere ma anche un tale vuoto sarebbe riempito dallo spazio fisico.

In un contesto metaforico, se qualcosa è detta vacua o vuota, dovremmo chiederci vacua o vuota di cosa? Anche se fosse vacua o vuota di tutte le cose, proprietà o caratteristiche particolari, sarebbe ancora piena di se stessa, così in quel senso non sarebbe un vuoto o una vacuità assoluta. Di fatto, cercando di concepire l’esistenza di qualcosa vacua di ogni cosa tranne che di se stessa, siamo condotti a vedere che vacuità e pienezza significano la stessa cosa, perché ciò che è vacuo di ogni altra cosa deve essere pieno di se stesso, e ciò che è pieno di se stesso deve essere vacuo di ogni altra cosa.

Come un concetto metafisico, l’idea di śūnya o śūnyatā risulta essere un concetto piuttosto vano e inutile. Nel senso di nulla o non-esistenza, śūnyatā non significa niente, perché nulla non è una cosa, ma è solamente una negazione o un rifiuto concettuale di ciò che è, così al di fuori del mondo dei concetti (la mente) il nulla non esiste e quindi non è affatto qualcosa. Nel senso di vacuità o vuotezza, d’altra parte, śūnyatā è un concetto vago, non informativo e incompleto perché non ci informa di cosa è vacuo o di ciò di cui esso è vacuo.

Quindi è una sorpresa che i termini śūnya e śūnyatā abbiano acquisito un’importanza così centrale in molte forme di filosofia Buddhista. Naturalmente questi termini possono acquisire significato se sono usati nel senso di vacuità e con una comprensione di cosa è vacuo e di ciò di cui esso è vacuo, ma se considerato in isolamento da tale comprensione, essi non significano inequivocabilmente niente.

6. Suñña Lōka Suttaṁ: il mondo è ‘vuoto di se stesso o di ogni altra cosa che appartiene a se stesso’

La forma Pali della parola Sanscrita śūnya è suñña, e la prima menzione di questo concetto nei testi Buddhisti si trova nel Tipiṭaka (il Canone Pali). Per esempio, nel Suñña Lōka Suttaṁ, è riportato che quando a Buddha fu chiesto rispetto a cosa il mondo è definito vacuo (suñña), egli ha risposto che è definito vacuo perché è ‘suññaṁ attēna vā attaniyēna vā’, che significa letteralmente ‘vacuo di ātman o di qualsiasi cosa che appartiene all’ātman’ e che implica ‘vacuo di se stesso o di qualsiasi cosa che appartiene a se stesso’, e poi ha continuato elencando varie cose nel mondo che sono ‘vacue di se stesse o di qualsiasi cosa che appartiene a se stesse’, come i cinque sensi, le sensazioni e gli oggetti percepiti da ciascuno di essi, il corpo, la mente e qualunque cosa è da essa conosciuta. Dunque ciò che ha detto equivaleva a dire che tutti i fenomeni – ogni cosa che sperimentiamo diversa da noi stessi – sono ‘vacui di se stessi o di qualsiasi cosa che appartiene a se stessi’, o in altre parole che nessun fenomeno è noi stessi. Se compreso in questo senso, il significato di suñña o śūnya è abbastanza chiaro, semplice e indiscutibile: ciò che è vacuo è il mondo o qualsiasi cosa diversa da noi stessi, e ciò di cui esso è vuoto è noi stessi.

7. Cosa intendeva Buddha con anattā ?

Tuttavia, nei testi successivi questi termini furono usati in altri contesti e acquisirono altri significati. Per esempio, nel Buddhismo Theravada il termine suñña è spesso identificato con il concetto di anattā, che è una forma Pali del termine Sanscrito अनात्मन् (anātman), che significa ‘non-sé’ o ‘non se stesso’, ma questo concetto è stato frainteso da molti Buddhisti nel significato che non c’è alcun sé. Quindi se suñña è identificato con anattā e se anattā è preso nel significato di una negazione dell’esistenza di ogni sé, esso diviene enormemente problematico.

Prima di tutto il termine anātman o anattā non significa realmente che non c’è sé, perché in Sanscrito e in Pali il prefisso a- e an- hanno più o meno lo stesso significato come anche in certe parole Inglesi come amorale, ateismo, anarchia o anemia. Un ateo, per esempio, è qualcuno che non è un teista, e non qualcuno che rifiuta l’esistenza dei teisti. Nello stesso modo anātman o anattā significa ‘non sé’, e non implica affatto che non c’è alcun sé. In secondo luogo, dire che non c’è sé equivale a dire che niente esiste, perché una cosa e se stessa non sono due cose differenti. Non c’è ovviamente ‘sé’ che esiste indipendentemente da qualunque cosa di cui è il sé. Un tavolo e se stesso sono una stessa cosa, proprio come io e me stesso siamo una stessa cosa. Quindi, poiché ogni cosa è se stessa, non ci può essere qualcosa come una cosa senza sé (una cosa che non ha sé), così se non ci fosse sé, non ci sarebbe niente.

Quando Buddha usò il termine anattā, e quando disse, per esempio (come registrato in vari testi come nel verso 279 del Dhammapada), ‘sabbē dhammā anattā’, che significa ‘Tutti i fenomeno sono non-sé’, ovviamente non intendeva che ogni cosa non è se stessa (che sarebbe un assurdo), ma solo che tutte le cose impermanenti (ogni cosa che appare e scompare o che cambia in qualche modo) non è noi stessi – cioè, non è ciò che siamo realmente. Rispetto a questo ciò che Buddha ha insegnato è uguale a ciò che ha insegnato Bhagavan.

8. Upadēśa Undiyār verso 28: la vera natura di noi stessi

In forme successive di Buddhismo i termini śūnya e śūnyatā furono usati in vari altri sensi e acquisirono varie altre implicazioni, e alcune forme di filosofia Buddhista sembrano anche aver elevato śūnyatā (vacuità) allo stato di realtà assoluta. Se questo fu o meno ciò che ogni serio filosofo Buddhista intendeva realmente è materia di discussione, come lo sono le domande riguardo come ciascuna delle varie visioni riguardo śūnyatā dovrebbe essere esattamente interpretata, ma se consideriamo attentamente se śūnyatā possa essere ciò che è assolutamente reale, è chiaro che non può esserlo, perché la vacuità non può esistere indipendentemente da qualcosa che è vacuo, così qualunque cosa vacua deve essere reale almeno quanto la sua vacuità.

Tuttavia non abbiamo bisogno di interessarci alla maggior parte delle visioni riguardo śūnyatā, perché ciò che stiamo cercando di sperimentare è solo noi stessi come siamo realmente, così abbiamo bisogno di interessarci a termini come śūnya e śūnyatā solo nella misura in cui sono applicabili a ciò che siamo realmente. Per questo dobbiamo rivolgerci a ciò che Bhagavan ci ha insegnato riguardo la vera natura di noi stessi, perché attualmente non sperimentiamo noi stessi come siamo realmente, così la sorgente più affidabile di informazioni per noi disponibili riguardo ciò che siamo realmente sono i suoi scritti originali.

La vera natura di noi stessi è stata espressa precisamente da lui nel verso 28 di Upadēśa Undiyār:
தனாதியல் யாதெனத் தான்றெரி கிற்பின்
னனாதி யனந்தசத் துந்தீபற
      வகண்ட சிதானந்த முந்தீபற.

taṉādiyal yādeṉat tāṉḏṟeri hiṯpiṉ
ṉaṉādi yaṉantasat tundīpaṟa
      vakhaṇḍa cidāṉanda mundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: தனாது இயல் யாது என தான் தெரிகில், பின் அனாதி அனந்த சத்து அகண்ட சித் ஆனந்தம்.

Padacchēdam (separazione delle parole): taṉādu iyal yādu eṉa tāṉ terihil, piṉ aṉādi aṉanta sattu akhaṇḍa cit āṉandam.

அன்வயம்: தான் தனாது இயல் யாது என தெரிகில், பின் அனாதி அனந்த அகண்ட சத்து சித் ஆனந்தம்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): tāṉ taṉādu iyal yādu eṉa terihil, piṉ aṉādi aṉanta akhaṇḍa sattu cit āṉandam.

Traduzione: Se si conosce qual'è la natura di se stessi, allora [ciò che sarà sperimentato è solo] sat-cit-ānanda [essere-consapevolezza-beatitudine]senza inizio, senza fine [o infinito] e indiviso.
Per descrivere la vera natura di noi stessi, in questo verso Bhagavan usa sei parole, tre delle quali sono sostantivi affermativi, vale a dire sat, cit e ānanda, e tre delle quali sono aggettivi negativi, vale a dire anādi, ananta e akhaṇḍa. Consideriamo quindi il significato e l’implicazione di ciascuna di queste parole, ma prima di fare questo è bene notare che l’ordine in cui queste parole si presentano in questo verso è stato determinato dal vincolo del metro poetico, così malgrado questo ordine ciascuno dei tre aggettivi si applica a ciascuno dei tre sostantivi. Cioè, poiché noi siamo uno, in questo contesto sat, cit e ānanda non si riferiscono a tre cose differenti ma sono solo tre modi in cui una cosa, vale a dire noi stessi, può essere descritta. Poiché non siamo solo sat ma anche cit e ānanda, sat è sia cit che ānanda, e ānanda è sia sat che cit. Quindi, poiché sat, cit e ānanda sono una cosa sola, essi sono collettivamente ed anche ciascuno individualmente anādi, ananta e akhaṇḍa.

சத்து (sattu) è una forma Tamil della parola Sanscrita सत् (sat), che è il participio presente del verbo अस् (as), che significa esistere o essere (sia nel senso di ‘esistere’ sia come una copula), così come un aggettivo सत् (sat) significa essente, esistente, presente, reale, vero o effettivo, e come un sostantivo significa ciò che esiste realmente. E’ in quest’ultimo senso che qui è usato, così in questo contesto ha lo stesso significato della parola Tamil உள்ளது (uḷḷadu), vale a dire ‘ciò che è’ o ‘ciò che esiste’. Come tale il significato di questo termine ha grande significato, così lo considererò in più profondità nelle prossime due sezioni.

சித் (cit) è una forma Tamil della parola Sanscrita सत् (cit), che è sia un verbo che significa percepire, vedere, notare, osservare, attendere a, conoscere, sperimentare o essere consapevoli o coscienti di, e un sostantivo che significa consapevolezza, coscienza o conoscenza, ma in questo contesto significa pura coscienza nel senso di ciò che è consapevole di nient’altro che se stesso. In altre parole, cit è la consapevolezza che abbiamo di noi stessi, che siamo sat, quindi è la nostra pura auto-consapevolezza, che è la nostra vera natura e quindi nient’altro che noi stessi. Dunque noi siamo sia sat, che è ciò che esiste realmente (uḷḷadu), sia cit, che è la consapevolezza che sat ha di se stesso, così cit è ciò a cui Bhagavan si riferiva come உணர்வு (uṇarvu) nel verso 23 di Upadēśa Undiyār.

ஆனந்தம் (āṉandam) è una forma Tamil della parola Sanscrita आनन्द (ānanda), che significa felicità, gioia o beatitudine. Quando saremo consapevoli soltanto di noi stessi – cioè, quando non sperimenteremo nient’altro che puro sat-cit – saremo perfettamente pacifici e felici, perché la felicità (ānanda) è la nostra vera natura. Se non sperimentiamo noi stessi come infinita felicità, questo è dovuto al fatto che stiamo sperimentando noi stessi come qualcosa diversa dal puro sat-cit che siamo realmente, così l’infelicità è un’illusione causata dalla mescolanza di aggiunte con la nostra pura auto-consapevolezza, ‘io sono’. Quindi per sperimentare noi stessi come felicità infinita, tutto ciò che abbiamo bisogno di fare è sperimentare noi stessi come siamo realmente, cosa che possiamo fare solo cercando di essere consapevoli soltanto di noi stessi, in completo isolamento da tutte le aggiunte.

Questa descrizione di noi stessi come sat-cit-ānanda è la più vicina a cui possiamo giungere per descrivere o concepire la nostra vera natura in termini positivi. Tuttavia anche questi termini non sono del tutto adeguati, perché generalmente pensiamo ad esistenza, consapevolezza e beatitudine come termini relativi, avendo ciascuno il proprio opposto, vale a dire non-esistenza, non-consapevolezza e infelicità, ma in questo contesto esistenza (sat), consapevolezza (cit) e felicità (ānanda) non sono usati in un senso relativo. Ciascuno di questi termini indica ciò che è assoluto e quindi oltre la dualità di avere qualche controparte negativa, così sat significa esistenza assoluta, che è priva della dualità di esistere o non esistere, cit significa consapevolezza assoluta, che è priva della dualità di essere consapevole o non essere consapevole, e ānanda significa felicità assoluta, che è priva della dualità di essere felice o non essere felice. Quindi poiché la nostra mente può concepire qualcosa solo in termini relativi, non può concepire in modo adeguato ciò che si intende con sat-cit-ānanda in questo senso assoluto.

Dunque ogni ulteriore delucidazione del significato di sat-cit-ānanda può essere solo in termini negativi – cioè, in termini di ciò che non è. Quindi ciascuno di questi tre aggettivi che Bhagavan usa in questo verso per chiarire la natura di sat-cit-ānanda è in una forma negativa.

அனாதி (aṉādi) è una forma Tamil della parola Sanscrita अनादि (anādi), che significa ciò che non ha अनादि (anādi), o inizio. La nostra vera natura è senza inizio perché esiste indipendentemente dal tempo, che è solo un’illusione che è sperimentata solo dal nostro ego e che quindi sorge con esso e scompare ogni volta che esso sprofonda, come per esempio nel sonno.

அனந்த (aṉanta) è una forma Tamil della parola Sanscrita अनन्त (ananta), che significa ciò che non ha अन्त (anta), fine o limite, così essa significa sia senza fine sia illimitato o infinito. La nostra vera natura è infinita e illimitata non solo nel tempo ma anche nello spazio e in ogni altra dimensione, così è sia eterna (o piuttosto senza tempo) sia infinita rispetto a tutto. Poiché noi siamo infiniti, niente altro che noi stessi (la cui natura è puro sat-cit-ānanda) può esistere, perché se qualcos’altro esistesse, la nostra esistenza sarebbe limitata e perciò non l’unico tutto infinito. Quindi, poiché non può realmente esistere niente altro che il nostro sé infinito, qualunque altra cosa che sembra esistere è un’illusione, e finché sperimentiamo l’esistenza apparente di ogni altra cosa, non stiamo sperimentando noi stessi come l’infinito sat-cit-ānanda che siamo realmente.

அகண்ட (akhaṇḍa) è una forma Tamil della parola Sanscrita अखण्ड (akhaṇḍa), che significa ciò che non è खण्ड (khaṇḍa), spezzato o diviso. Proprio come la nostra natura reale non ha limiti esterni, anche non ha limiti interni, così non può essere divisa in alcun modo. Ogni divisione all’interno di noi richiederebbe l’esistenza di qualcosa diversa da noi stessi per dividerci, perciò noi siamo infiniti e poiché niente altro esiste, non c’è niente che potrebbe mai dividerci in alcun modo, e quindi non siamo solo indivisi ma anche indivisibili.

Poiché siamo indivisibili, sat-cit-ānanda è un singolo insieme indivisibile, così questo termine composto sat-cit-ānanda non indica tre cose separate ma una cosa sola. Quindi ciò che è sat è anche cit ed anche ānanda, quindi non c’è sat diverso da cit o diverso da ānanda, non c’è cit diverso da sat o diverso da ānanda, e non c’è ānanda diverso da sat o diverso da cit.

Poiché noi siamo sat-cit-ānanda senza inizio, infinito e indiviso, niente altro che noi stessi esiste realmente, così noi siamo vacui o vuoti solo nel senso che siamo privi di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, ma essere privi di qualsiasi altra cosa significa che siamo pieni di noi stessi – cioè, pieni di sat-cit-ānanda senza inizio, infinito e indiviso, che è tutto ciò che esiste realmente. Quindi non c’è bisogno o motivo di temere la perdita del nostro ego, perché ciò che allora sperimenteremo non sarà solo pieno di ciò che è reale e privo di ciò che è irreale, ma sarà anche pieno di felicità infinita e privo anche della minima traccia di infelicità o miseria.

9. Noi siamo pienezza, non un vuoto, perché niente altro che noi stessi esiste realmente

Come ho spiegato nella sezione precedente, quando Bhagavan dice che la nostra vera natura è sat, esistenza o ciò che è, non intende esistenza in qualche senso relativo, ma solo nel senso assoluto di ciò che solo esiste realmente e ciò che non potrebbe mai esistere. Cioè, siamo ciò che esiste indipendente da qualsiasi condizione contingente come esistenza e non-esistenza.

Come egli dice nella prima frase del settimo paragrafo di Nāṉ Yār?:
யதார்த்தமா யுள்ளது ஆத்மசொரூப மொன்றே.

yathārtham-āy uḷḷadu ātma-sorūpam oṉḏṟē.

Ciò che esiste realmente è solo ātma-svarūpa [il nostro sé essenziale].
Poiché noi solo esistiamo realmente, non c’è assolutamente possibilità che possiamo mai cessare di esistere, perché il mutamento potrebbe aver luogo solo se il tempo esistesse. Tranne noi stessi, nulla esiste realmente, così non c’è tempo, né mutamento, né condizione, né contingenza, né non-esistenza, né dualità, né molteplicità, né relatività, e né possibilità di esistenza o anche di esistenza apparente per qualsiasi altra cosa tranne che noi stessi.

Poiché niente altro che noi stessi esiste o anche potrebbe esistere, non possiamo realmente essere vacui o vuoti, perché non c’è niente di cui potremmo essere vacui i vuoti. Quindi non siamo solo pienezza ma pienezza assoluta e incondizionata. Siamo pieni, e pieni di nient’altro che noi stessi, e poiché non possiamo mai essere vuoti di noi stessi, non possiamo mai essere effettivamente vuoti.

10. Ēkāṉma Pañcakam verso 5: ciò che esiste sempre per luce propria è solo noi stessi

Il fatto che ciò che esiste è solo noi stessi è stato anche insegnato da Bhagavan nel verso 5 di Ēkāṉma Pañcakam:
எப்போது முள்ளதவ் வேகான்ம வத்துவே
யப்போதவ் வத்துவை யாதிகுரு — செப்பாது
செப்பித் தெரியுமா செய்தன ரேலெவர்
செப்பித் தெரிவிப்பர் செப்பு.

eppōdu muḷḷadav vēkāṉma vattuvē
yappōdav vattuvai yādiguru — seppādu
seppit teriyumā seydaṉa rēlevar
seppit terivippar ceppu
.

பதச்சேதம்: எப்போதும் உள்ளது அவ் ஏகான்ம வத்துவே. அப்போது அவ் வத்துவை ஆதி குரு செப்பாது செப்பி தெரியுமா செய்தனரேல், எவர் செப்பி தெரிவிப்பர்? செப்பு.

Padacchēdam (separazione delle parole): eppōdum uḷḷadu a-vv-ēkāṉma vattuvē. appōdu a-v-vattuvai ādi-guru seppādu seppi teriyumā seydaṉarēl, evar seppi terivippar? seppu.

அன்வயம்: எப்போதும் உள்ளது அவ் ஏகான்ம வத்துவே. அப்போது ஆதி குரு அவ் வத்துவை செப்பாது செப்பி தெரியுமா செய்தனரேல், எவர் செப்பி தெரிவிப்பர்? செப்பு.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): eppōdum uḷḷadu a-vv-ēkāṉma vattuvē. appōdu ādi-guru a-v-vattuvai seppādu seppi teriyumā seydaṉarēl, evar seppi terivippar? seppu.

Traduzione: Ciò che sempre esiste è solo quella ēkātma-vastu [unica auto-sostanza]. Se in quel tempo l’ ādi-guru [il guru originale, Dakshinamurti] fece conoscere quel vastu parlando senza parlare, dimmi, chi può farlo conoscere parlando?
Nella versione kalivenbā di Ēkāṉma Pañcakam Bhagavan ha collegato questo verso al precedente aggiungendo tra essi le parole தனது ஒளியால் (taṉadu oḷiyāl), così queste parole divengono parte della prima frase di questo verso. தனது ஒளியால் (taṉadu oḷiyāl) significa ‘per luce propria’, così con esse il significato della prima frase diviene: ‘Ciò che sempre esiste per luce propria è solo quella ēkātma-vastu [unica auto-sostanza]’. In questo contesto ஒளி (oḷi) o ‘luce’ è una metafora per la consapevolezza, così qui ancora una volta Bhagavan sta enfatizzando l’unità di esistenza e consapevolezza.

Cioè, ciò che esiste realmente deve essere consapevole della propria esistenza, perché se non fosse consapevole di se stesso, la sua esistenza potrebbe essere sperimentata o conosciuta solo da qualcosa diversa da se stesso, nel qual caso sarebbe solo un’illusione, qualcosa che sembra esistere ma non esiste realmente. Questo è il motivo per cui Bhagavan era solito dire che una delle tre caratteristiche determinanti della realtà è che ciò che è reale deve essere auto-risplendente, essendo le altre due caratteristiche che deve essere anche eterna e immutabile. Ciò che intende con il termine ‘auto-risplendente’ è che deve conoscere se stesso per propria luce di consapevolezza – in altre parole, deve essere auto-consapevole.

Ciò che sempre esiste ed è consapevole di se stesso è solo ēkātma-vastu, l’ ‘unica auto-sostanza’ o l’unica vera sostanza che è noi stessi. Poiché siamo sempre consapevoli della nostra esistenza, ‘io sono’, la nostra esistenza non può essere un’illusione, perché per essere consapevoli dobbiamo esistere. La nostra auto-consapevolezza è quindi una prova indubitabile della nostra esistenza.

Secondo Bhagavan ogni altra cosa è un’illusione, perché sperimentiamo l’esistenza apparente di altre cose solo quando sorgiamo come questo ego, e se investighiamo questo ego scopriremo che esso non esiste realmente. Quando questo ego è scoperto come non-esistente, ogni cosa che esso sperimenta cesserà anche di esistere anche apparentemente, così la sola cosa che esiste sempre è noi stessi.

Poiché non abbiamo mai sperimentato e mai potremmo sperimentare qualche momento in cui non esistiamo, non abbiamo motivo di supporre che potremmo cessare di esistere. Finché sperimentiamo noi stessi come questo ego, sembriamo avere origine come tali ogni volta che sorgiamo dal sonno, e cessiamo di esistere come tali ogni volta cessiamo di sorgere come questo ego, come facciamo quando ci addormentiamo, così l’esistenza apparente del nostro ego è solo temporanea.

Tuttavia, poiché sperimentiamo non solo la presenza del nostro ego nella veglia e nel sogno ma anche la sua assenza nel sonno, esistiamo e sperimentiamo la nostra esistenza anche quando il nostro ego non esiste, di conseguenza la nostra esistenza è permanente e risplende della propria luce di auto-consapevolezza, sia che qualsiasi altra cosa sembri esistere o meno. Quindi abbiamo buoni motivi per sospettare che siamo la sola cosa che esiste realmente, e che siamo quindi l’unica sostanza che appare come qualunque altra cosa che sembra esistere. Questo sospetto è confermato da Bhagavan nella prima frase di questo verso.

Nella sua seconda frase egli indica che l’ ‘unica auto-sostanza’ (ēkātma-vastu) che siamo realmente è ineffabile, e per enfatizzare questo fa riferimento alla storia del guru originale, Dakshinamurti, che la fece conoscere solo per mezzo del silenzio, che è ciò che Bhagavan descrive come ‘செப்பாது செப்பி’ (seppādu seppi), ‘parlando senza parlare’. Poiché ciò che siamo realmente non può essere afferrato dal pensiero, non può essere descritto adeguatamente in parole, così il solo mezzo che può esprimerlo è il silenzio assoluto, che significa non solo silenzio verbale ma completo silenzio della mente. In altre parole, possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente solo quando il nostro ego o mente sprofonda in noi stessi, la silenziosa sorgente da cui è sorto.

11. Upadēśa Undiyār verso 27: noi siamo privi di conoscenza e ignoranza

Avendo considerato la natura di sat (esistenza reale o ciò che esiste realmente) nelle due sezioni precedenti, consideriamo ora la natura di cit (reale consapevolezza o ciò che è realmente consapevole). Come abbiamo visto prima quando abbiamo considerato il verso 23 di Upadēśa Undiyār, secondo Bhagavan la vera consapevolezza o conoscenza (uṇarvu o cit) è solo noi stessi, la pura conoscenza o auto-consapevolezza ‘io sono’, e nel verso 27 rivela di più sulla natura di questa vera conoscenza:
அறிவறி யாமையு மற்ற வறிவே
யறிவாகு முண்மையீ துந்தீபற
      வறிவதற் கொன்றிலை யுந்தீபற.

aṟivaṟi yāmaiyu maṯṟa vaṟivē
yaṟivāhu muṇmaiyī dundīpaṟa
      vaṟivadaṟ koṉḏṟilai yundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: அறிவு அறியாமையும் அற்ற அறிவே அறிவு ஆகும். உண்மை ஈது. அறிவதற்கு ஒன்று இலை.

Padacchēdam (separazione delle parole): aṟivu aṟiyāmai-y-um aṯṟa aṟivē aṟivu āhum. uṇmai īdu. aṟivadaṟku oṉḏṟu ilai.

அன்வயம்: அறிவு அறியாமையும் அற்ற அறிவே அறிவு ஆகும். ஈது உண்மை. அறிவதற்கு ஒன்று இலை.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): aṟivu aṟiyāmai-y-um aṯṟa aṟivē aṟivu āhum. īdu uṇmai. aṟivadaṟku oṉḏṟu ilai.

Traduzione: Solo la conoscenza che è priva di conoscenza e ignoranza è [vera] conoscenza. Questa è la verità, [perché] non c’è nulla da conoscere.
Cosa intende qui esattamente Bhagavan con la frase ‘அறிவு அறியாமையும் அற்ற அறிவே’ (aṟivu aṟiyāmai-y-um aṯṟa aṟivē), che letteralmente significa ‘solo la conoscenza che è priva di conoscenza e ignoranza’? Ovviamente la conoscenza che è priva di conoscenza e ignoranza è distinta dalla conoscenza di cui è priva, così consideriamo prima di tutto la seconda: cos’è la conoscenza di cui è priva?

Un indizio per questa è dato nella frase finale: ‘அறிவதற்கு ஒன்று இலை’ (aṟivadaṟku oṉḏṟu ilai), che significa ‘conoscere che non c’è nulla’, o più letteralmente, ‘per la conoscenza che non c’è nulla’. Ciò che questo implica è che nello stato di vera conoscenza non c’è nulla da conoscere, e quindi esso è privo di conoscenza di qualsiasi cosa diversa da se stesso. In altre parole, la conoscenza di cui la vera conoscenza è priva è conoscenza di qualsiasi cosa diversa da se stessa. Quindi, poiché la vera conoscenza è ciò che siamo realmente (come Bhagavan spesso ha affermato, come nei versi 12 e 13 di Uḷḷadu Nāṟpadu, che considereremo successivamente), la nostra vera natura è di essere consapevoli di nient’altro che noi stessi.

La conoscenza e l’ignoranza di altre cose sembrano esistere solo se tali cose sembrano esistere. Quindi quando sperimenteremo noi stessi come siamo realmente e perciò sperimenteremo che solo noi esistiamo, non ci sarà niente che possiamo conoscere o di cui essere ignoranti, e quindi sperimenteremo noi stessi come l’unica conoscenza reale, che è priva sia di conoscenza che di ignoranza riguardo ogni altra cosa. Questa unica conoscenza reale è quindi la conoscenza ‘io sono’, che è la nostra pura auto-consapevolezza, incontaminata da ogni consapevolezza di qualsiasi altra cosa.

Quando Bhagavan dice nella seconda frase di questo verso, ‘உண்மை ஈது’ (uṇmai īdu), che significa ‘questo è vero’, ‘questo è reale’, ‘questo è la verità’ o ‘questo è la realtà’, egli intende sia che solo la conoscenza priva di conoscenza e ignoranza è vera conoscenza, sia che ciò che allora è sperimentato (vale a dire noi stessi soltanto) è la realtà. Quindi ciò di cui la nostra vera natura è priva è solo qualunque cosa è irreale, di conseguenza poiché solo noi siamo reali, siamo privi di ogni altra cosa, e privi di ogni conoscenza o ignoranza - ogni consapevolezza, esperienza o mancanza al riguardo – di qualsiasi altra cosa.

Quindi lo stato di vera auto-conoscenza – lo stato in cui sperimentiamo noi stessi come siamo realmente – è privo non solo dell’esistenza di qualsiasi altra cosa, ma anche dell’apparente esistenza di qualsiasi altra cosa, perché ogni altra cosa può sembrare esistere solo se siamo consapevoli della sua esistenza apparente, e secondo Bhagavan la vera conoscenza è priva di ogni consapevolezza di qualsiasi altra cosa diversa da noi stessi.

12. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 10: conoscere la non-esistenza dell’ego è vera conoscenza

Bhagavan chiarisce ulteriormente ciò che intende con conoscenza e ignoranza di cui la vera conoscenza priva nel verso 10 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
அறியாமை விட்டறிவின் றாமறிவு விட்டவ்
வறியாமை யின்றாகு மந்த — வறிவு
மறியா மையுமார்க்கென் றம்முதலாந் தன்னை
யறியு மறிவே யறிவு.

aṟiyāmai viṭṭaṟiviṉ ḏṟāmaṟivu viṭṭav
vaṟiyāmai yiṉḏṟāhu manda — vaṟivu
maṟiyā maiyumārkkeṉ ḏṟammudalān taṉṉai
yaṟiyu maṟivē yaṟivu
.

பதச்சேதம்: அறியாமை விட்டு, அறிவு இன்று ஆம்; அறிவு விட்டு, அவ் வறியாமை இன்று ஆகும். அந்த அறிவும் அறியாமையும் ஆர்க்கு என்று அம் முதல் ஆம் தன்னை அறியும் அறிவே அறிவு.

Padacchēdam (separazione delle parole): aṟiyāmai viṭṭu, aṟivu iṉḏṟu ām; aṟivu viṭṭu, a-vv-aṟiyāmai iṉḏṟu āhum. anda aṟivum aṟiyāmaiyum ārkku eṉḏṟu a-m-mudal ām taṉṉai aṟiyum aṟivē aṟivu.

Traduzione: Lasciando l’ignoranza, la conoscenza non esiste; lasciando la conoscenza, quell’ignoranza non esiste. Solo la conoscenza che conosce se stessa, che è la prima, [investigando] chi sperimenta quella conoscenza o ignoranza, è [vera] conoscenza.
In questo verso Bhagavan usa il participio verbale விட்டு (viṭṭu), che significa letteralmente ‘lasciando’, nel senso di ‘senza’, così ciò che egli intende nelle prime due frasi di questo verso è che non c’è conoscenza senza ignoranza e non c’è ignoranza senza conoscenza, così la conoscenza e l’ignoranza in questo senso sono un esempio di ciò che egli ha descritto nel verso precedente di Uḷḷadu Nāṟpadu come un இரட்டை (iraṭṭai), una diade o coppia di opposti. Qualunque cosa conosciamo diversa da noi stessi è qualcosa che, ad un certo punto iniziale, ignoravamo, e giungiamo a conoscere che eravamo ignoranti di qualcosa solo quando la conosciamo. Inoltre, in futuro, qualunque cosa ora conosciamo cesseremo di conoscerla temporaneamente nel sonno, o permanentemente a causa di dimenticanza o di morte. Quindi conoscenza e ignoranza sono una coppia inseparabile, ciascuno essendo possibile solo a causa della possibilità dell’altro.

Nel verso precedente Bhagavan ha detto che le coppie di opposti ‘esistono aggrappandosi all’uno’, e che se uno vede dentro la mente ciò che uno è, essi se la svigneranno o scompariranno. Ciò che intendeva con ‘ஒன்று’ (oṉḏṟu) o ‘uno’ è l’ego, perché le coppie di opposti come conoscenza e ignoranza sono sperimentate solo dall’ego e non sembrano esistere in sua assenza, e perché se noi vediamo ciò che è questo ego, esso cesserà di esistere, e quindi tutte le coppie di opposti e ogni altra cosa che esso sperimentava scompariranno insieme con esso.

L’ego, a cui egli si riferisce come ‘uno’ nel verso precedente, è ciò a cui si riferisce in questo verso come ‘அம் முதல் ஆம் தன்னை’ (a-m-mudal ām taṉṉai), che significa ‘se stesso, che è il primo’, perché è solo a se stesso come questo ego che la conoscenza e l’ignoranza sembrano esistere. முதல் (mudal) significa primo, inizio, origine o base, così Bhagavan dice che l’ego è il முதல் (mudal) perché è il punto di inizio, di origine o base di conoscenza e ignoranza e di ogni altra cosa che esso sperimenta.

Se investighiamo a chi appaiono conoscenza e ignoranza, il nostro ego sprofonderà e scomparirà, così conoscenza e ignoranza anche cesseranno di esistere insieme con esso. Quindi ciò che egli intende qui con la frase ‘தன்னை அறியும் அறிவே’ (taṉṉai aṟiyum aṟivē), che significa ‘solo la conoscenza che conosce se stessa’, è l’esperienza che l’ego non esiste realmente. Poiché possiamo sperimentare la non-esistenza di questo ego solo quando sperimentiamo noi stessi come siamo realmente e quindi sperimentiamo che noi solo esistiamo realmente, la conoscenza o consapevolezza che l’ego non esiste è uguale alla conoscenza o consapevolezza che solo noi esistiamo, così questa frase ‘தன்னை அறியும் அறிவே’ (taṉṉai aṟiyum aṟivē) si riferisce indirettamente alla vera auto-conoscenza. Dunque ciò che Bhagavan intende indirettamente nella frase finale di questo verso è che solo conoscere noi stessi come siamo realmente e quindi conoscere la non-esistenza del nostro ego è vera conoscenza.

13. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 11: conoscere qualsiasi cosa diversa da noi stessi è ignoranza

Nel verso 11 di Uḷḷadu Nāṟpadu Bhagavan indica ancora una volta che ciò a cui si riferisce come conoscenza e ignoranza è conoscenza e ignoranza di qualsiasi cosa diversa da se stessi, e dice che tale conoscenza non è reale conoscenza ma solo ignoranza, e che se uno conosce se stesso, conoscenza e ignoranza riguardo qualsiasi altra cosa cesseranno di esistere:
அறிவுறுந் தன்னை யறியா தயலை
யறிவ தறியாமை யன்றி — யறிவோ
வறிவயற் காதாரத் தன்னை யறிய
வறிவறி யாமை யறும்.

aṟivuṟun taṉṉai yaṟiyā dayalai
yaṟiva daṟiyāmai yaṉḏṟi — yaṟivō
vaṟivayaṟ kādhārat taṉṉai yaṟiya
vaṟivaṟi yāmai yaṟum
.

பதச்சேதம்: அறிவு உறும் தன்னை அறியாது அயலை அறிவது அறியாமை; அன்றி அறிவோ? அறிவு அயற்கு ஆதார தன்னை அறிய, அறிவு அறியாமை அறும்.

Padacchēdam (separazione delle parole): aṟivu-uṟum taṉṉai aṟiyādu ayalai aṟivadu aṟiyāmai; aṉḏṟi aṟivō? aṟivu ayaṟku ādhāra taṉṉai aṟiya, aṟivu aṟiyāmai aṟum.

Traduzione: Conoscere altre cose senza conoscere se stesso, chi conosce, è ignoranza; tranne [quello], può questo essere conoscenza? Quando uno conosce se stesso, la base di conoscenza e dell’altra [ignoranza], conoscenza e ignoranza cesseranno.
La domanda ‘அறியாமை அன்றி அறிவோ?’ (aṟiyāmai aṉḏṟi aṟivō?) significa letteralmente ‘eccetto l’ignoranza è essa conoscenza?’ ma in una frase interrogativa come questa è difficile trasmettere la piena forza della congiunzione அன்றி (aṉḏṟi), che è un participio verbale che significa letteralmente ‘escludendo’ ma questo in molti casi significa ‘eccetto’ o ‘oltre a’, e in una frase affermativa può significare ‘ma solo’. Tuttavia l’implicazione chiara di questa prima frase è che conoscere qualsiasi cosa diversa da se stessi non è conoscenza ma solo ignoranza.

In questa prima frase la locuzione di apertura, அறிவுறும் தன்னை (aṟivuṟum taṉṉai), significa ‘se stesso, chi conosce’ e si riferisce al nostro ego, che solo conosce cose diverse da se stesso. Il soggetto di questa frase è la locuzione ‘அறிவுறும் தன்னை அறியாது அயலை அறிவது’ (aṟivuṟum taṉṉai aṟiyādu ayalai aṟivadu), in cui அறிவது (aṟivadu) è un sostantivo verbale che significa ‘conoscere’ e அறியாது (aṟiyādu) è un participio verbale che significa ‘non conoscere’ o ‘senza conoscere’, così அறிவது (aṟivadu) capeggia tutta la frase e அறியாது (aṟiyādu) capeggia una proposizione avverbiale all’interno di essa. Quindi l’idea principale in questa frase è அயலை அறிவது (ayalai aṟivadu), che significa ‘conoscere altre cose’, e un’idea sussidiaria è espressa dalla proposizione avverbiale அறிவுறும் தன்னை அறியாது (aṟivuṟum taṉṉai aṟiyādu), che significa ‘non conoscere se stesso’, chi conosce’ o ‘senza conoscere se stesso, chi conosce’.

Tuttavia da questa prima frase non dovremmo dedurre che conoscere altre cose è ignoranza solo se non conosciamo noi stessi, chi conosce, e che altrimenti essa sarebbe conoscenza, perché secondo Bhagavan l’esatta natura del nostro ego è conoscere solo altre cose ma non se stesso. Conoscere altre cose è possibile solo quando non conosciamo noi stessi, chi conosce, e questo è il motivo per cui egli dice che non è vera conoscenza ma solo ignoranza. Per chiarire questo, nella frase successiva egli dice che quando conosciamo noi stessi, l’ādhāra o base di conoscenza e ignoranza riguardo altre cose, tali conoscenza e ignoranza cesseranno di esistere.

In questa ultima frase la locuzione ‘அறிவு அயற்கு ஆதார தன்னை’ (aṟivu ayaṟku ādhāra taṉṉai), che significa ‘se stesso, la base (ādhāra) di conoscenza e dell’altra [ignoranza]’, si riferisce al nostro ego, che solo sperimenta conoscenza e ignoranza riguardo altre cose. Quindi ciò che egli intende in questo contesto con ‘தன்னை அறிய’ (taṉṉai aṟiya) o ‘quando uno conosce se stesso’ è quando uno conosce la non-esistenza dell’ego, perché non possiamo mai conoscere l’ego in altro modo, poiché se cerchiamo di conoscerlo esso scomparirà, non essendo nient’altro che un fantasma illusorio e senza forma che sembra esistere solo finché sperimentiamo qualsiasi cosa diversa da noi stessi. Questo è il motivo per cui egli dice nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu, ‘தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும்’ (tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum), che significa ‘Se cercato [esaminato o investigato], esso [l’ego] prenderà il volo’.

Quindi se cerchiamo di vedere cos’è questo ego, esso svanirà, essendo solo un’apparenza illusoria (come un serpente illusorio, che è realmente solo una corda), e quando esso svanisce (cioè, quando cessa di esistere apparentemente), tutta la sua conoscenza e ignoranza svaniranno anche con esso. Questo è il motivo per cui Bhagavan termina questo verso dicendo: ‘தன்னை அறிய, அறிவு அறியாமை அறும்’ (taṉṉai aṟiya, aṟivu aṟiyāmai aṟum), che significa ‘quando uno conosce se stesso [l’ego], conoscenza e ignoranza cesseranno’. L’esperienza che allora rimane priva di conoscenza e ignoranza è vera conoscenza, come insegnato da Bhagavan nel verso 27 di Upadēśa Undiyār e nel verso successivo di Uḷḷadu Nāṟpadu.

14. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 12: noi non siamo un vuoto, sebbene privi di conoscenza e ignoranza

Nel verso 12 di Uḷḷadu Nāṟpadu Bhagavan ripete ciò che ha detto nel verso 27 di Upadēśa Undiyār ma aggiunge che ciò che conosce non è vera conoscenza e che solo il nostro sé reale, per il quale non c’è nulla da conoscere o da rendere conosciuto, è vera conoscenza, e conclude dicendo che non è un vuoto:
அறிவறி யாமையு மற்றதறி வாமே
யறியும துண்மையறி வாகா — தறிதற்
கறிவித்தற் கன்னியமின் றாயவிர்வ தாற்றா
னறிவாகும் பாழன் றறி.

aṟivaṟi yāmaiyu maṯṟadaṟi vāmē
yaṟiyuma duṇmaiyaṟi vāhā — daṟitaṟ
kaṟivittaṟ kaṉṉiyamiṉ ḏṟāyavirva dāṯṟā
ṉaṟivāhum pāṙaṉ ṟaṟi
.

பதச்சேதம்: அறிவு அறியாமையும் அற்றது அறிவு ஆமே. அறியும் அது உண்மை அறிவு ஆகாது. அறிதற்கு அறிவித்தற்கு அன்னியம் இன்றாய் அவிர்வதால், தான் அறிவு ஆகும். பாழ் அன்று. அறி.

Padacchēdam (separazione delle parole): aṟivu aṟiyāmaiyum aṯṟadu aṟivu āmē. aṟiyum adu uṇmai aṟivu āhādu. aṟidaṟku aṟivittaṟku aṉṉiyam iṉḏṟāy avirvadāl, tāṉ aṟivu āhum. pāṙ aṉḏṟu. aṟi.

Traduzione: Quello che è privo di conoscenza e ignoranza è [vera] conoscenza. Quello che conosce non è vera conoscenza. Poiché esso risplende senza ogni altra cosa da conoscere o da rendere conosciuta, se stesso è [vera] conoscenza. Sappi che non è un vuoto.
La prima frase di questo verso, ‘அறிவு அறியாமையும் அற்றது அறிவு ஆமே’ (aṟivu aṟiyāmaiyum aṯṟadu aṟivu āmē), che significa ‘quello che è privo di conoscenza e ignoranza è [vera] conoscenza’, è quasi identica alla prima frase del verso 27 di Upadēśa Undiyār, ‘அறிவு அறியாமையும் அற்ற அறிவே அறிவு ஆகும்’ (aṟivu aṟiyāmai-y-um aṯṟa aṟivē aṟivu āhum), che significa ‘solo la conoscenza che priva di conoscenza e ignoranza è [vera] conoscenza’, e in entrambi i casi la conoscenza e l’ignoranza di cui la vera conoscenza è priva è solo conoscenza e ignoranza di qualsiasi cosa diversa da se stessa.

Come abbiamo visto, il motivo per cui la vera conoscenza è priva di questa conoscenza e ignoranza è che tale conoscenza e ignoranza sono sperimentare solo dal nostro ego, che è una falsa conoscenza o esperienza illusoria di noi stessi, così quando sperimentiamo noi stessi come siamo realmente questo ego sarà dissolto e quindi tutta la sua conoscenza e ignoranza riguardo altre cose cesserà anche di esistere. Quindi la conoscenza che è priva di questa conoscenza e ignoranza è solo l’auto-conoscenza o pura auto-consapevolezza – cioè, la chiara esperienza di noi stessi come siamo realmente.

Poiché ciò che siamo realmente non è altro che pura auto-consapevolezza, noi stessi siamo la conoscenza che è priva di conoscenza e ignoranza riguardo qualsiasi cosa diversa da noi stessi, e questo è il motivo per cui Bhagavan dice nella terza frase di questo verso: ‘தான் அறிவு ஆகும்’ (tāṉ aṟivu āhum), che significa ‘se stesso è [vera] conoscenza’. Comunque prima di dire questo, nella frase precedente dice: ‘அறியும் அது உண்மை அறிவு ஆகாது’ (aṟiyum adu uṇmai aṟivu āhādu), che significa ‘quello che conosce non è vera conoscenza’ e che implica che l’ego non è vera conoscenza, perché è solo l’ego che conosce qualsiasi cosa diversa da se stesso. Dunque nella seconda e nella terza frase di questo verso Bhagavan indica una chiara distinzione tra noi stessi come questo ego, che è ciò che conosce qualsiasi cosa diversa da noi stessi, e noi stessi come siamo realmente, per cui non c’è niente da conoscere diverso da noi stessi.

‘அறியும் அது’ (aṟiyum adu) significa letteralmente ‘quello che conosce’, ma in questo contesto implica chiaramente quello che conosce qualsiasi cosa diversa da se stesso, perché nella prima proposizione della frase successiva Bhagavan si riferisce alla non-esistenza di அன்னியம் (aṉṉiyam) da conoscere o da rendere conosciuto. அன்னியம் (aṉṉiyam) è una forma Tamil del termine Sanscrito अन्य (anya), che significa ciò che è altro o differente, così in questo contesto significa ciò che è diverso da se stesso. Poiché Bhagavan dice nella prima frase del settimo paragrafo di Nāṉ Yār? ‘யதார்த்தமா யுள்ளது ஆத்மசொரூப மொன்றே’ (yathārtham-āy uḷḷadu ātma-sorūpam oṉḏṟē), che significa, ‘Ciò che esiste realmente è solo ātma-svarūpa [il nostro sé essenziale]’, possiamo dedurre che nella visione di ātma-svarūpa non esiste nient’altro che noi stessi, così ciò che sperimenta o conosce qualsiasi cosa diversa da noi stessi non è ātma-svarūpa ma solo il nostro ego. Quindi poiché il nostro ego è solo un’esperienza erronea di noi stessi, è una falsa conoscenza, così Bhagavan dice ‘அறியும் அது உண்மை அறிவு ஆகாது’ (aṟiyum adu uṇmai aṟivu āhādu), ‘quello che conosce non è vera conoscenza’, intendendo quindi che l’ego, che solo conosce qualsiasi cosa diversa da noi stessi, non è vera conoscenza.

Nella prima proposizione della terza frase Bhagavan spiega perché noi stessi come siamo realmente (ātma-svarūpa) è vera conoscenza (la conoscenza che è priva di conoscenza e ignoranza), vale a dire ‘அறிதற்கு அறிவித்தற்கு அன்னியம் இன்றாய் அவிர்வதால்’ (aṟidaṟku aṟivittaṟku aṉṉiyam iṉḏṟāy avirvadāl), che significa ‘poiché essa risplende senza ogni altra cosa da conoscere o da rendere conosciuta’. Questa non è solo una dichiarazione epistemologica (una dichiarazione riguardo ciò che è conosciuto o ciò che può essere conosciuto) ma anche una dichiarazione ontologica (una dichiarazione riguardo ciò che esiste o non esiste). La sua implicazione primaria è ontologia, vale a dire che niente altro che noi stessi esiste realmente, e la sua implicazione secondaria è epistemica, vale a dire che quindi non c’è niente altro che noi stessi da conoscere o da rendere conosciuto.

Cioè, poiché solo noi (ātma-svarūpa) esistiamo realmente, nessun’altra cosa esiste realmente, così non c’è niente di diverso da noi stessi da conoscere o da rendere conosciuto, e quindi noi solo siamo vera conoscenza. Ogni conoscenza diversa da noi stessi è solo un’illusione – qualcosa che sembra esistere solo nella visione di noi stessi come questo ego e non nella visione di noi stessi come siamo realmente.

அறிதற்கு (aṟidaṟku) significa letteralmente ‘per conoscere’, ma l’ho tradotto come ‘conoscere’ perché questo è l’idioma corrispondente in Inglese. Nello stesso modo அறிவித்தற்கு (aṟivittaṟku) significa letteralmente ‘per rendere conosciuto’ ma l’ho tradotto come ‘rendere conosciuto’ per la stessa ragione. In questo contesto ci sono tre modi in cui possiamo interpretare அறிவித்தற்கு (aṟivittaṟku), perché esso può implicare che non c’è niente altro che noi stessi da conoscere o da rendere conosciuto o a cui far conoscere noi stessi. Ciascuno di questi significati è appropriato, perché poiché solo noi esistiamo, non c’è altra cosa che potremmo rendere conosciuta, a noi stessi o a qualsiasi altra cosa, e non c’è altra cosa che potrebbe renderci conosciuti, a noi stessi o a qualsiasi altra cosa, e non c’è altra cosa che potrebbe rendersi conosciuta, a noi o a qualsiasi altra cosa. Questo implica, quindi, che ciò che ci rende conosciuti a noi stessi è solo noi stessi e non qualche altra cosa, così siamo auto-risplendenti o svayam-prakāśa.

Allora come possono altre cose sembrare esistere nella nostra esperienza? Ciò che le rende conosciute non è noi stessi come siamo realmente ma solo noi stessi come questo ego, ma poiché niente altro che noi stessi come siamo realmente veramente esiste, l’esistenza apparente di questo ego è solo un’illusione – un’illusione che sembra esistere solo nella propria visione. Quindi la visione conclusiva di Bhagavan è che il nostro ego e tutto ciò che esso sperimenta o conosce è totalmente irreale, e questo è il motivo per cui nel verso successivo dice che la conoscenza molteplice o conoscenza della molteplicità (che implica conoscenza di qualsiasi cosa diversa da noi stessi) non è solo ignoranza ma è anche irreale.

14a. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 31: quando il nostro ego sarà distrutto, non conosceremo qualcosa diversa da noi stessi

Il fatto che nessun’altra cosa esiste o anche sembra esistere nella chiara visione di noi stessi come siamo realmente è anche inteso chiaramente da Bhagavan nel verso 31 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
தன்னை யழித்தெழுந்த தன்மயா னந்தருக்
கென்னை யுளதொன் றியற்றுதற்குத் — தன்னையலா
தன்னிய மொன்று மறியா ரவர்நிலைமை
யின்னதென் றுன்ன லெவன்.

taṉṉai yaṙitteṙunda taṉmayā ṉandaruk
keṉṉai yuḷadoṉ ḏṟiyaṯṟudaṟkut — taṉṉaiyalā
taṉṉiya moṉḏṟu maṟiyā ravarnilaimai
yiṉṉadeṉ ḏṟuṉṉa levaṉ
.

பதச்சேதம்: தன்னை அழித்து எழுந்த தன்மயானந்தருக்கு என்னை உளது ஒன்று இயற்றுதற்கு? தன்னை அலாது அன்னியம் ஒன்றும் அறியார்; அவர் நிலைமை இன்னது என்று உன்னல் எவன்?

Padacchēdam (separazione delle parole): taṉṉai aṙittu eṙunda taṉmaya-āṉandarukku eṉṉai uḷadu oṉḏṟu iyaṯṟudaṟku? taṉṉai alādu aṉṉiyam oṉḏṟum aṟiyār; avar nilaimai iṉṉadu eṉḏṟu uṉṉal evaṉ?

அன்வயம்: தன்னை அழித்து எழுந்த தன்மயானந்தருக்கு இயற்றுதற்கு என்னை ஒன்று உளது? தன்னை அலாது அன்னியம் ஒன்றும் அறியார்; அவர் நிலைமை இன்னது என்று உன்னல் எவன்?

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): taṉṉai aṙittu eṙunda taṉmaya-āṉandarukku iyaṯṟudaṟku eṉṉai oṉḏṟu uḷadu? taṉṉai alādu aṉṉiyam oṉḏṟum aṟiyār; avar nilaimai iṉṉadu eṉḏṟu uṉṉal evaṉ?

Traduzione: Per coloro che godono tanmayānanda [‘beatitudine composta di quello’], che è sorta [come ‘io sono io’] distruggendo loro stessi [l’ego], quale [azione] esiste da fare? Essi non conoscono [o sperimentano] qualcosa diversa da loro stessi; [così] chi può [o come] concepire il loro stato come ‘è così’?
In questo contesto la frase cruciale in questo verso è ‘தன்னை அலாது அன்னியம் ஒன்றும் அறியார்’ (taṉṉai alādu aṉṉiyam oṉḏṟum aṟiyār), che significa ‘Essi non conoscono [o sperimentano] qualsiasi altra cosa tranne loro stessi’ o ‘Essi non conoscono [o sperimentano] qualsiasi cosa diversa da loro stessi’. Qui ‘essi’ si riferisce a quelli che ha descritto nella frase precedente come ‘தன்னை அழித்து எழுந்த தன்மயானந்தர்’ (taṉṉai aṙittu eṙunda taṉmayāṉandar), che significa ‘coloro che godono tanmayānanda [‘beatitudine composta di quello’, vale a dire il nostro sé reale o ātma-svarūpa], che è sorto distruggendo essi stessi [l’ego]’. Tuttavia, benché egli si riferisca ad essi al plurale, in Tamil è abituale usare la forma plurale che termina in ர் (r), sia la forma plurale di un sostantivo, di un pronome o di un verbo, come un singolare onorifico e non riferito a un genere specifico, così Bhagavan non si sta qui riferendo a due o più persone ma solo all’unica cosa che sola rimarrà quando il nostro ego è distrutto, vale a dire il nostro sé reale o ātma-svarūpa. Quindi quando dice ‘Essi non conoscono qualsiasi cosa diversa da loro stessi’ intende chiaramente che come siamo realmente non sperimentiamo qualcosa diversa da noi stessi, perché niente altro che noi stessi esiste realmente.

L’esistenza di molti ātma-jñāni o ‘persone auto-realizzate’ sembra essere reale solo nella visione auto-ignorante dell’ego, perché secondo Bhagavan ciò che è reale è solo noi stessi, che siamo un tutto unico, infinito e indivisibile, così non ci può essere qualcosa diversa da noi stessi per conoscere noi stessi o per rendere conosciuti noi stessi. Quindi l’ātma-jñāni non è una persona ma solo noi stessi, l’unica ātma-svarūpa, all’infuori della quale niente esiste realmente. Solo se esistesse qualsiasi cosa diversa da noi stessi potrebbe conoscere noi stessi o essere da noi stessi conosciuta, ma secondo Bhagavan niente altro che noi stessi esiste realmente così niente altro che noi stessi può conoscere noi stessi o essere da noi stessi conosciuto.

Alcune persone che scrivono riguardo gli insegnamenti di Bhagavan fraintendono e travisano ciò che egli ha insegnato riguardo lo stato dell’ātma-jñāni. Per esempio, un’idea che sembra essere diventata molto comune e che è spesso ripetuta è che Bhagavan ha insegnato che il jñāni vede il mondo come ‘un’apparenza incausata nel Sé’. Per quanto ne so questo termine è stato usato per la prima volta da David Godman nella sua introduzione al capitolo 17 di Be As You Are (1985, p. 182) mentre cercava di spiegare ajāta vāda, ma oggi è spesso citato come se queste fossero parole di Bhagavan. Cosa significa realmente ‘un’apparenza incausata’?

Un’apparenza è qualcosa che sembra esistere o che appare a un certo momento e quindi scompare in qualche altro momento, e qualunque cosa appare o sembra esistere deve essere una forma (un fenomeno) di un qualche genere, così dire che il jñāni vede il mondo come un’apparenza implica che lo vede come una forma o un insieme di forme, cosa che Bhagavan ha spesso negato esplicitamente, perché il jñāni è solo il nostro sé reale (ātma-svarūpa), che è senza forma, e quindi non può vedere alcuna forma.

Tuttavia, poiché esso appare, ogni apparenza deve essere un effetto, così come ogni altro effetto deve avere una causa. Secondo Bhagavan la sola causa per l’apparenza di questo o di ogni altro mondo è il sorgere del nostro ego, perché qualunque mondo sembra esistere, sembra esistere solo nella visione del nostro ego, che sorge solo afferrando e sperimentando se stesso come la forma di un corpo.

Ciò che ajāta vāda dice non è che c’è un effetto senza causa, ma solo che non c’è né l’effetto né la causa, perché ciò che esiste realmente è solo noi stessi, l’unica infinita ātma-svarūpa, nella cui chiara visione ogni ego (la causa) e ogni mondo (l’effetto) non sono mai neppure sembrati esistere. Questo è il motivo per cui Bhagavan dice nel verso 31 di Uḷḷadu Nāṟpadu, ‘தன்னை அலாது அன்னியம் ஒன்றும் அறியார்’ (taṉṉai alādu aṉṉiyam oṉḏṟum aṟiyār), ‘Essi non conoscono qualsiasi cosa diversa da loro stessi’ (in cui ‘essi’ e ‘loro stessi’ si riferiscono entrambi all’ ātma-jñāni, che non è altro che ātma-svarūpa), nel verso 12, ‘அறிதற்கு அறிவித்தற்கு அன்னியம் இன்றாய் அவிர்வதால், தான் அறிவு ஆகும்’ (aṟidaṟku aṟivittaṟku aṉṉiyam iṉḏṟāy avirvadāl, tāṉ aṟivu āhum), che significa ‘poiché esso risplende senza nessun’altra cosa da conoscere o da rendere conosciuta, se stesso è la [vera] conoscenza’ (in cui ‘esso’ e ‘se stesso’ si riferiscono entrambi all’ ātma-svarūpa).

Tuttavia, ajāta vāda non è un argomento che ammette che il mondo è un’apparenza, sia causata che incausata, ma è una negazione completa di ogni apparire o apparenza. Quando Bhagavan riconosceva che nella nostra visione il mondo appare o sembra esistere, egli non stava insegnando ajāta vāda ma solo vivarta vāda, perché il significato di vivarta è illusione o falsa apparenza, mentre il significato di ajāta è non nato, non prodotto, non originato, non sorto, non apparso o non accaduto. Benché la sua esperienza sia ajāta, perché nella sua visione niente altro che noi stessi è mai esistito o anche sembrato esistere, ciò che ci ha insegnato era vivarta vāda (e quindi ha iniziato il primo verso del testo principale di Uḷḷadu Nāṟpadu con la proposizione ‘நாம் உலகம் காண்டலால்’ (nām ulaham kāṇḍalāl), che significa ‘poiché noi vediamo il mondo’), poiché nella nostra visione il nostro ego e questo mondo sembrano esistere, e quindi egli ha riconosciuto questo per insegnarci che possiamo vedere attraverso questa illusione solo cercando di vedere se questo ego esiste realmente.

Se investighiamo questo ego, scopriremo che non è mai realmente esistito, e poiché ogni mondo sembra esistere solo nella visione di questo ego non-esistente, nessun mondo è mai esistito. In altre parole, vivarta vāda ci spinge ad investigare il nostro ego, a cui questa vivarta (illusione o falsa apparenza) appare, e investigare il nostro ego avrà come risultato lo sperimentare ajāta, la completa ed eterna non-esistenza e non-apparenza di questo mondo.

Se ‘il jnani è consapevole che il mondo è reale […] come un’apparenza incausata nel Sé’ (come David ha affermato a pagina 182 di Be As You Are), questo comporterebbe che l’ātma-jñāni è qualcosa diversa da ātma-svarūpa (che significherebbe che ātma-svarūpa è conosciuto da qualcosa diversa da se stessa, e che ātma-jñāna è quindi una conoscenza che comporta dualità nella forma di una distinzione tra ciò che conosce e ciò che è conosciuto), o che ātma-svarūpa è consapevole che il mondo è reale (nel qual caso ātma-svarūpa non sarebbe l’unica realtà). Secondo Bhagavan l’ātma-jñāni non è niente altro che ātma-svarūpa, e ātma-svarūpa non è consapevole di qualcosa diversa da se stessa, così essa non può essere consapevole che il mondo è in se stesso reale o un’apparenza incausata.

Se viene affermato che ātma-svarūpa o l’ātma-jñāni è consapevole del mondo anche come un’apparenza, sia essa causata o incausata, questo contraddice l’insegnamento di Bhagavan che ogni cosa diversa da noi stessi sembra esistere solo nella visione del nostro ego, e che in assenza del nostro ego niente altro esiste o anche sembra esistere. Come egli dice nel verso 26 di Uḷḷadu Nāṟpadu, per esempio, ‘அகந்தை உண்டாயின், அனைத்தும் உண்டாகும்; அகந்தை இன்றேல், இன்று அனைத்தும். அகந்தையே யாவும் ஆம்’ (ahandai uṇḍāyiṉ, aṉaittum uṇḍāhum; ahandai iṉḏṟēl, iṉḏṟu aṉaittum. ahandai-y-ē yāvum ām), che significa ‘Se l’ego ha origine, ogni cosa ha origine; se l’ego non esiste, ogni cosa non esiste. [Quindi] l’ego è ogni cosa’, e come egli dice nel verso 7 di Śrī Aruṇācala Aṣṭakam, ‘இன்று அகம் எனும் நினைவு எனில், பிற ஒன்றும் இன்று’ (iṉḏṟu aham eṉum niṉaivu eṉil, piṟa oṉḏṟum iṉḏṟu), che significa ‘Se il pensiero chiamato io [l’ego] non esiste, ogni altra cosa non esisterà’. Quindi poiché ātma-jñāna (auto-conoscenza) è lo stato di assoluta assenza di ego, nell’esperienza dell’ātma-jñāni non c’è mondo o qualsiasi altra cosa diversa da ātma-svarūpa, come Bhagavan intende inequivocabilmente nel verso 31 di Uḷḷadu Nāṟpadu e altrove.

14b. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 18: quando conosceremo noi stessi, sperimenteremo il mondo solo come il suo substrato senza forma

Un’altra idea ampiamente diffusa ma errata che molte persone hanno riguardo ciò che Bhagavan ha insegnato sull’esperienza dell’ātma-jñāni è che l’ātma-jñāni è consapevole delle miriadi di forme e caratteristiche di questo mondo ma le vede come ‘il Sé’ (ātma-svarūpa). Sebbene egli qualche volta dice che il jñāni vede il mondo come ātman, ciò che intende non è che il jñāni è consapevole di ogni forma ma solo che il jñāni è consapevole di niente altro che ātman, così ciò che vediamo come un mondo costituito da innumerevoli forme è ciò che il jñāni vede come l’ātman senza forma. Questo è la distinzione sottile ma enormemente significativa che egli spiega nel verso 18 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
உலகுண்மை யாகு முணர்வில்லார்க் குள்ளார்க்
குலகளவா முண்மை யுணரார்க் — குலகினுக்
காதார மாயுருவற் றாருமுணர்ந் தாருண்மை
யீதாகும் பேதமிவர்க் கெண்.

ulahuṇmai yāhu muṇarvillārk kuḷḷārk
kulahaḷavā muṇmai yuṇarārk — kulahiṉuk
kādhāra māyuruvaṯ ṟārumuṇarn dāruṇmai
yīdāhum bhēdamivark keṇ
.

பதச்சேதம்: உலகு உண்மை ஆகும், உணர்வு இல்லார்க்கு, உள்ளார்க்கு. உலகு அளவு ஆம் உண்மை உணரார்க்கு; உலகினுக்கு ஆதாரமாய் உரு அற்று ஆரும் உணர்ந்தார் உண்மை. ஈது ஆகும் பேதம் இவர்க்கு. எண்.

Padacchēdam (separazione delle parole): ulahu uṇmai āhum, uṇarvu illārkku, uḷḷārkku. ulahu aḷavu ām uṇmai uṇarārkku; ulahiṉukku ādhāram-āy uru aṯṟu ārum uṇarndār uṇmai. īdu āhum bhēdam ivarkku. eṇ.

அன்வயம்: உணர்வு இல்லார்க்கு, உள்ளார்க்கு உலகு உண்மை ஆகும். உணரார்க்கு உண்மை உலகு அளவு ஆம்; உணர்ந்தார் உண்மை உலகினுக்கு ஆதாரமாய் உரு அற்று ஆரும். ஈது இவர்க்கு பேதம் ஆகும். எண்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): uṇarvu illārkku, uḷḷārkku ulahu uṇmai āhum. uṇarārkku uṇmai ulahu aḷavu ām; uṇarndār uṇmai ulahiṉukku ādhāram-āy uru aṯṟu ārum. īdu ivarkku bhēdam āhum. eṇ.

Traduzione: Per coloro che non hanno conoscenza e per coloro che ce l’hanno, il mondo è reale. Per coloro che non conoscono, la realtà è [limitata a] l’ambito del mondo, [mentre] per coloro che hanno conosciuto, la realtà pervade priva di forma come l’ādhāra [supporto, substrato o fondamento] del mondo. Questa è la differenza tra esse. Tieni presente.
In questo verso i termini உணர்வு உள்ளார் (uṇarvu uḷḷār), ‘coloro che hanno conoscenza’, e உணர்ந்தார் (uṇarndār), ‘coloro che hanno conosciuto’, si riferiscono entrambi all’ātma-jñāni, a cui Bhagavan si è riferito nel verso precedente come தன்னை உணர்ந்தார் (taṉṉai uṇarndār), ‘coloro che hanno conosciuto loro stessi’, ma come nel verso 31 egli usa la forma plurale che termina in ர் (r) come un singolare onorifico e di genere non specifico, perché ciò che conosce ātma-svarūpa è solo ātma-svarūpa, che è il tutto singolo e indivisibile.

உண்மை (uṇmai) è un sostantivo astratto derivato dalla radice verbale உள் (uḷ), che significa essere, esistere o avere, con l’aggiunta del suffisso மை (mai), che esprime una qualità o condizione astratta e che quindi più o meno equivale ai suffissi Inglesi ‘-ness’ e ‘-ity’ (Italiano: -ezza; -ità), così உண்மை (uṇmai) significa èità, essere, esistenza, realtà, verità o ciò che è, ed è anche usato come un aggettivo con il significato di vero, reale o effettivo. Nella prima frase di questo verso l’ho tradotto come ‘reale’ e in ciascuna delle due frasi successive l’ho tradotto come ‘realtà’, ma in ciascun caso è la stessa parola e ha lo stesso significato.

Quindi quando Bhagavan dice nella prima frase ‘உலகு உண்மை ஆகும், உணர்வு இல்லார்க்கு, உள்ளார்க்கு’ (ulahu uṇmai āhum, uṇarvu illārkku, uḷḷārkku), che significa ‘il mondo è uṇmai [realtà o reale] per coloro che non hanno conoscenza e per coloro che ce l’hanno’, e poi dice nella terza frase ‘உலகினுக்கு ஆதாரமாய் உரு அற்று ஆரும் உணர்ந்தார் உண்மை’ (ulahiṉukku ādhāram-āy uru aṯṟu ārum uṇarndār uṇmai), che significa ‘per coloro che hanno conosciuto, uṇmai pervade privo di forma come l’ādhāra [supporto o substrato] per il mondo’, ciò che intende è che nella visione dell’ātma-jñāni o ātma-svarūpa ciò che risplende come il mondo non è qualche forma ma solo ciò che è reale, vale a dire l’unico ādhāra o substrato senza forma, che è se stesso (ātma-svarūpa). In altre parole, la ragione per cui egli dice che il mondo è reale nella visione dell’ātma-jñāni è che per ātma-svarūpa ciò che esiste è solo se stesso, così niente di irreale esiste affatto, e quindi ciò che ci sembra essere un mondo di innumerevoli forme limitate è nella sua visione solo se stesso, l’unica realtà senza forma ed infinitamente pervadente.

Benché la parola ஆதாரம் (ādhāram) che egli usa qui è la stessa parola che ha usato nel verso 11 quando si è riferito all’ego come la base, il fondamento o il supporto di conoscenza e ignoranza, in questo contesto non si riferisce all’ego ma solo a ātma-svarūpa, che sola è ciò che è reale (uṇmai). Cioè, mentre il nostro ego è l’ādhāra o supporto immediato dell’apparenza di ogni mondo e della nostra conoscenza di esso, l’ādhāra dell’ego è solo ātma-svarūpa, così ātma-svarūpa è l’ādhāra definitivo di ogni cosa.

Il mondo come ora lo conosciamo è un’immensa serie di forme mutevoli (fenomeni), mentre ātma-svarūpa (il nostro sé reale) è il substrato senza forma e immutabile dell’intera apparenza del mondo. Quando vediamo un serpente illusorio non lo vediamo come il suo reale substrato, che è una corda, e quando lo vediamo come la corda che è ciò che è realmente non lo vediamo più come un serpente. Nello stesso modo, quando sperimentiamo questo mondo come una serie di forme mutevoli, non lo sperimentiamo come il suo substrato reale, che è la nostra ātma-svarūpa senza forma e immutabile, e quando sperimentiamo la nostra ātma-svarūpa come è realmente non la sperimentiamo più come una serie di forme mutevoli.

Questo può anche essere illustrato chiaramente dall’immagine ambigua di un coniglio o un’anatra, che possiamo vedere come un coniglio o come un’anatra, ma mai come entrambi simultaneamente. Proprio come in questa immagine non possiamo vedere entrambi gli animali simultaneamente, non possiamo vedere il mondo come una serie di forme multiple e simultaneamente vederlo come il nostro sé senza forma. Quando lo vediamo come forme multiple non lo vediamo come noi stessi, e quando lo vediamo come noi stessi non vediamo alcuna forma.

Questo è ciò che Bhagavan ci ha insegnato inequivocabilmente nel terzo e nel quarto paragrafo di Nāṉ Yār?:
சர்வ அறிவிற்கும் சர்வ தொழிற்குங் காரண மாகிய மன மடங்கினால் ஜகதிருஷ்டி நீங்கும். கற்பித ஸர்ப்ப ஞானம் போனா லொழிய அதிஷ்டான ரஜ்ஜு ஞானம் உண்டாகாதது போல, கற்பிதமான ஜகதிருஷ்டி நீங்கினா லொழிய அதிஷ்டான சொரூப தர்சன முண்டாகாது.

sarva aṟiviṟkum sarva toṙiṟkum kāraṇam-āhiya maṉam aḍaṅgiṉāl jaga-diruṣṭi nīṅgum. kaṯpita sarppa-jñāṉam pōṉāl oṙiya adhiṣṭhāṉa rajju-jñāṉam uṇḍāhādadu pōla, kaṯpitamāṉa jaga-diruṣṭi nīṅgiṉāl oṙiya adhiṣṭhāṉa sorūpa darśaṉam uṇḍāhādu.

Se la mente, che è la causa di tutta la conoscenza [diversa dalla nostra conoscenza fondamentale ‘io sono’] e di tutta l’attività sprofonda, jagad-dṛṣṭi [la percezione del mondo] cesserà. A meno che cessi la conoscenza del serpente immaginario, la conoscenza della corda, che è l’adhiṣṭhāna [la base che sottende o supporta l’apparenza illusoria del serpente], non sorgerà, nello stesso modo a meno che cessi la percezione del mondo, che è una kalpita [una fabbricazione, una creazione mentale o un’invenzione della nostra immaginazione], svarūpa-darśana [l’esperienza del nostro vero sé], che è l’adhiṣṭhāna [la base o il fondamento che sottende e supporta l’apparenza immaginaria di questo mondo], non sorgerà.

[...] நினைவுகளைத் தவிர்த்து ஜகமென்றோர் பொருள் அன்னியமா யில்லை. தூக்கத்தில் நினைவுகளில்லை, ஜகமுமில்லை; ஜாக்ர சொப்பனங்களில் நினைவுகளுள, ஜகமும் உண்டு. சிலந்திப்பூச்சி எப்படித் தன்னிடமிருந்து வெளியில் நூலை நூற்று மறுபடியும் தன்னுள் இழுத்துக் கொள்ளுகிறதோ, அப்படியே மனமும் தன்னிடத்திலிருந்து ஜகத்தைத் தோற்றுவித்து மறுபடியும் தன்னிடமே ஒடுக்கிக்கொள்ளுகிறது. மனம் ஆத்ம சொரூபத்தினின்று வெளிப்படும்போது ஜகம் தோன்றும். ஆகையால், ஜகம் தோன்றும்போது சொரூபம் தோன்றாது; சொரூபம் தோன்றும் (பிரகாசிக்கும்) போது ஜகம் தோன்றாது. [...]

[...] niṉaivugaḷai-t tavirttu jagam-eṉḏṟōr poruḷ aṉṉiyamāy illai. tūkkattil niṉaivugaḷ illai, jagam-um illai; jāgra-soppaṉaṅgaḷil niṉaivugaḷ uḷa, jagam-um uṇḍu. silandi-p-pūcci eppaḍi-t taṉṉiḍamirundu veḷiyil nūlai nūṯṟu maṟupaḍiyum taṉṉuḷ iṙuttu-k-koḷḷugiṟadō, appaḍiyē maṉam-um taṉṉiḍattilirundu jagattai-t tōṯṟuvittu maṟupaḍiyum taṉṉiḍamē oḍukki-k-koḷḷugiṟadu. maṉam ātma sorūpattiṉiṉḏṟu veḷippaḍum-pōdu jagam tōṉḏṟum. āhaiyāl, jagam tōṉḏṟum-pōdu sorūpam tōṉḏṟādu; sorūpam tōṉḏṟum (pirakāśikkum) pōdu jagam tōṉḏṟādu. [...]

[...] Ad esclusione dei pensieri [o idee], non c’è separatamente una cosa come il ‘mondo’. Nel sonno non ci sono pensieri, [e conseguentemente] anche non c’è mondo; nella veglia e nel sogno ci sono pensieri, [e conseguentemente] c’è anche un mondo. Proprio come un ragno allunga il filo da dentro se stesso e lo ritira in se stesso, così la mente proietta il mondo da dentro se stessa e lo dissolve in se stessa. Quando la mente viene fuori da ātma-svarūpa, il mondo appare. Quindi quando il mondo appare, svarūpa [la ‘nostra forma’ o sé reale] non appare [come realmente è]; quando svarūpa appare (risplende) [come è realmente], il mondo non appare. […]
Se leggiamo e consideriamo attentamente ciò che Bhagavan dice in questi due paragrafi, dovrebbe esserci chiaro che egli non insegnava che l’ātma-jñāni vede il mondo come ‘un’apparenza incausata nel Sé’, e tanto meno che ‘il jnani è consapevole che il mondo è reale […] come un’apparenza incausata nel Sé’. L’ātma-jñāni non è affatto consapevole del mondo tranne come l’unica ātma-svarūpa senza forma e immutabile, che sola è ciò che esiste realmente e che è quindi il supporto e il fondamento ultimo (ādhāra o adhiṣṭhāna) di ogni cosa che sembra esistere, iniziando con l’ego, nella cui visione soltanto ogni altra cosa sembra esistere.

14c. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 4: possiamo sperimentare il mondo come forme solo se sperimentiamo noi stessi come una forma

Il fatto che l’ātma-jñāni non sperimenta affatto alcuna forma è stato inteso chiaramente da Bhagavan anche nel verso 4 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
உருவந்தா னாயி னுலகுபர மற்றா
முருவந்தா னன்றே லுவற்றி — னுருவத்தைக்
கண்ணுறுதல் யாவனெவன் கண்ணலாற் காட்சியுண்டோ
கண்ணதுதா னந்தமிலாக் கண்.

uruvandā ṉāyi ṉulahupara maṯṟā
muruvandā ṉaṉḏṟē luvaṯṟi — ṉuruvattaik
kaṇṇuṟudal yāvaṉevaṉ kaṇṇalāṯ kāṭciyuṇḍō
kaṇṇadutā ṉantamilāk kaṇ
.

பதச்சேதம்: உருவம் தான் ஆயின், உலகு பரம் அற்று ஆம்; உருவம் தான் அன்றேல், உவற்றின் உருவத்தை கண் உறுதல் யாவன்? எவன்? கண் அலால் காட்சி உண்டோ? கண் அது தான் அந்தம் இலா கண்.

Padacchēdam (separazione delle parole): uruvam tāṉ āyiṉ, ulahu param aṯṟu ām; uruvam tāṉ aṉḏṟēl, uvaṯṟiṉ uruvattai kaṇ uṟudal yāvaṉ? evaṉ? kaṇ alāl kāṭci uṇḍō? kaṇ adu tāṉ antam-ilā kaṇ.

அன்வயம்: தான் உருவம் ஆயின், உலகு பரம் அற்று ஆம்; தான் உருவம் அன்றேல், உவற்றின் உருவத்தை யாவன் கண் உறுதல்? எவன்? கண் அலால் காட்சி உண்டோ? கண் அது தான் அந்தம் இலா கண்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): tāṉ uruvam āyiṉ, ulahu param aṯṟu ām; tāṉ uruvam aṉḏṟēl, uvaṯṟiṉ uruvattai yāvaṉ kaṇ uṟudal? evaṉ? kaṇ alāl kāṭci uṇḍō? kaṇ adu tāṉ antam-ilā kaṇ.

Traduzione: Se se stesso è una forma, il mondo e Dio lo saranno ugualmente; se se stesso non è una forma, chi può vedere le loro forme, e come [fare questo]? Può ciò che è visto essere differente [in natura] dall’occhio [che lo vede]? L’occhio [reale] è se stesso, l’occhio infinito.
Poiché ogni forma è un limite (anta), ciò che Bhagavan descrive qui come ‘அந்தம் இலா கண்’ (antam-ilā kaṇ), ‘l’occhio illimitato [o infinito]’, è la consapevolezza senza forma che siamo realmente. Poiché ciò che è visto (o sperimentato) non può essere diverso in natura dall’occhio che lo vede (la consapevolezza che lo sperimenta), qualunque cosa che è sperimentata dall’occhio infinito e senza forma che siamo realmente deve ugualmente essere infinta e quindi senza forma. Questo è il motivo per cui Bhagavan chiede retoricamente, ‘உருவம் தான் அன்றேல், உவற்றின் உருவத்தை கண் உறுதல் யாவன்? எவன்?’ (uruvam tāṉ aṉḏṟēl, uvaṯṟiṉ uruvattai kaṇ uṟudal yāvaṉ? evaṉ?), ‘se se stesso non è una forma, chi può vedere le loro forme, e come [fare questo]?’, intendendo quindi che non possiamo vedere alcuna forma del mondo o di Dio a meno che confiniamo noi stessi entro limiti e sperimentandoci come una forma.

Dunque in questo verso Bhagavan enfatizza ancora una volta che quando sperimenteremo noi stessi come la consapevolezza infinita e quindi senza forma che siamo realmente, non sperimenteremo alcuna forma. Quindi poiché ogni cosa che sembra essere diversa da noi stessi è una forma di un tipo o di un altro, quando sperimenteremo noi stessi come siamo realmente non sperimenteremo qualcosa diversa da ni stessi, come egli ha affermato esplicitamente nei versi 12 e 31.

14d. Perché la vera conoscenza è priva non solo di conoscenza ma anche di ignoranza di qualsiasi cosa diversa da noi stessi

Questa assenza di ogni conoscenza o esperienza di qualsiasi mondo o qualsiasi altra cosa diversa da noi stessi è ciò a cui Bhagavan si riferisce quando scrive nella prima frase del verso 12 di Uḷḷadu Nāṟpadu, ‘அறிவு அறியாமையும் அற்றது அறிவு ஆமே’ (aṟivu aṟiyāmaiyum aṯṟadu aṟivu āmē), ‘ciò che è privo di conoscenza e ignoranza è [vera] conoscenza’. Poiché solo il nostro sé reale (ātma-svarūpa) è vera conoscenza, e poiché esso non conosce niente diverso da se stesso, è chiaro perché egli dice che è privo di conoscenza, ma perché dice che è anche privo di ignoranza? Non è la sua mancanza di ogni conoscenza di qualsiasi cosa diversa da se stesso uguale all’ignoranza di tali cose?

Possiamo solo essere definiti ignoranti di qualcosa che esiste o che almeno sembra esistere o che potrebbe possibilmente esistere. Per esempio non posso dire significativamente che tu sei ignorante della bellezza di un cerchio quadrato, perché non c’è una cosa come un cerchio quadrato, neppure ci potrebbe mai essere o anche sembrare essere. Il vero significato delle parole ‘quadrato’ e ‘cerchio’ esclude ogni possibilità dell’esistenza o anche dell’apparenza di un cerchio quadrato, così poiché non ci può mai essere un cerchio quadrato, non c’è una cosa come la bellezza di un cerchio quadrato, e quindi neppure una cosa come l’ignoranza di quella bellezza.

Quindi dicendo che la vera conoscenza è priva non solo di conoscenza ma anche di ignoranza Bhagavan enfatizza il fatto che nella sua visione non c’è niente altro che noi stessi che potremmo conoscere o di cui potremmo essere ignoranti. In altre parole, insegnandoci che la vera conoscenza è priva sia di conoscenza che di ignoranza di qualsiasi altra cosa, egli stava intendendo indirettamente ma alquanto chiaramente che niente altro che noi stessi esiste realmente, così lo stato in cui conosciamo noi stessi come siamo realmente è uno stato oltre la portata della relativa conoscenza e ignoranza – cioè, oltre ogni possibilità di conoscenza o di ignoranza di qualsiasi cosa diversa da noi stessi. Quindi benché l’ātma-jñāni (o ātma-svarūpa) non conosce qualcosa diversa da se stesso, egli non può essere definito ignorante, perche non c’è niente altro che se stesso che egli possa conoscere o di cui possa essere ignorante.

14e. Poiché la vera conoscenza è priva di conoscenza e di ignoranza, perché Bhagavan dice che non è un vuoto?

Dopo aver detto ‘அறிதற்கு அறிவித்தற்கு அன்னியம் இன்றாய் அவிர்வதால் தான் அறிவு ஆகும்’ (aṟidaṟku aṟivittaṟku aṉṉiyam iṉḏṟāy avirvadāl tāṉ aṟivu āhum), che significa ‘poiché esso risplende senza ogni altra cosa da conoscere o rendere conosciuta, se stesso è [vera] conoscenza’, Bhagavan conclude il verso 12 di Uḷḷadu Nāṟpadu dicendo, ‘பாழ் அன்று’ (pāṙ aṉḏṟu), che significa ‘esso non è un vuoto’. In questo contesto பாழ் (pāṙ) è un sostantivo derivato dal verbo பாழ் (pāṙ), che significa essere rovinato, essere devastato o divenire inutile, così come un sostantivo esso significa rovina, devastazione, desolazione, disgrazia, inutilità, sterilità, vacuità, nullità, non-esistenza o zero, e in filosofia è spesso usato come un equivalente della parola Sanscrita शून्य (śūnya).

Quando Bhagavan dice in questo verso che la vera conoscenza è priva di conoscenza e ignoranza e anche di ogni altra cosa da conoscere o da rendere conosciuta, perché poi dice che non è பாழ் (pāṙ), vuoto, vacuità o nullità? La ragione è che ciò di cui è priva è irreale o non-esistente, così essendo priva di ogni cosa irreale è piena di ciò che è reale, vale a dire se stessa, che è ciò che noi siamo realmente.

Quindi, benché egli non dice questo esplicitamente, qui e altrove intende che ciò che è realmente vuoto o vacuo di ogni realtà è solo qualsiasi cosa diversa da noi stessi (come anche Buddha intendeva in Suñña Lōka Suttaṁ). Quindi poiché la vera conoscenza, che è noi stessi, è priva o vacua solo di qualunque cosa è essa stessa vacua, sarebbe un errore di denominazione applicare i termini பாழ் (pāṙ), शून्य (śūnya), suñña, vacuo o vuoto alla vera conoscenza o a noi stessi. Questi termini sono applicabili solo a ogni cosa diversa da noi stessi, e non a noi stessi, perché noi solo siamo ciò che è pieno, intero e reale.

15. Noi soltanto siamo ciò che è pieno, intero o pūrṇa

Il verso 12 di Uḷḷadu Nāṟpadu è il solo verso in cui Bhagavan ha scritto esplicitamente che noi non siamo பாழ் (pāṙ), vacui o vuoti, ma in diversi altri versi ci ha insegnato che noi siamo பூன்றம் (pūṉḏṟam), पूर्ण (pūrṇa), pieni, interi, completi o intatti, che è equivalente a dire che non siamo vacui, vuoti o nulla.

15a. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 7: la causa e la sorgente eterna ed immutabile dell’ego e del mondo è il tutto infinito

Nel verso 7 di Uḷḷadu Nāṟpadu egli ha scritto:
உலகறிவு மொன்றா யுதித்தொடுங்கு மேனு
முலகறிவு தன்னா லொளிரு — முலகறிவு
தோன்றிமறை தற்கிடனாய்த் தோன்றிமறை யாதொளிரும் பூன்றமா மஃதே பொருள்.

ulahaṟivu moṉḏṟā yudittoḍuṅgu mēṉu
mulahaṟivu taṉṉā loḷiru — mulahaṟivu
tōṉḏṟimaṟai daṟkiḍaṉāyt tōṉḏṟimaṟai yādoḷirum
pūṉḏṟamā maḵdē poruḷ
.

பதச்சேதம்: உலகு அறிவும் ஒன்றாய் உதித்து ஒடுங்கும் ஏனும், உலகு அறிவு தன்னால் ஒளிரும். உலகு அறிவு தோன்றி மறைதற்கு இடன் ஆய் தோன்றி மறையாது ஒளிரும் பூன்றம் ஆம் அஃதே பொருள்.

Padacchēdam (separazione delle parole): ulahu aṟivum oṉḏṟāy udittu oḍuṅgum ēṉum, ulahu aṟivu-taṉṉāl oḷirum. ulahu aṟivu tōṉḏṟi maṟaidaṟku iḍaṉ-āy tōṉḏṟi maṟaiyādu oḷirum pūṉḏṟam ām aḵdē poruḷ.

அன்வயம்: உலகு அறிவும் ஒன்றாய் உதித்து ஒடுங்கும் ஏனும், உலகு அறிவு தன்னால் ஒளிரும். உலகு அறிவு தோன்றி மறைதற்கு இடன் ஆய் தோன்றி மறையாது ஒளிரும் அஃதே பூன்றம் ஆம் பொருள்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): ulahu aṟivum oṉḏṟāy udittu oḍuṅgum ēṉum, ulahu aṟivu-taṉṉāl oḷirum. ulahu aṟivu tōṉḏṟi maṟaidaṟku iḍaṉ-āy tōṉḏṟi maṟaiyādu oḷirum aḵdē pūṉḏṟam ām poruḷ.

Traduzione: Benché il mondo e la mente sorgono e sprofondano simultaneamente, il mondo risplende per mezzo della mente. Solo quello che risplende senza apparire o scomparire come la base per l’apparizione e la scomparsa del mondo e della mente è poruḷ [la sostanza reale], che è pūṉḏṟam [il tutto infinito o pūrṇa].
அறிவு (aṟivu) è un sostantivo derivato dal verbo அறி (aṟi), che significa conoscere, percepire o sperimentare, così il significato fondamentale di அறிவு (aṟivu) è conoscenza, ma è spesso usato nel senso di consapevolezza, così può anche riferirsi a noi stessi (ātman) o al nostro ego o mente. Nel verso 27 di Upadēśa Undiyār e nei versi 10,11 e 12 di Uḷḷadu Nāṟpadu Bhagavan lo ha usato nel senso di conoscenza o consapevolezza in generale, ma in questo verso egli lo usa specificatamente nel senso di ego o mente, perché è solo per mezzo dell’ego o mente che il mondo è sperimentato, e poiché nel senso di ciò che è consapevole, la sola consapevolezza che sorge e sprofonda o appare e scompare è questo ego o mente.

Quindi quando egli dice qui ‘உலகு அறிவு தன்னால் ஒளிரும்’ (ulahu aṟivu-taṉṉāl oḷirum), che significa ‘il mondo risplende per mezzo di aṟivu [l’ego o mente]’, ciò che intende è che l’esistenza apparente del mondo è illuminata e sperimentata solo dal nostro ego o mente. In altre parole, il mondo non sembra esistere tranne che nella visione di noi stessi come questo ego. Ogni volta che non sperimentiamo noi stessi come questo ego (come per esempio nel sonno), nessun mondo sembra esistere, ogni volta che sperimentiamo noi stessi come questo ego (come nella veglia o in ogni altro sogno), questo o qualche altro mondo sembrerà sempre esistere (come Bhagavan ha spiegato in maggiore dettaglio nella parte del quarto paragrafo di Nāṉ Yār? che ho citato sopra nella sezione 14b.

Poiché il nostro ego sorge e sprofonda o appare e scompare, esso non può essere ciò che è definitivamente reale, né può essere ciò che siamo realmente. Poiché esso e ogni altra cosa appare e scompare nella nostra esperienza, noi solo dobbiamo essere la sorgente da cui esso e ogni altra cosa sorge e in cui essi sprofondano. Quindi ciò che Bhagavan descrive qui come ‘உலகு அறிவு தோன்றி மறைதற்கு இடன் ஆய் தோன்றி மறையாது ஒளிரும் அஃதே’ (ulahu aṟivu tōṉḏṟi maṟaidaṟku iḍaṉ-āy tōṉḏṟi maṟaiyādu oḷirum aḵdē), che significa ‘solo ciò che risplende senza apparire o scomparire come la base per l’apparenza e la scomparsa del mondo e di aṟivu [ego o mente]’, è noi stessi come siamo realmente – in altre parole è la nostra ātma-svarūpa (la ‘propria forma’ o natura essenziale di noi stessi), che solo è ciò che realmente esiste (come dice nel settimo paragrafo di Nāṉ Yār?).

Quindi quando egli dice ‘அஃதே பூன்றம் ஆம் பொருள்’ (aḵdē pūṉḏṟam ām poruḷ), che significa ‘solo quello è poruḷ [la sostanza reale], che è pūṉḏṟam [il tutto infinito o pūrṇa]’, intende che noi solo siamo la sostanza reale, che è il tutto infinito. பொருள் (poruḷ) è un termine Tamil che in questo contesto ha quasi lo stesso significato del termine Sanscrito वस्तु (vastu), vale a dire sostanza, essenza o cosa, in modo particolare nel senso di ciò che esiste realmente o è reale, e quindi come ‘vastu’ è spesso usato per indicare brahman come la sostanza suprema o realtà. பூன்றம் (pūṉḏṟam) è una variante Tamil del termine Sanscrito वस्तु (pūrṇa), che significa ciò che è pieno, totale, completo, intero o perfetto, e che è quindi usato spesso per indicare brahman come l’unico tutto infinito, all’infuori del quale niente esiste. Quindi பூன்றம் ஆம் பொருள் (pūṉḏṟam ām poruḷ) significa la sostanza suprema o realtà (poruḷ o vastu), che è l’unico tutto infinito o pienezza assoluta (pūṉḏṟam or pūrṇa).

Nella frase finale di questo verso Bhagavan dice che questa பூன்றம் ஆம் பொருள் (pūṉḏṟam ām poruḷ) o ‘sostanza che è il tutto’ è ciò che risplende senza apparire o scomparire come இடன் (iḍaṉ) per l’apparizione e la scomparsa del mondo e dell’ego o mente. இடன் (iḍaṉ) in generale significa un’ampia distesa o uno spazio esteso, essendo una variante di இடம் (iḍam), che significa luogo, stanza, sito, terreno, spazio o distesa, ma che Bhagavan usava spesso in un senso metaforico per riferirsi a noi stessi come la sorgente, il terreno o lo spazio dal quale, sul quale e nel quale il nostro ego appare e scompare insieme con ogni altra cosa che sperimenta. Quindi la frase ‘உலகு அறிவு தோன்றி மறைதற்கு இடன்’ (ulahu aṟivu tōṉḏṟi maṟaidaṟku iḍaṉ), che significa ‘la base [terreno o spazio] per l’apparizione e la scomparsa del mondo e di aṟivu [ego o mente]’, si riferisce a noi stessi come quello dal quale, sul quale e nel quale il nostro ego e tutta la sua progenie (questo o qualsiasi altro mondo) appare e scompare.

Tuttavia, se investighiamo questo ego, che è ciò che ora sembriamo essere, scopriremo che non è ciò che siamo realmente, ed è un’illusione che sembra esistere solo nella nostra visione, perché nella visione illimitata del tutto infinito esso non appare o scompare affatto. Dunque, poiché il mondo risplende solo per mezzo di questo ego illusorio (cioè, è sperimentato solo da questo ego e quindi sembra esistere solo nella sua visione), la sua apparizione e scomparsa è altrettanto non reale ma è solo un’illusione. Quindi nella chiara visione di ātma-svarūpa, che è il tutto infinito, l’ego e il mondo sono interamente non-esistenti, così anche dire che il tutto infinito (noi stessi) è vuoto nel senso che è vacuo di ego o del mondo non è del tutto vero, perché come può essere vuoto di ciò che non esiste? Dunque, poiché non c’è niente altro che noi stessi di cui potremmo essere vuoti, noi siamo assolutamente e incondizionatamente pieni, completi o pūrṇa.

Tuttavia, poiché l’ego e il mondo sembrano esistere nella nostra visione, quantunque solo intermittentemente, in questo verso Bhagavan concede la loro apparente esistenza, e quindi descrive noi stessi come la base, il terreno o lo spazio per la loro apparizione e scomparsa. Tuttavia, egli indica che poiché noi stessi risplendiamo senza mai apparire o scomparire come la base o terreno per l’apparizione o la scomparsa di ogni altra cosa, noi solo siamo ciò che esiste realmente, e quindi non siamo vacui ma assolutamente pieni e completi. Dunque dicendo ‘உலகு அறிவு தோன்றி மறைதற்கு இடன் ஆய் தோன்றி மறையாது ஒளிரும் அஃதே பூன்றம் ஆம் பொருள்’ (ulahu aṟivu tōṉḏṟi maṟaidaṟku iḍaṉ-āy tōṉḏṟi maṟaiyādu oḷirum aḵdē pūṉḏṟam ām poruḷ), che significa ‘solo quello che risplende senza apparire o scomparire come la base per l’apparizione e la scomparsa del mondo e della mente è poruḷ [la sostanza reale], che è pūṉḏṟam [il tutto infinito o pūrṇa]’, Bhagavan enfatizza la pienezza, la completezza, l’infinitezza e la perfezione di noi stessi, l’unica sostanza suprema o realtà.

15b. Upadēśa Undiyār verso 20: ciò che rimane come ‘io sono io’ dopo che l’ego si è dissolto è pienezza infinita

Il fatto che noi siamo l’unico tutto infinito (pūṉḏṟam o pūrṇa) è stato anche dichiarato esplicitamente da Bhagavan nel verso 20 di Upadēśa Undiyār. Nel egli ha detto ‘நான் என்று எழும் இடம் ஏது என நாட உள், நான் தலைசாய்ந்திடும். ஞான விசாரம் இது’ (nāṉ eṉḏṟu eṙum iḍam ēdu eṉa nāḍa uḷ, nāṉ talai-sāyndiḍum. jñāṉa-vicāram idu), che significa ‘Quando uno investiga all’interno qual'è il luogo da cui esso sorge come ‘io’, ‘io’ morirà. Questo è jñāna-vicāra’, e poi nel verso 20 ha scritto:
நானொன்று தானத்து நானானென் றொன்றது
தானாகத் தோன்றுமே யுந்தீபற
      தானது பூன்றமா முந்தீபற.

nāṉoṉḏṟu thāṉattu nāṉāṉeṉ ḏṟoṉḏṟadu
tāṉāhat tōṉḏṟumē yundīpaṟa
      āṉadu pūṉḏṟamā mundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: நான் ஒன்று தானத்து நான் என்று ஒன்று அது தானாக தோன்றுமே. தான் அது பூன்றம் ஆம்.

Padacchēdam (separazione delle parole): nāṉ oṉḏṟu thāṉattu nāṉ nāṉ eṉḏṟu oṉḏṟu adu tāṉāha tōṉḏṟumē. tāṉ adu pūṉḏṟam ām.

அன்வயம்: நான் ஒன்று தானத்து நான் நான் என்று ஒன்று அது தானாக தோன்றுமே. அது தான் பூன்றம் ஆம்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): nāṉ oṉḏṟu thāṉattu nāṉ nāṉ eṉḏṟu oṉḏṟu adu tāṉāha tōṉḏṟumē. adu tāṉ pūṉḏṟam ām.

Traduzione: Nel luogo dove ‘io’ si fonde, quello, l’uno, appare spontaneamente[o come se stesso] come ‘io sono io’. Quello stesso è pūṉḏṟam [il tutto infinito o pūrṇa].
Ciò che Bhagavan ha descritto nel verso precedente come ‘நான் தலைசாய்ந்திடும்’ (nāṉ talai-sāyndiḍum), che significa ‘io morirà’, è ciò a cui si riferisce in questo verso quando dice ‘நான் ஒன்று தானத்து’ (nāṉ oṉḏṟu thāṉattu), che significa ‘nel luogo dove ‘io’ si fonde’. Benché தானம் (thāṉam) è una forma Tamil della parola Sanscrita स्थान (sthāna), che significa luogo, dimora, posizione o situazione, egli spesso ha usato questa e altre parole che significano ‘luogo’ in un senso metaforico per riferirsi a noi stessi, perché noi siamo la sorgente e lo spazio in cui il nostro ego e ogni altra cosa appare e in cui essi devono tutti infine fondersi.

Egli usa la parola ஒன்று (oṉḏṟu) due volte in questo verso, la prima come un verbo e poi come un sostantivo. Come un verbo significa divenire uno, unirsi, saldarsi o fondersi, e nella frase‘நான் ஒன்று தானத்து’ (nāṉ oṉḏṟu thāṉattu) la usa per rappresentare il participio relativo ஒன்றும் (oṉḏṟum), che in questo contesto significa ‘dove esso si fonde’. Successivamente nella stessa frase quando dice ‘நான் நான் என்று ஒன்று அது தானாக தோன்றுமே’ (nāṉ nāṉ eṉḏṟu oṉḏṟu adu tāṉāha tōṉḏṟumē), che significa ‘quello, l’uno, appare spontaneamente come io sono io’, usa ஒன்று (oṉḏṟu) come un sostantivo dal significato di ‘uno’ per riferirsi all’unica realtà o sola cosa che esiste realmente, vale a dire noi stessi.

தானாக (tāṉāha) è un avverbio che può significare ‘spontaneamente’, ‘come se stesso’ o ‘da se stesso’ (nel senso di ‘di proprio’ o ‘da solo’), e in questo contesto tutti questi significati sono appropriati, perché l’uno che appare come ‘io sono io’ è noi stessi come siamo realmente, e quando il nostro ego è dissolto in noi stessi ciò che siamo realmente appare spontaneamente e da solo. Benché il verbo தோன்று (tōṉḏṟu) usualmente significa apparire, sgorgare, sorgere, avere origine o nascere, può anche significare solo essere visibile o chiaro, così in questo contesto தோன்றுமே (tōṉḏṟumē) significa ‘esso appare’ nel senso di ‘esso diviene chiaro’, piuttosto che nel senso di ‘esso ha origine’, perché ciò che siamo realmente è ciò che esiste ed è sperimentato sempre, anche quando siamo apparentemente oscurati dalle aggiunte che il nostro ego mischia e confonde con noi stessi.

Per rendere chiaro che ciò che siamo realmente non è qualcosa che sorge in modo nuovo quando il nostro ego è dissolto ma è ciò che esiste sempre e ovunque, nella frase finale Bhagavan dice ‘தான் அது பூன்றம் ஆம்’ (tāṉ adu pūṉḏṟam ām), che significa ‘quello stesso è pūṉḏṟam [il tutto infinito o pūrṇa]’. Poiché பூன்றம் (pūṉḏṟam) significa ciò che è pieno, completo o intero, esso indica la realtà infinita, che è oltre i limiti di tempo e spazio, così non c’è tempo e non c’è spazio che esso non pervada, e perciò esso non può mai subire alcuna mutazione come l’apparire o lo scomparire.

15c. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 30: ‘io sono io’ significa che noi siamo solo noi stessi, e poiché niente altro esiste, noi siamo il tutto infinito

Nel verso 30 di Uḷḷadu Nāṟpadu Bhagavan non solo esprime la stessa idea che ha espresso nel verso 20 di Upadēśa Undiyār ma usa anche molte delle stesse parole:
நானா ரெனமனமுண் ணாடியுள நண்ணவே
நானா மவன்றலை நாணமுற — நானானாத்
தோன்றுமொன்று தானாகத் தோன்றினுநா னன்றுபொருள்
பூன்றமது தானாம் பொருள்.

nāṉā reṉamaṉamuṇ ṇāḍiyuḷa naṇṇavē
nāṉā mavaṉḏṟalai nāṇamuṟa — nāṉāṉāt
tōṉḏṟumoṉḏṟu tāṉāhat tōṉḏṟiṉunā ṉaṉḏṟuporuḷ
pūṉḏṟamadu tāṉām poruḷ
.

பதச்சேதம்: நான் ஆர் என மனம் உள் நாடி உளம் நண்ணவே, ‘நான்’ ஆம் அவன் தலை நாணம் உற, ‘நான்’ ஆ தோன்றும் ஒன்று தானாக. தோன்றினும், ‘நான்’ அன்று. பொருள் பூன்றம் அது, தான் ஆம் பொருள்.

Padacchēdam (separazione delle parole): nāṉ ār eṉa maṉam uḷ nāḍi uḷam naṇṇavē, ‘nāṉ’ ām avaṉ talai nāṇam uṟa, ‘nāṉ nāṉ’ ā tōṉḏṟum oṉḏṟu tāṉāha. tōṉḏṟiṉum, ‘nāṉ’ aṉḏṟu. poruḷ-pūṉḏṟam adu, tāṉ ām poruḷ.

அன்வயம்: நான் ஆர் என மனம் உள் நாடி உளம் நண்ணவே, ‘நான்’ ஆம் அவன் தலை நாணம் உற, ‘நான் நான்’ ஆ ஒன்று தானாக தோன்றும். தோன்றினும், ‘நான்’ அன்று. அது பூன்றப் பொருள், தான் ஆம் பொருள்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): nāṉ ār eṉa maṉam uḷ nāḍi uḷam naṇṇavē, ‘nāṉ’ ām avaṉ talai nāṇam uṟa, ‘nāṉ nāṉ’ ā oṉḏṟu tāṉāha tōṉḏṟum. tōṉḏṟiṉum, ‘nāṉ’ aṉḏṟu. adu pūṉḏṟa-p-poruḷ, tāṉ ām poruḷ.

Traduzione: Quando la mente raggiunge il cuore investigando interiormente chi sono io, [e quindi] quando colui che è ‘io’ muore, l’uno appare spontaneamente [o come se stesso] come ‘io sono io’. Benché appaia, esso non è ‘io’ [l’ego]. Esso è poruḷ-pūṉḏṟam [l’intera sostanza, la realtà completa o pūrṇa-vastu], il poruḷ che è se stesso.
‘மனம் உளம் நண்ணவே’ (maṉam uḷam naṇṇavē), che significa letteralmente ‘quando la mente raggiunge il cuore’, è un modo metaforico per dire ‘quando lo sprofondamento della nostra mente all’interno di noi stessi è completo’. ‘நான் ஆம் அவன்’ (nāṉ ām avaṉ), che significa ‘colui che è io’, si riferisce all’ego, e ‘தலை நாணம் உற’ (talai nāṇam uṟa) significa letteralmente ‘quando esso soffre la vergogna di testa’, ma implica ‘quando esso piega la sua testa in segno di vergogna’, è un modo metaforico di dire ‘quando esso sprofonda e muore’.

Cosa accade quando il nostro ego investiga chi sono io e quindi sprofonda in noi stessi e muore è espresso dalle parole ‘நான் நான் ஆ தோன்றும் ஒன்று தானாக’ (nāṉ nāṉ ā tōṉḏṟum oṉḏṟu tāṉāha), che significa ‘l’uno appare spontaneamente come io sono io’. ஒன்று (oṉḏṟu), che significa ‘uno’ o ‘l’uno’, si riferisce a noi stessi come siamo realmente, perché secondo Bhagavan ciò che siamo realmente è l’unica e sola cosa che esiste realmente. Come abbiamo visto sopra discutendo il significato del verso 20 di Upadēśa Undiyār, in questo contesto தோன்றும் (tōṉḏṟum) significa ‘esso appare’ nel senso di ‘esso diviene chiaro’ o ‘esso risplende chiaramente’, perché ciò che siamo realmente non subisce alcuna mutazione, così la sua ‘apparizione’ quando il nostro ego muore è come il sole che risplende brillante quando le nuvole sono sospinte via dal vento. Come il sole sempre risplendeva brillante anche quando la sua brillantezza sembrava oscurata dalle nuvole, così il nostro sé reale risplende sempre chiaramente anche quando la sua chiarezza sembra essere oscurata dal nostro ego.

Questo è il motivo per cui Bhagavan dice nella frase successiva ‘தோன்றினும், நான் அன்று’ (tōṉḏṟiṉum, nāṉ aṉḏṟu), che significa ‘benché esso appaia, non è io’ e che implica che non è il nostro ego, che è la forma spuria di ‘io’ che appare e scompare. Ciò che siamo realmente non appare o scompare come l’ego, anche se sembra momentaneamente apparire di nuovo quando l’ego è rimosso. Cioè, ciò che distrugge l’ego è una nuova chiarezza di auto-consapevolezza, ma appena l’ego è distrutto noi riconosceremo quella chiarezza come naturale ed eterna, così non sembrerà più essere una nuova apparizione.

Quando Bhagavan descrive questa nuova ‘apparizione’ di noi stessi come chiara auto-consapevolezza, sia in questo verso che nel verso 20 di Upadēśa Undiyār (e anche nel verso 2 di Āṉma-Viddai) egli dice che esso appare o risplende chiaramente come ‘நான் நான்’ (nāṉ nāṉ), che significa ‘io sono io’. Come ho spiegato prima (come in நான் நான் (nāṉ nāṉ) significa ‘io sono io’, non ‘io-io’), in Tamil (come in molti altri linguaggi) il verbo copulativo (cioè, ogni verbo che connette un soggetto con il suo complemento, come ‘sono’ o ‘è’) è generalmente non espresso esplicitamente nel tempo presente, come ‘நான் இது’ (nāṉ idu) significa ‘io sono questo’ e ‘நான் யார்’ (nāṉ yār) o ‘நான் ஆர்’ (nāṉ ār) significa ‘io sono chi?’, ‘நான் நான்’ (nāṉ nāṉ) significa ‘io sono io’.

Bhagavan ha descritto spesso il nostro ego come la consapevolezza ‘நான் இது’ (nāṉ idu) o ‘io sono questo' perché come questo ego sperimentiamo noi stessi come un corpo e varie altre aggiunte, così in questo termine ‘நான் இது’ (nāṉ idu), ‘இது’ (idu) o ‘questo’ rappresenta qualunque corpo e altre aggiunte che attualmente sperimentiamo come noi stessi. Dunque il nostro ego è una auto-consapevolezza mischiata (cioè, una mescolanza confusa della nostra pura auto-consapevolezza, ‘io sono’, con qualunque aggiunta sia indicata da ‘questo’), mentre il nostro sé reale o ātma-svarūpa è pura auto-consapevolezza, incontaminata anche dalla minima mescolanza con qualsiasi aggiunta. Quindi, poiché il nostro vero sé non sperimenta se stesso come qualcosa diversa da se stesso, Bhagavan l’ha descritto come ‘நான் நான்’ (nāṉ nāṉ) o ‘io sono io’ per contrastarlo con il nostro ego, che sperimenta se stesso come ‘நான் இது’ (nāṉ idu) o ‘io sono questo’.

Questo contrasto tra ‘நான் இது’ (nāṉ idu) e ‘நான் நான்’ (nāṉ nāṉ) è spiegato da Lakshmana Sarma nel suo commentario Tamil a questo verso di Uḷḷadu Nāṟpadu, e la sua spiegazione è significativa perché egli è stato la sola persona che ha studiato il significato di Uḷḷadu Nāṟpadu nei minimi dettagli e sotto la guida diretta di Bhagavan, così egli ha sentito Bhagavan spiegare il significato e l’implicazione di ciascun verso diverse volte. Tuttavia, benché il significato ovvio di ‘நான் நான்’ (nāṉ nāṉ) in questo contesto è ‘io sono io’, e benché sia molto evidente che questo è ciò che Bhagavan ha inteso, per qualche ragione chiunque ha tradotto per la prima volta Upadēśa Undiyār e Uḷḷadu Nāṟpadu in Inglese l’ha tradotto come ‘io-io’, e la maggioranza dei traduttori successivi lo ha tradotto di conseguenza senza chiedersi se ‘io-io’ sia un’interpretazione corretta o significativa di ‘நான் நான்’ (nāṉ nāṉ) in questo contesto.

Nella sezione 363 di Talks with Sri Ramana Maharshi (edizione 2006, pag. 346) è riportato che una volta, quando fu chiesto a Bhagavan ‘Cos’è sphurana (splendore)’ egli ha risposto:
(Aham, aham) ‘io-io’ è il Sé; (Aham idam) “io sono questo” o “io sono quello” è l’ego. Lo splendore c’è sempre. L’ego è transitorio. Quando l’ ‘io’ è mantenuto come ‘io’ soltanto è il Sé, quando esso vola verso una tangente e dice “questo” è l’ego.
Poiché questo indica che la sua intenzione era contrastare ‘aham aham’ con ‘aham idam’ e poiché il registrante ha tradotto il secondo come ‘io sono questo), avrebbe dovuto logicamente tradurre il primo come ‘io sono io’, ma invece lo ha tradotto come ‘io-io’, che indica che dal 1937 l’abitudine di tradurre ‘nāṉ nāṉ’ o ‘aham aham’ come ‘io-io’ invece di ‘io sono io’ si era già stabilita fermamente tra coloro che traducevano, registravano o scrivevano gli insegnamenti di Bhagavan in Inglese. In questo contesto non solo Bhagavan contrastava ‘aham aham’ con ‘aham idam’, ma nella sia precedente risposta si era riferito al detto Biblico ‘io sono quello che sono’, che fornisce ulteriore prova che ciò che intendeva con ‘aham aham’ era ‘io sono io’ come opposto a ‘io sono questo’.

Queste due risposte date da Bhagavan sono state anche registrare in parole simili verso la fine del sesto capitolo della prima parte di Maharshi’s Gospel (edizione 2002, pag. 35), ma lì le parole Sanscrite ‘aham aham’ e ‘aham idam’ non sono state incluse tra parentesi, così a meno che si comprenda che ‘io-io’ è una traduzione sbagliata e frequente di ‘nāṉ nāṉ’ o ‘aham aham’, in quel passaggio di Maharshi’s Gospel è meno ovvio che ciò che è stato tradotto come ‘io-io’ avrebbe dovuto essere tradotto come ‘io sono io’.

Ciò che Bhagavan intendeva realmente in ciascuna occasione in cui ha detto o scritto ‘நான் நான்’ (nāṉ nāṉ) può essere determinato dal contesto in cui ha usato queste parole. Ogni volta che ha usato queste parole in riferimento alla nostra esperienza di noi stessi come siamo realmente, il significato che intendeva era ‘io sono io’, ma in altri contesti ha usato queste stesse parole in qualche altro senso. Per esempio, nella sua prima risposta a Kavyakantha ha iniziato con la frase ‘நான் நான் என்பது’ (nāṉ nāṉ eṉbadu), ma in quel contesto queste parole significano ‘quello che dice io, io’ perché esse si riferiscono solo all’ego e non a noi stessi come siamo realmente. Un altro esempio è la frase nel primo paragrafo di Nāṉ Yār? in cui dice ‘நான், நான் என்று கருதிக்கொண்டிருந்தாலுங்கூட அவ்விடத்திற் கொண்டுபோய் விட்டுவிடும்’ (nāṉ, nāṉ eṉḏṟu karudi-k-koṇḍirundāluṅ-gūḍa a-vv-iḍattil koṇḍu-pōy viṭṭu-viḍum), che significa ‘anche se uno continua a pensare ‘io, io’, questo lo lascerà e lo terrà in quel luogo’. In questo contesto la virgola dopo la prima நான் (nāṉ) indica che ciò che intendeva con ‘நான், நான்’ (nāṉ, nāṉ) era ‘io, io’ piuttosto che ‘io sono io’, perché si stava riferendo a meditare o fare japa mentale della parola ‘io’, come un aiuto per dirigere la propria attenzione verso se stesso, che è ciò che è indicato da questo pronome di prima persona.

Tuttavia, benché ci furono alcune accezioni come queste, nella maggioranza dei casi quando Bhagavan ha usato le parole ‘நான் நான்’ (nāṉ nāṉ) si stava riferendo all’essere consapevoli di noi stessi come solo noi stessi, così in tali casi ciò che intendeva con ‘நான் நான்’ (nāṉ nāṉ) era ‘io sono io’ nel senso di ‘io sono solo io’ o ‘io sono niente altro che io’. Quindi ciò che egli enfatizza con queste parole è che ciò che siamo realmente è solo noi stessi e non qualsiasi cosa diversa da noi stessi.

Questo è ciò che egli ha spiegato spesso come il vero significato della dichiarazione attribuita a Dio nell’Esodo 3.14, vale a dire ‘ehyeh asher ehyeh’, che è tradotta generalmente come ‘io sono quello che sono’ ma qualche volta come ‘io sono ciò che sono’. L’antica parola Ebrea asher è un relativizzatore (una congiunzione di subordinazione che segna una proposizione relativa), ma è usato qui per connettere un soggetto con il suo complemento, così in questo contesto significa ‘quello che è’ o ‘ciò che è’, così ciò che ‘ehyeh asher ehyeh’ significa realmente è ‘io sono quello che è io sono’, che implica esattamente ciò che Bhagavan ha espresso più semplicemente in Tamil con le parole ‘நான் நான்’ (nāṉ nāṉ): ‘io sono io’.

Poiché ogni cosa diversa da noi stessi sembra esistere solo nella visione del nostro ego, quando investighiamo il nostro ego e quindi scopriamo che esso non esiste realmente, allora niente altro che noi stessi esisterà o anche sembrerà esistere. In quello stato di pura auto-consapevolezza, quindi, sperimenteremo noi stessi come nient’altro che noi stessi soltanto, così questa auto-esperienza non-duale e senza alterità è stata espressa sinteticamente da Bhagavan in solo due parole: ‘நான் நான்’ (nāṉ nāṉ) o ‘अहम् अहम्’ (aham aham), ‘io sono io’.

Poiché come il nostro sé reale (ātma-svarūpa) sperimentiamo noi stessi soltanto come ‘io sono io’, e poiché niente altro esiste realmente, Bhagavan termina questo verso dicendo ‘பொருள் பூன்றம் அது, தான் ஆம் பொருள்’ (poruḷ-pūṉḏṟam adu, tāṉ ām poruḷ), che significa ‘quello è poruḷ-pūṉḏṟam, il poruḷ che è se stesso’. Come abbiamo visto sopra considerando il significato del verso 7 di Uḷḷadu Nāṟpadu, பொருள் (poruḷ) significa sostanza, essenza o cosa, particolarmente nel senso di ciò che esiste realmente o è reale, e பூன்றம் (pūṉḏṟam) significa ciò che è pieno, totale, completo, intero o perfetto, così பொருள் பூன்றம் (poruḷ-pūṉḏṟam) — o பூன்றப் பொருள் (pūṉḏṟa-p-poruḷ), come sarebbe scritto normalmente in prosa Tamil – ha lo stesso significato del termine Sanscrito परिपूर्ण वस्तु (paripūrṇa-vastu), vale a dire la sostanza reale perfettamente totale, completa e piena, e quindi implica la realtà infinita, che è l’unica sostanza reale o essenza, all’infuori della quale nulla esiste.

Oltre a dire che ciò che rimane come ‘io sono io’ dopo che l’ego è stato distrutto è il tutto infinito e la sostanza reale, egli dice anche che esso è ‘தான் ஆம் பொருள்’ (tāṉ ām poruḷ), che significa ‘la sostanza che è se stesso’, così ancora una volta nelle parole finali di questo verso egli enfatizza che l’unica realtà infinita (pūṉḏṟa-p-poruḷ or paripūrṇa-vastu) non è nient’altro che noi stessi. Quindi, poiché noi siamo l’unico tutto infinito, non c’è niente altro che noi stessi, così non siamo vacui o vuoti, prima di tutto perché siamo assoluta pienezza e secondariamente perché non c’è niente altro di cui potremmo essere vuoti. Noi siamo ciò che siamo e ciò che sempre siamo stati e sempre saremo, e poiché niente altro che noi stessi esiste realmente, noi siamo completamente privi anche della possibilità di essere vuoti.

Questa è la chiara implicazione di ciò che Bhagavan ci insegna nei tre versi che abbiamo considerato in questa sezione, vale a dire i versi 7 e 30 di Uḷḷadu Nāṟpadu e il verso 20 di Upadēśa Undiyār.

16. Upadēśa Taṉippākkaḷ verso 12: essere consapevoli della molteplicità è ignoranza

Nei versi 10 e 13 di Uḷḷadu Nāṟpadu Bhagavan ci insegna cos’è la vera conoscenza e la distingue da tutte le forme spurie di conoscenza. Nelle prime sezioni abbiamo già considerato il significato dei primi tre di questi quattro versi, così è ora tempo di considerare quello finale, vale a dire il verso 13. Tuttavia prima di fare questo sarebbe utile considerare il significato del verso 12 di Upadēśa Taṉippākkaḷ, che è una prima versione del verso 13 di Uḷḷadu Nāṟpadu. Entrambi questi versi sono stati composti da lui il 30 Luglio del 1928, ma avendo composto inizialmente il primo, più tardi lo ha modificato come il secondo per comprimere in esso più idee. Quindi, poiché alcune delle idee espresse in entrambe le versioni sono espresse più sinteticamente nella seconda, considerare il significato della prima può aiutarci a comprendere il significato che Bhagavan intendeva trasmettere nella seconda.

Nel verso 12 di Upadēśa Taṉippākkaḷ egli dice:
ஞானமொன் றேயுண்மை நானாவாய்க் காண்கின்ற
ஞானமன்றி யின்றாமஞ் ஞானந்தான் — ஞானமாந்
தன்னையன்றி யின்றணிக டாம்பலவும் பொய்மெய்யாம்
பொன்னையன்றி யுண்டோ புகல்.

ñāṉamoṉ ḏṟēyuṇmai nāṉāvāyk kāṇgiṉḏṟa
ñāṉamaṉḏṟi yiṉḏṟāmañ ñāṉandāṉ — ñāṉamān
daṉṉaiyaṉḏṟi yiṉḏṟaṇiga ḍāmbalavum boymeyyām
poṉṉaiyaṉḏṟi yuṇḍō puhal
.

பதச்சேதம்: ஞானம் ஒன்றே உண்மை. நானாவாய் காண்கின்ற ஞானம் அன்றி இன்று ஆம் அஞ்ஞானம் தான் ஞானம் ஆம் தன்னை அன்றி இன்று. அணிகள் தாம் பலவும் பொய்; மெய் ஆம் பொன்னை அன்றி உண்டோ? புகல்.

Padacchēdam (separazione delle parole): ñāṉam oṉḏṟē uṇmai. nāṉā-v-āy kāṇgiṉḏṟa ñāṉam aṉḏṟi iṉḏṟu ām aññāṉam tāṉ ñāṉam ām taṉṉai aṉḏṟi iṉḏṟu. aṇigaḷ tām palavum poy; mey ām poṉṉai aṉḏṟi uṇḍō? puhal.

Traduzione: Solo la conoscenza è reale. L’ignoranza non è altro che conoscenza che vede come molti, essa stessa non esiste oltre a se stessa, che è conoscenza. Tutti i molti ornamenti sono irreali; dimmi, essi esistono oltre all’oro, che è reale?
Nei versi 10 e 12 di Uḷḷadu Nāṟpadu Bhagavan usa le parole Tamil அறிவு (aṟivu) e அறியாமை (aṟiyāmai) per intendere rispettivamente conoscenza e ignoranza mentre in questo verso e nel verso 13 di Uḷḷadu Nāṟpadu usa invece le parole ஞானம் (ñāṉam) e அஞ்ஞானம் (aññāṉam), che sono forme Tamil delle parole Sanscrite ज्ञान (jñāna) e अज्ञान (ajñāna). Tuttavia in questo contesto ஞானம் (ñāṉam) ha esattamente lo stesso significato di அறிவு (aṟivu), vale a dire conoscenza o consapevolezza, e அஞ்ஞானம் (aññāṉam) ha esattamente lo stesso significato di அறியாமை (aṟiyāmai), vale a dire ignoranza, così nei termini di significato in questi versi l’uso di queste parole differenti non ha senso.

Nella prima frase di questo verso, ‘ஞானம் ஒன்றே உண்மை’ (ñāṉam oṉḏṟē uṇmai), ஞானம் (ñāṉam) significa conoscenza o consapevolezza nel senso di pura auto-consapevolezza, che secondo Bhagavan è solo la vera conoscenza, ஒன்றே (oṉḏṟē) è un termine enfatico che significa solo o soltanto (essendo una forma intensificata di ஒன்று (oṉḏṟu), che significa uno), e உண்மை (uṇmai) significa ciò che esiste realmente o ciò che è reale, così questa frase significa ‘solo la conoscenza è reale’ e implica che solo la pura auto-consapevolezza è ciò che esiste realmente.

Ogni conoscenza diversa dalla pura auto-consapevolezza è una conoscenza di qualcosa diversa da noi stessi, così in termini generali essa è ciò che Bhagavan descrive nella seconda frase come ‘நானாவாய் காண்கின்ற ஞானம்’ (nāṉā-v-āy kāṇgiṉḏṟa ñāṉam), che significa ‘conoscenza [o consapevolezza] che vede come molti’. Ciò a cui queste parole si riferiscono più precisamente è il nostro ego o mente, perché il nostro ego è la sola consapevolezza che vede o sperimenta qualsiasi cosa diversa da se stessa, così mentre ஞானம் (ñāṉam) nella prima frase si riferisce alla nostra pura auto-consapevolezza, qui la stessa parola si riferisce al nostro ego, che è una forma di auto-consapevolezza mischiata ad aggiunte.

Piuttosto che dire che il nostro ego vede molte cose, egli dice che esso ‘vede come molti’, perché molte cose non esistono realmente ma solamente sembrano esistere nella visione di questo ego. Ciò che esiste realmente è solo la pura auto-consapevolezza (come egli ha inteso nella prima frase), così quando sorgiamo come questo ego e sperimentiamo molteplici fenomeni, ciò che stiamo sperimentando come molti fenomeni è realmente solo noi stessi, che siamo auto-consapevolezza pura e non-duale.

Benché come questo ego sembriamo essere una conoscenza o consapevolezza che sperimenta non solo noi stessi ma anche molte altre cose, Bhagavan dice che questa conoscenza chiamata ego non è reale conoscenza ma solo ignoranza (ajñāna). Tuttavia, ciò che dice riguardo ad esso nella seconda frase non è solo che esso è ajñāna, ma che ajñāna non è altro che esso, così quando dice ‘நானாவாய் காண்கின்ற ஞானம் அன்றி இன்று ஆம் அஞ்ஞானம்’ (nāṉā-v-āy kāṇgiṉḏṟa ñāṉam aṉḏṟi iṉḏṟu ām aññāṉam), che significa ‘ignoranza, che è niente altro che conoscenza che vede come molti’, intende chiaramente che ciò che è chiamato ajñāna è solo il nostro ego e non esiste in sua assenza.

Sebbene ho tradotto le parole ‘அன்றி இன்று ஆம்’ (aṉḏṟi iṉḏṟu ām) come ‘che è niente altro che’ (poiché questo è ciò che significano), una traduzione più letterale di esse sarebbe ‘che è non-esistente oltre a’ o ‘che è non-esistente tranne come’, perché அன்றி (aṉḏṟi) è una congiunzione che significa tranne, oltre a, a parte, a meno che o ma solo, இன்று (iṉḏṟu) significa non-esistente o non esiste, e ஆம் (ām) è un participio relativo che significa che è. Dunque ciò che ‘நானாவாய் காண்கின்ற ஞானம் அன்றி இன்று ஆம் அஞ்ஞானம்’ (nāṉā-v-āy kāṇgiṉḏṟa ñāṉam aṉḏṟi iṉḏṟu ām aññāṉam) implica è che l’ignoranza (ajñāna) non esiste tranne come l’ego, la consapevolezza che vede l’unica cosa che esiste realmente (vale a dire noi stessi) come se fosse una moltitudine di fenomeni diversi.

Tuttavia, nella seconda frase di questo verso Bhagavan non solo dice che la conoscenza che vede come molti è ignoranza, ma dice anche che essa non esiste oltre a noi stessi, che siamo la reale conoscenza. L’intera frase è ‘நானாவாய் காண்கின்ற ஞானம் அன்றி இன்று ஆம் அஞ்ஞானம் தான் ஞானம் ஆம் தன்னை அன்றி இன்று’ (nāṉā-v-āy kāṇgiṉḏṟa ñāṉam aṉḏṟi iṉḏṟu ām aññāṉam tāṉ ñāṉam ām taṉṉai aṉḏṟi iṉḏṟu), che significa ‘ignoranza, che è niente altro che conoscenza che vede come molti, essa stessa non esiste oltre a se stessa, che è conoscenza’. In questo contesto தன்னை (taṉṉai), che significa ‘se stesso’, si riferisce al nostro sé reale, come indicato dalla proposizione relativa ‘ஞானம் ஆம்’ (ñāṉam ām), che significa ‘che è conoscenza’ e che implica che noi siamo la reale conoscenza (la conoscenza a cui si riferisce nella prima frase).

Le parole finali di questa frase, ‘தன்னை அன்றி இன்று’ (taṉṉai aṉḏṟi iṉḏṟu) significano che l’ignoranza (ajñāna) ‘non esiste a parte [oltre a, ad esclusione di o come diversa da] se stessa’, e per illustrare questo nelle due frase successive usa l’analogia dell’oro e degli ornamenti fatti di esso. Proprio come i molti ornamenti in cui l’oro può essere foggiato sono impermanenti, così tutti i fenomeni e l’ego che li sperimenta sono solo apparenze transitorie, e secondo Bhagavan qualunque cosa non è permanente non è reale (cioè, non esiste realmente ma solamente sembra esistere). Perciò egli dice ‘அணிகள் தாம் பலவும் பொய்’ (aṇigaḷ tām palavum poy), che significa ‘tutti i molti ornamenti sono irreali’. Tuttavia, proprio come la varietà di ornamenti d’oro non esisterebbe se non ci fosse l’oro, così l’ego e tutti i fenomeni che esso sperimenta non sembrerebbero esistere se la loro sostanza reale, che è noi stessi, non esistesse realmente. Questo è ciò che egli intende nella frase finale, ‘மெய் ஆம் பொன்னை அன்றி உண்டோ?’ (mey ām poṉṉai aṉḏṟi uṇḍō?), che significa ‘essi esistono a parte l’oro, che è reale?’.

Dunque in questo verso Bhagavan intende che la sola sostanza reale è noi stessi, che siamo pura auto-consapevolezza, e che niente altro esiste realmente. Qualunque altra cosa sembra esistere lo fa solo nella visione limitata e distorta del nostro ego o mente, che è la consapevolezza che sperimenta il nostro singolo sé come fenomeni molteplici, così la sostanza reale che sottende e supporta tutte queste false apparenze (vale a dire il nostro ego e tutti i fenomeni che esso sperimenta) è il nostro sé reale (ātma-svarūpa).

17. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 13: poiché noi solo siamo reali, essere consapevoli di qualsiasi altra cosa è ignoranza

La seconda parte del verso 13 di Uḷḷadu Nāṟpadu (cioè, dal piede finale della seconda riga fino alla fine) è esattamente lo stesso della seconda parte del verso 12 di Upadēśa Taṉippākkaḷ, così quando Bhagavan ha modificato il secondo come il primo ciò che ha cambiato è stata solo la prima riga e i primi tre piedi della seconda riga. Ciò che ha scritto nel verso 13 di Uḷḷadu Nāṟpadu è:
ஞானமாந் தானேமெய் நானாவா ஞானமஞ்
ஞானமாம் பொய்யாமஞ் ஞானமுமே — ஞானமாந்
தன்னையன்றி யின்றணிக டாம்பலவும் பொய்மெய்யாம்
பொன்னையன்றி யுண்டோ புகல்.

ñāṉamān tāṉēmey nāṉāvā ñāṉamañ
ñāṉamām poyyāmañ ñāṉamumē — ñāṉamān
taṉṉaiyaṉḏṟi yiṉḏṟaṇika ḍāmpalavum poymeyyām
poṉṉaiyaṉḏṟi yuṇḍō puhal
.

பதச்சேதம்: ஞானம் ஆம் தானே மெய். நானா ஆம் ஞானம் அஞ்ஞானம் ஆம். பொய் ஆம் அஞ்ஞானமுமே ஞானம் ஆம் தன்னை அன்றி இன்று. அணிகள் தாம் பலவும் பொய்; மெய் ஆம் பொன்னை அன்றி உண்டோ? புகல்.

Padacchēdam (separazione delle parole): ñāṉam ām tāṉē mey. nāṉā ām ñāṉam aññāṉam ām. poy ām aññāṉamumē ñāṉam ām taṉṉai aṉḏṟi iṉḏṟu. aṇikaḷ tām palavum poy; mey ām poṉṉai aṉḏṟi uṇḍō? puhal.

Traduzione: Solo se stesso, che è conoscenza, è reale. La conoscenza che è molti è ignoranza. Anche l’ignoranza, che è irreale, non esiste a parte se stessa, che è conoscenza. Tutti i molti ornamenti sono irreali; dimmi, essi esistono a parte l’oro, che è reale?
Mentre nella prima frase della prima versione di questo verso Bhagavan ha detto ‘ஞானம் ஒன்றே உண்மை’ (ñāṉam oṉḏṟē uṇmai), che significa ‘solo la conoscenza [o consapevolezza] è reale’, nella prima frase di questa versione finale ha detto ‘ஞானம் ஆம் தானே மெய்’ (ñāṉam ām tāṉē mey), che significa ‘solo se stesso, che è conoscenza [o consapevolezza], è reale’, chiarendo quindi che ciò che intendeva con ஞானம் (ñāṉam), conoscenza o consapevolezza, in questo contesto è solo noi stessi. In altre parole, ciò che siamo realmente è solo jñāna, che in questo contesto significa pura auto-consapevolezza, ‘io sono’.

Nella seconda frase egli dice ‘நானாவாம் ஞானம் அஞ்ஞானம் ஆம்’ (nāṉā-v-ām ñāṉam aññāṉam ām), che significa ‘conoscenza che è molti è ignoranza’. நானாவாம் ஞானம் (nāṉā-v-ām ñāṉam) significa letteralmente ‘conoscenza che è molti’, ma ciò che implica è conoscenza o consapevolezza della molteplicità. Poiché ciò che è reale è solo noi stessi, che siamo pura auto-consapevolezza, niente altro che noi stessi esiste realmente, così qualunque altra cosa che sembra esistere non è reale ma solo un’illusione o una falsa apparenza. Quindi conoscere qualsiasi cosa diversa da noi stessi non è conoscenza ma solo ignoranza. Poiché noi siamo uno, qualunque cosa appare come molti non è noi stessi e quindi non è reale, così conoscenza o consapevolezza della molteplicità è solo un’illusione.

Nella prima versione di questo verso, invece di dire che ‘நானாவாம் ஞானம்’ (nāṉā-v-ām ñāṉam) o ‘conoscenza che è molti’ è ignoranza (ajñāna), egli ha detto che ‘நானாவாய் காண்கின்ற ஞானம்’ (nāṉā-v-āy kāṇgiṉḏṟa ñāṉam) o ‘conoscenza che vede come molti’ è ignoranza. Benché ci sia una sottile differenza tra queste due idee, esse sono perfettamente compatibili, perché se le consideriamo insieme è chiaro che la visione di Bhagavan è che la conoscenza della molteplicità e l’ego, che solo sperimenta tale conoscenza, sono entrambi ignoranza. Cioè, la conoscenza della molteplicità non potrebbe sorgere in assenza dell’ego, perché ciò che conosce o sperimenta la molteplicità è solo questo ego, così se l’ego stesso è ignoranza, lo è anche la sua conoscenza della molteplicità.

Tuttavia, poiché la natura dell’ego è esattamente quella di essere consapevole di cose diverse da se stesso, e poiché esso ha origine e permane solo essendo consapevole di tali cose (come Bhagavan ha insegnato nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu), proprio come l’esistenza apparente della molteplicità dipende dall’esistenza apparente dell’ego, così l’esistenza apparente dell’ego dipende dall’esistenza apparente della molteplicità. Quindi l’ego, che è la ‘நானாவாய் காண்கின்ற ஞானம்’ (nāṉā-v-āy kāṇgiṉḏṟa ñāṉam) o ‘conoscenza che vede come molti’, e ‘நானாவாம் ஞானம்’ (nāṉā-v-ām ñāṉam) o ‘conoscenza che è molti’ sono mutualmente dipendenti, perché nessuno dei due può esistere senza l’altro.

Quindi, quando investighiamo noi stessi e sperimentiamo noi stessi come siamo realmente, non solo il nostro ego cesserà di esistere ma insieme con esso tutta la sua conoscenza della molteplicità anche cesserà di esistere. Quindi la sola conoscenza che rimarrà nello stato di vera auto-esperienza è la conoscenza ‘io sono io’ o ‘io sono niente altro che io’, che è pura auto-consapevolezza. Quindi la vera auto-conoscenza (ātma-jñāna) è lo stato privo di ogni conoscenza diversa dalla pura consapevolezza di noi stessi, ‘io sono’.

Tuttavia, benché la conoscenza della molteplicità sia solo ignoranza (ajñāna), nella terza frase di questo verso Bhagavan dice ‘பொய் ஆம் அஞ்ஞானமுமே ஞானம் ஆம் தன்னை அன்றி இன்று’ (poy ām aññāṉam-um-ē ñāṉam ām taṉṉai aṉḏṟi iṉḏṟu), che significa ‘anche l’ignoranza, che è irreale, non esiste a parte se stessa che è conoscenza’. Cioè, benché l’ego e la sua consapevolezza di molte altre cose siano entrambi irreali, anche queste apparenze irreali non potrebbero sembrare esistere se non fosse per la reale esistenza di noi stessi, che siamo pura auto-consapevolezza, che è la sola sostanza (poruḷ or vastu) che esiste realmente e che sola è quindi ciò che sottende e supporta l’esistenza apparente di ogni altra cosa.

Per illustrare questo, Bhagavan ancora una volta usa l’analogia dell’oro e degli ornamenti fatti di esso. Proprio come l’oro è la sola sostanza che appare nella forma di molti ornamenti d’oro, così la nostra pura auto-consapevolezza, ‘io sono’, è la sola sostanza che ora sperimentiamo come tutta la sua molteplicità. Tuttavia, mentre l’oro è una sostanza materiale e deve quindi avere sempre una forma, l’auto-consapevolezza non è né materiale né finita, così essa non ha mai realmente una qualche forma. Poiché tutte le cose finite sono forme di un tipo o di un altro, nessuna di esse è reale, così ogni cosa diversa da noi stessi è solo una falsa apparenza.

Ciò che fa sorgere la falsa apparenza di ogni cosa diversa da noi stessi è il nostro ego, che è ‘நானாவாய் காண்கின்ற ஞானம்’ (nāṉā-v-āy kāṇgiṉḏṟa ñāṉam), la ‘consapevolezza che vede come molti’ (cioè, la consapevolezza che sperimenta il nostro singolo sé come se fosse tutti questi fenomeni molteplici), così per liberare noi stessi dall’ignoranza di sperimentare molti fenomeni invece dell’unica pura auto-consapevolezza, che sola è ciò che esiste realmente, dobbiamo investigare questo ego per vedere ciò che realmente è. Secondo Bhagavan, questo ego non esiste realmente, così se lo investighiamo esso svanirà, essendo solo un fantasma illusorio che sembra esistere solo finché siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi.

18. Perché abbiamo paura di lasciar andare ogni cosa?

Quando riflettiamo sul significato di tutti i versi che abbiamo considerato in questo articolo, è chiaro che Bhagavan ci ha dato un’ampia certezza che lo stato di vera auto-conoscenza (ātma-jñāna) non è un vuoto assoluto (anche se è privo di ogni esperienza di qualsiasi cosa che non è reale) e quindi non è qualcosa che dobbiamo temere, ma nessuno di noi è ancora pronto a lasciar andare ogni cosa irreale per sperimentare ciò che solo è reale, vale a dire il nostro sé reale (ātma-svarūpa). Come Bob ha scritto nel suo commento, a cui questo articolo è una risposta, ‘Ti mentirei se dicessi che arrendere me stesso […] non è pauroso. E’ molto pauroso come ho paura di dissolvermi nello sconosciuto’.

La paura dello sconosciuto può essere un fattore che aiuta, ma la nostra riluttanza a lasciar andare ogni cosa è causata da più che quello, poiché uno stato in cui non sperimentiamo niente altro che noi stessi non è realmente qualcosa a noi sconosciuto, poiché sperimentiamo tale stato ogni volta che ci addormentiamo, e non temiamo il sonno per questa ragione. Infatti quando ci sentiamo stanchi diamo il benvenuto al sonno come un sollievo piacevole dall’attività mentale e fisica e da una corrente incessante di esperienze. Quindi, poiché non temiamo il sonno, perché temiamo la perdita del nostro ego?

Una ragione è che prima di addormentarci siamo fiduciosi del fatto che ci sveglieremo di nuovo, così non abbiamo paura di ciò, mentre se pensiamo che non ci sveglieremo più, avremmo paura del sonno. In altre parole, siamo felici di lasciar andare ogni cosa su una base temporanea in cambio di un po’ di riposo, ma non vogliamo lasciar andare ogni cosa per sempre anche se questo ci darebbe un riposo permanente. Poiché gustiamo il riposo che sperimentiamo nel sonno, perché non vogliamo sperimentare un riposo eterno in cui non sperimentiamo alcuna cosa diversa da noi stessi? La ragione è ovviamente che siamo attaccati a ciò che sperimentiamo nella veglia e nel sogno, così non siamo disposti a lasciar andare tali esperienze per sempre, e perciò ci aggrappiamo a qualsiasi cosa sperimentiamo come un ego.

Senza sperimentare noi stessi come questo ego limitato, non sperimenteremo mai qualsiasi cosa diversa da noi stessi. Nel sonno non sperimentiamo noi stessi come questo ego, e perciò non sperimentiamo nessun’altra cosa, ma ogni volta che sperimentiamo noi stessi come questo ego, sperimentiamo altre cose. Quindi la ragione per cui siamo così attaccati al nostro ego e che è solo attraverso questo ego che possiamo sperimentare qualsiasi altra cosa diversa da noi stessi.

Tuttavia, benché nella veglia e nel sogno possiamo godere qualche piacere fuggevole, sperimentiamo anche molte cose spiacevoli, come paura, ansietà, depressione, frustrazione, insoddisfazione, stanchezza, esaurimento, fame, sete, caldo, freddo, scomodità, dolore e angoscia, mentre nel sonno sperimentiamo solo un riposo piacevole e puro finché tale tempo di sonno è interrotto da un altro periodo di veglia o di sogno. La nostra riluttanza a dormire per sempre è quindi dovuta alla mancanza di saggezza da parte nostra, perché è ovviamente non saggio preferire i piaceri transitori e i dolori della veglia e del sogno alla pura pace e piacevolezza del sonno.

Perché questa mancanza di saggezza sorge in noi? La vera saggezza è una chiarezza interiore che ci permette di distinguere ciò che è reale e permanente da ciò che è illusorio e transitorio, così la mancanza di saggezza è il risultato di un oscuramento della nostra chiarezza interiore. Cosa ha causato questo oscuramento della nostra chiarezza interiore? Sperimentare qualsiasi cosa diversa da ciò che è reale non è chiarezza ma solo ignoranza e illusione, così la chiarezza è essenzialmente solo essere consapevole di niente altro che ciò che è reale. Quindi, poiché secondo Bhagavan noi solo siamo ciò che è reale, essere consapevoli soltanto di noi stessi è chiarezza, ed essere consapevoli di qualsiasi altra cosa è un oscuramento della nostra chiarezza. Quindi, poiché noi siamo consapevoli di altre cose solo quando siamo consapevoli di noi stessi come questo ego, la causa radice dell’oscuramento della nostra naturale chiarezza interiore è solo il sorgere del nostro ego. Così finché permettiamo a noi stessi di sorgere come questo ego, esso oscurerà la nostra chiarezza interiore e causerà il nostro preferire i piaceri transitori e i dolori della veglia e del sogno alla pura pace e felicità del sonno eterno.

Quindi nella misura in cui il nostro ego è indebolito otterremo la saggezza di riconoscere che la pura pace e gioia del sonno eterno è infinitamente preferibile alla mescolanza di piacere e dolore che sperimentiamo sia nella veglia che nel sogno. Qual'è allora il modo per indebolire il nostro ego? Secondo Bhagavan ciò che alimenta e nutre il nostro ego è la consapevolezza di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, così ciò che indebolirà ed infine distruggerà il nostro ego è solo la pratica di auto-investigazione (ātma-vicāra) – cioè, cercare ripetutamente e persistentemente di essere attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi.

Più cerchiamo di essere attentivamente auto-consapevoli più il nostro ego sarà indebolito, e quindi la nostra naturale chiarezza interiore di pura auto-consapevolezza sarà meno oscurata. Quindi il solo modo per liberare noi stessi dalla nostra attuale paura e riluttanza a lasciar andare ogni cosa diversa da noi stessi è di perseverare nel cercare di essere più possibile attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi.

18a. Perché, alla nostra mente sveglia, il sonno sembra essere stato uno spazio vuoto?

Nel suo commento Bob ha chiesto perché tutto ciò che ora possiamo ricordare di ciò che abbiamo sperimentato nel sonno è uno spazio vuoto o un nulla, o piuttosto perché non possiamo ricordare qualcosa tranne che esistevamo. Almeno egli è in grado di riconoscere che possiamo ricordare che nel sonno esistevamo, che significa che in quel momento dobbiamo aver sperimentato la nostra esistenza, perché molte persone sembrano non essere in grado di riconoscere questo, e benché alcune persone possono comprenderlo almeno vagamente quando è loro spiegato, il loro riconoscimento di ciò non è ancora molto chiaro. La misura in cui siamo chiaramente consapevoli che nel sonno sperimentavamo noi stessi è ampiamente determinata dalla misura in cui abbiamo praticato l’essere attentivamente auto-consapevoli, perché più siamo familiari con l’essere attentivamente auto-consapevoli più chiaro e ovvio ci sarà il fatto che eravamo consapevoli di noi stessi anche quando nel sonno non eravamo consapevoli di qualsiasi altra cosa. Quindi anche se non ci è ancora molto chiaro il fatto che nel sonno eravamo consapevoli di noi stessi, la chiarezza con cui riconosciamo questo fatto aumenterà se perseveriamo e approfondiamo la nostra pratica di essere attentivamente auto-consapevoli durante questo stato di veglia.

Riguardo alla domanda perché il sonno alla nostra mente di veglia sembra essere stato uno spazio vuoto, un vuoto o un nulla, esso sembra così solo perché confondiamo la nostra consapevolezza dei fenomeni nella veglia e nel sogno come reale e come la sola esperienza che c’è. In altre parole, poiché confondiamo நானாவாம் ஞானம் (nāṉā-v-ām ñāṉam) o consapevolezza della molteplicità come la vera conoscenza, confondiamo l’assenza di tale consapevolezza nel sonno come ignoranza, mentre secondo Bhagavan la consapevolezza della molteplicità è ignoranza e l’assenza di tale consapevolezza è vera conoscenza. Tuttavia, più andiamo in profondità nella nostra pratica di essere attentivamente auto-consapevoli più chiarò sarà per noi il fatto che a sottendere e a supportare tutta la nostra consapevolezza di qualsiasi altra cosa è la nostra consapevolezza di noi stessi, e che sia che siamo consapevoli di qualsiasi altra cosa o no, la nostra auto-consapevolezza fondamentale continua sempre senza interruzione.

E’ solo dalla prospettiva del nostro ego o mente, che non può esistere senza sperimentare fenomeni di un tipo o di un altro, che il sonno sembra essere uno spazio vuoto o uno stato di nulla – uno stato in cui non siamo affatto consapevoli di qualcosa – mentre di fatto il sonno è uno stato in cui siamo chiaramente consapevoli di noi stessi. Come Bhagavan, secondo le registrazioni, ha detto nel primo capitolo di Maharshi’s Gospel (edizione 2002, pag. 9):
Il sonno non è ignoranza, è il nostro stato puro; veglia non è conoscenza, è ignoranza. C’è una consapevolezza piena nel sonno e totale ignoranza nella veglia.
Perché allora la nostra mente non è distrutta dalla perfetta chiarezza di auto-consapevolezza che sperimentiamo nel sonno? Per distruggere la nostra mente, la perfetta chiarezza di auto-consapevolezza deve risplendere mentre stiamo sperimentando noi stessi come questa mente, mentre nel sonno questa chiarezza risplende solo dopo che la nostra mente è sprofondata completamente a causa di totale esaurimento. In altre parole, la nostra mente sarà distrutta solo quando il suo completo sprofondamento è effettuato dal risplendere dell’auto-consapevolezza perfettamente chiara, mentre nel sonno il risplendere dell’auto-consapevolezza perfettamente chiara è effettuato come risultato dello sprofondamento della nostra mente a causa di esaurimento. Questo è il motivo per cui possiamo effettuare la distruzione della nostra mente solo cercando di essere consapevoli soltanto di noi stessi anche mentre la nostra mente è sveglia o sta sognando.

Proprio come l’oscurità deve essere presente per essere dissolta dalla luce, la nostra mente deve essere presente per essere dissolta dalla perfetta chiarezza della pura auto-consapevolezza. Quindi, poiché nel sonno la nostra mente è assente, non può essere dissolta dalla pura auto-consapevolezza che sperimentiamo in quel momento. Quindi per annientare la nostra mente dobbiamo cercare nella veglia o nel sogno, quando la nostra mente è presente, di essere consapevoli di noi stessi chiaramente in completo isolamento da ogni consapevolezza di qualsiasi altra cosa.

La nostra mente sorge nella veglia o nel sogno solo proiettando e simultaneamente divenendo consapevole di cose diverse da noi stessi, ed essa permane solo continuando a proiettare e a essere consapevole di tali cose, così quando non ha più energia sufficiente per continuare a proiettare queste cose essa sprofonda nel sonno profondo. Quindi prima che essa sprofondi nel sonno o in ogni altro stato di manōlaya (cioè, in ogni stato simile al sonno di sprofondamento temporaneo), dobbiamo cercare di essere consapevoli soltanto di noi stessi, perché solo se diveniamo consapevoli soltanto di noi stessi prima che essa sprofondi nel sonno o in manōlaya, sprofonderà per sempre in manōnāśa (lo stato di completa e finale distruzione), dal quale essa non può più sorgere nuovamente.

Ogni volta che la nostra mente non è sprofondata in manōlaya o in manōnāśa, noi sperimentiamo costantemente fenomeni, che sono apparenze temporanee e quindi totalmente irreali. Ogni fenomeno che sperimentiamo nella veglia o nel sogno è caratterizzato da certe caratteristiche, ed è per mezzo delle loro caratteristiche che siamo in grado di distinguere un fenomeno da un altro e ciascun fenomeno da noi stessi. Nessun fenomeno può essere distinto dalle sue caratteristiche più essenziali, così ciò che costituisce ogni fenomeno sono solo le sue caratteristiche essenziali, e perciò senza caratteristiche non ci sarebbe alcun fenomeno.

Quindi tutta la molteplicità che sperimentiamo nella veglia e nel sogno consiste solo di caratteristiche, mentre nel sonno non sperimentiamo affatto caratteristiche, tranne che l’assenza di ogni caratteristica che sperimentiamo negli altri due stati. E’ perché il sonno è un’esperienza senza caratteristiche, e perché confondiamo la nostra consapevolezza di caratteristiche nella veglia e nel sogno come la sola esperienza reale che c’è, che confondiamo il sonno come uno stato privo di ogni esperienza di consapevolezza. Tuttavia, proprio come sperimentiamo la presenza di molteplici caratteristiche nella veglia e nel sogno, sperimentiamo la loro assenza nel sonno, e poiché dobbiamo esistere ed essere consapevoli della nostra esistenza per essere consapevoli della loro presenza o della loro assenza, esistiamo realmente e siamo consapevoli della nostra esistenza nel sonno non meno di quanto lo siamo nella veglia o nel sogno.

Quindi, benché il sonno sia privo di qualsiasi consapevolezza di ogni caratteristica, non è un vuoto, perché è pieno della nostra consapevolezza di noi stessi sempre presente. Nello stesso modo, benché la vera auto-conoscenza (ātma-jñāna) sia priva di qualsiasi consapevolezza di ogni caratteristica, non è un vuoto, perche è piena della nostra consapevolezza di noi stessi sempre presente. Quindi la vera auto-conoscenza non è un’esperienza di cui dobbiamo avere paura, perché benché sia priva di ogni altra cosa, è piena di noi stessi, e noi siamo sat (ciò che esiste realmente), cit (ciò che è consapevole) e ānanda (ciò che è perfettamente felice).

Sebbene il fatto che noi siamo l’infinita, eterna e indivisibile pienezza di sat-cit-ānanda non ci sia del tutto chiaro al momento, esso ci diverrà assolutamente chiaro se perseveriamo pazientemente nella nostra pratica di auto-investigazione: cercare di essere attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi ogni volta che non siamo addormentati.

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